Trent'anni fa, quando Comiso era la Val di Susa
Fonte: Linkiesta
A Comiso erano arrivati, percorrendo una vecchia strada provinciale proveniente da Catania, nei modi più svariati: in macchina, in moto col sacco a pelo, sui pullman, perfino con l’autostop, sui camion degli autotrasportatori di primizie. Era estate, l’8 agosto 1983. Volevano opporsi all’installazione dei Cruise, impedire agli automezzi militari di portare i missili nucleari e alle impastatrici degli operai di entrare nell’area sorvegliata. La ragion di Stato, fino a quel momento, aveva vinto e il programma del governo, in accordo con gli Usa, era andato avanti.
Gente di tutte le età si era data appuntamento e si apprestava ad esprimere una protesta pacifica. Erano gruppi di pacifisti, giunti da ogni parte d’Italia, e anche d’Europa, per fare blocco davanti al cancello dell’aeroporto del Magliocco. Erano giovani e meno giovani: nuovi obiettori di coscienza, pacifisti storici, antifascisti che avevano fatto la Resistenza, ex sessantottini, autonomisti, antagonisti. C’erano pure molti bambini che osservavano con curiosità i poliziotti schierati a muro davanti al cancello e i pacifisti che si erano accovacciati a semicerchio per terra in duplice fila.
C’era il movimento delle donne: giovanissime, che portavano giacche indiane e la kefiah sopra le spalle, erano state loro a bloccare i camion, semplicemente infilandocisi sotto, fra ruota e ruota. E così i Cruise avevano dovuto aspettare, ancora. Alcune di loro avevano usato un modo davvero singolare e stravagante: erano arrivate al cancello della base militare con enormi gomitoli di lana ed avevano cominciato a fare il girotondo fra i poliziotti esterrefatti, svolgendo il filo finché cancello, poliziotti e ragazze non avevano finito per essere tutti avvolti in una “ragnatela” colorata, chiamata pace. Sul muro sovrastato dal filo spinato, dietro una lunghissima fila di eucalipti, quel giorno i pacifisti avevano appeso un enorme striscione di tela con la scritta: «Vogliamo vivere, vogliamo amare, diciamo no alla guerra nucleare!».
Si era giunti a quel giorno, dopo lunghe polemiche, dure contrapposizioni, infiniti discorsi. La Dc, il Psi di Craxi e i partiti laici minori (in particolare il Pri di Spadolini) si erano schierati compatti a difesa delle decisioni del governo. Il Pci locale, così come la federazione giovanile, aveva appoggiato senza distinguo la protesta anti-nucleare, ma dalla direzione nazionale era arrivato l’ordine di mantenere la calma e di non sbilanciarsi troppo. La stampa, i media, i palazzi della politica, avevano fatto notare ai cittadini di Comiso che l’arrivo degli americani (centinaia di famiglie che si spostavano per accompagnare i militari) avrebbe ravvivato tutta l’economia della zona. Insieme erano arrivati anche i timori per le speculazioni della criminalità organizzata.
In pochi, nelle istituzioni, presero le difese dei giovani pacifisti. Tra questi, il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che già qualche tempo prima, al Consiglio d’Europa a Strasburgo, si era espresso apertamente in favore di un disarmo totale, lo rimarcò nel consueto messaggio di fine anno del 1983. Berlinguer fece notare al governo che forse non era il caso di insistere vista la vicinanza con l’anniversario della bomba atomica sganciata su Hiroshima.
A dire il vero, in quel caso, la politica non ebbe né il tempo né la capacità di gestire la situazione e di anestetizzarla a suo modo. Si verificò, infatti, qualcosa di spontaneo, mai prima accaduto nella movimentata storia siciliana: era partita un’ondata di protesta che aveva presto superato lo stretto di Sicilia, per raggiungere le più importanti piazze d’Italia, valicando anche i confini nazionali. In pochissimo tempo si formarono dei Comitati per Comiso per impedire la realizzazione del progetto della Nato. Migliaia di persone nelle piazze a manifestare. A differenza del passato, il movimento di massa non fu gestito dai partiti, né dai sindacati, ma rimase una spontanea forma di mobilitazione in cui si trovarono uniti gruppi ecologici indipendenti, associazioni di cittadini, comunità religiose, classi scolastiche, contadini, commercianti, semplici cittadini.
Quel giorno, schierati a difesa degli operai che dovevano costruire la base missilistica, c’era una folta schiera di poliziotti e carabinieri, fatti partire di prima mattina dalle caserme della vicina Ragusa e di Catania. Erano giovani anch’essi, e stavano schierati in piedi, nelle loro divise cachi e azzurre, davanti al cancello, a fronteggiare i giovani pacifisti accovacciati per terra. Era una situazione simile a quelle che Pasolini aveva già descritto molti anni prima nei suoi pungenti articoli sul Sessantotto, sui borghesi, studenti e poliziotti.
Mentre la manifestazione si svolgeva assolutamente in modo pacifico, ad un certo punto accadde qualcosa di imponderabile. I giovani lanciavano improperi e accuse ai politici e alcuni agenti, impauriti dall’aggressività verbale, presero l’iniziativa e li caricarono alle spalle. I militari davanti al cancello, anche loro, si avventarono contro gli altri ragazzi, che non ebbero neppure il tempo di alzarsi. Per paura della reazione, gli agenti caricarono, sopra le teste e le braccia dei ragazzi, chiusi là in mezzo. Prima si sentirono urla e lamenti, poi un grande polverone si levò dalla terra. Alcuni riuscirono ad alzarsi e a scappare dai lati verso i campi. Altri agenti, presi alla sprovvista da alcuni giovani che avevano risposto alla carica, iniziarono a sparare i lacrimogeni. Altri ancora inseguirono i ragazzi e le ragazze che scappavano, coinvolgendo negli scontri anche medici e infermieri, preti, giornalisti e fotografi, che avevano cercato, inutilmente, di far tornare la calma. Alla fine della giornata si contarono 18 fermati e circa un centinaio di feriti e contusi, di cui 4 molto gravi.
Subito gli italiani solidarizzarono con il movimento. Il Pci, come accadde in tutte le più importanti battaglie sui diritti, seguì a ruota la società civile. Poi vennero Chernobyl e il referendum vinto contro il nucleare civile. La vicenda si concluse, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della contrapposizione dei blocchi Usa-Urss, con la smilitarizzazione dell’area dell’aeroporto di Comiso e con la vittoria dei gruppi pacifisti.
In Val di Susa, il 25 febbraio 2012, c’è stato un corteo variegato e pacifico.
La giornata di mobilitazione contro la Tav, cioè la linea dell’Alta Velocità Torino-Lione, ha visto protagonisti diverse realtà sociali provenienti da tutta Italia, dai gruppi locali ai centri sociali, dalle associazioni ambientaliste ai movimenti per l’acqua pubblica, dai collettivi studenteschi alla Fiom, da alcuni partiti di sinistra a semplici cittadini, tantissime donne, vecchi, bambini e stranieri.
Le ragioni della protesta sono, in sintesi, il devastante impatto ambientale, gli alti costi dell’opera, la mancanza di dialogo con le popolazioni locali da parte dei governi e delle forze di maggioranza in parlamento. Cori, slogan e musica caratterizzano il corteo composto da migliaia di persone, con in testa i familiari degli attivisti arrestati in precedenza per alcuni scontri con la polizia. Nei giorni scorsi, com’è accaduto già in altre occasioni passate, per esempio nel luglio 2011, alcuni gruppi isolati di violenti hanno cominciato a lanciare pietre e petardi e a ingaggiare scontri con le forze dell’ordine, che hanno risposto con cariche ed uso di gas lacrimogeni.
A prima vista, si tratta di due situazioni che potrebbero apparire molto diverse, quella di Comiso e della Val di Susa, eppure non lo sono affatto. La partita che si gioca tra popolazioni locali e ragion di Stato è la stessa.
Fonte: Linkiesta
Obiezione e aborto: storie di un paese incivile
Fonte: Internet
Nell'autunno del 1957 il corpo di una ragazza di diciassette anni veniva adagiato su un tavolo anatomico, nella penombra di una stanza dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Palermo. La giovane, in fin di vita, era stata trasportata dal suo piccolo paese nell'interno siciliano in un disperato tentativo di salvarla, ma era morta lungo la strada provinciale. Intorno al suo corpo, ormai cadavere, i medici cercavano di svelare il segreto di quella morte improvvisa. Unici indizi visibili due grandi cerotti applicati all'altezza dei reni, di quelli usati contro il mal di schiena, e i segni di una serie di ipodermoclisi sugli avambracci, a seguito di un lavaggio del sangue. L'autopsia accertò subito che da tre mesi la giovane era incinta, ma soprattutto che era morta avvelenata, perché nel suo corpo erano state rinvenute tracce di segala, un'erba che nei paesi di campagna veniva usata per interrompere le gravidanze. Solo dopo qualche tempo il caso venne denunciato all'autorità giudiziaria. Le indagini iniziarono a far luce sulla vicenda: la ragazza era fidanzata con un cugino di qualche anno più grande; quando questi capì che la cugina aspettava un bambino, consultò una vecchia "mammana" che, per tremila lire, gli procurò un mazzetto di erbe secche. La giovane, seguendo i consigli del fidanzato, iniziò ad applicare le erbe e a bere l'intruglio, un po' al giorno, ma dopo poco cominciò a star male, a vomitare e ad avvertire atroci dolori al ventre e ai reni. I genitori, ignari di tutto, dopo aver provato una cura casalinga con dei cerotti, si resero conto che il dolore della figlia peggiorava e chiamarono il medico di famiglia. Questi, pensando a una forma di avvelenamento, ma ignorando che la ragazza continuasse a bere il decotto, eseguì il lavaggio del sangue. La decisione del ricovero in ospedale avvenne quando ormai era troppo tardi.
La storia raccontata è solo una delle tante di aborto clandestino procurato degli anni precedenti all'approvazione della legge 194, e delle pochissime rese pubbliche grazie alla prima inchiesta di Milla Pastorino uscita su "Noi donne" nel 1961.
Nel 1978, in ritardo rispetto agli altri paesi europei più avanzati, giunse la legge. A distanza di più di trent'anni, una relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, riconosce una diminuzione del 50% (115 mila casi) rispetto al 1982, anno in cui fu registrato il più alto ricorso all'aborto, con ben 234 mila casi. Qualche giorno dopo l'approvazione di quella discussa legge, gli "indipendenti di sinistra", che avevano contribuito attivamente all'approdo finale, sostennero che il numero troppo elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici si sarebbe potuto trasformare in un "vero e proprio boicottaggio della legge". A loro avviso, andava puntualizzato che non avrebbe potuto fare obiezione di coscienza chi non partecipava direttamente all'aborto e che gli stessi obiettori avrebbero dovuto svolgere tutte le attività che non riguardavano l'intervento abortivo in senso stretto.
Le prime luci del giorno penetrano nella stanza di un ospedale romano dove una giovane donna è in lacrime nel suo letto. Si trova lì ormai da due giorni per subire un intervento abortivo. Siamo nel Duemila, già inoltrato da un bel po'. La vita che porta in grembo da più di venti settimane è affetta da una gravissima malformazione al cervello, tutti gli specialisti consultati le hanno sconsigliato di portare a termine la gravidanza. La procedura di induzione consiste nell’introduzione nell’utero di alcune "candelette" di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla dodicesima settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto. L'attesa della donna si è protratta tantissimo perché il giorno del ricovero erano di turno solo medici obiettori di coscienza. E tutti si sono rifiutati puntualmente di avviare la procedura. Alla donna non è rimasto che piangere ed attendere che iniziasse il turno di un medico non obiettore.
Questo è solo uno dei tantissimi casi di donne, documentato da una inchiesta di Cinzia Sciuto pubblicata su "D" di Repubblica, che, nonostante la legge lo stabilisca, hanno dovuto attendere moltissimo tempo prima di poter effettuare l'interruzione di gravidanza.
Quello dell'aborto sta diventando sempre più, proprio come alcuni avevano previsto nei giorni appena successivi all'approvazione della 194, un vero e proprio percorso ad ostacoli.
I dati parlano chiaro: i ginecologi obiettori di coscienza sono passati dal 58% del 1994 al 69% del 2006 fino al 70,7% del 2009; gli anestesisti obiettori sono passati dal 45% del 2003 al 51,7% del 2009; il personale non medico obiettore è passato dal 38% del 1994 al 44,4% del 2009. Va ricordato che percentuali di obiezione superiori all’80% tra i ginecologi si osservano in Basilicata, in Campania, in Molise e in Sicilia. Non esiste, inoltre, un elenco dei medici non obiettori. Secondo una indagine empirica fatta da un'associazione di volontari, risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sarebbero circa 150, molti dei quali in età avanzata, che presto andranno in pensione.
Di recente, alla luce di questi dati, qualcuno ha ritenuto che l'obiezione di coscienza all'aborto per i medici andrebbe addirittura vietata. E' evidente che oggi, chi decide di fare il ginecologo, sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, e che rientra nei suoi obblighi professionali. Gli ospedali non dovrebbero trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché si tratta di un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194. E' anche vero che non si può obbligare chi obietta, per cui andrebbe semplicemente bilanciato meglio, prevedendo procedure specifiche, il rapporto tra medici obiettori e non.
Nella riflessione di un medico che non ha obiettato, Giovanni Fattorini, si coglie la particolarità di un paese come il nostro, in cui chi fa coraggiosamente il proprio dovere rischia perfino di essere malvisto:
“Siamo stati in pochi, in questi anni, ad occuparcene nel concreto. All'inizio, quasi con titubanza, poco incoraggiati quando non malvisti da entrambe le parti: colpevoli “abortisti” per gli uni, poco difesi, quasi “imbarazzanti” per gli altri. Noi abbiamo continuato a incontrare centinaia di donne, ma anche uomini e bambini, quelli nati e quelli che non sono nati. In molti ci hanno rimesso la carriera, mente altri l'hanno fatta perché schierati “correttamente”. Certificare frettolosamente è facile, ragionare ed entrare in relazione con la singola donna, invece, è molto complicato. Operare nel concreto di ogni situazione, unica ed irripetibile, è difficile. Lo abbiamo fatto senza sentirci eroi, ma medici che hanno a cuore il proprio dovere: quello verso ogni persona e verso la propria comunità civile. Lo abbiamo fatto in condizioni ospedaliere proibitive.”
In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalità. Le donne che richiedono l'applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.
Fonte: Cronache laiche
Se la sinistra entra in pista senza automobile
Fonte: Qualcosa di Sinistra
E’ ormai risaputo, del tutto assodato, che l’Italia delle istituzioni pubbliche, così come la sua classe politica, è completamente delegittimata. E allora che si fa? – chiederete voi. Che succederà quando questo governo tecnico terminerà il suo compito e sarà ridata la parola agli elettori?
La soluzione prospettata dai principali partiti, cioè la riforma del meccanismo di elezione che modifica i criteri (mescolando proporzionale e maggioritario a seconda delle convenienze del momento) e mantiene la scelta dei candidati alle segreterie, non ci piace per nulla.
Non ci piace neppure, peraltro, l’idea che passa in molti ambienti della cosiddetta anti-politica, cioè l’eliminazione dei partiti, la partecipazione diretta dei cittadini alla politica non si sa bene poi con quali criteri, il respingimento delle candidature sulla base di fedine penali o esperienze politiche passate, come se bastasse l’aver fatto, anche bene, il consigliere comunale o l’assessore in una giunta per macchiarsi in eterno di una specie di colpa primigenia.
No, la questione posta in questo modo è astratta: in una democrazia parlamentare, sono sempre e comunque le forze politiche, che piaccia o meno, i soggetti che agiscono e prendono le decisioni. Occorre assolutamente riformarli, dunque, anche stravolgerli nella loro struttura, per cambiare le istituzioni nel profondo.
Si illude, infatti, chi ritiene l’attuale Pdl logoro, il Terzo Polo inconsistente, il Pd disorientato. Apparentemente è proprio così, ma in realtà questi partiti hanno dimostrato di avere risorse inesauribili, a volte con accordi sottobanco, altre volte perfino alla luce del sole, per superare indenni qualsiasi crisi. Andreottianamente, verrebbe da dire. Di certo, non sembrano capaci di saper mobilitare gli elettori e di compiere quelle riforme di cui parlano, viene ormai da dubitare quanto sinceramente, da anni. Però, è pur sempre vero che questi partiti, insieme, raggiungono circa la metà dei voti degli elettori, checché ne pensi l’antipolitica.
Il discredito in cui essi versano, oggettivamente, è davvero tanto. Non è, peraltro, una novità. Capitò qualcosa di simile dopo Tangentopoli: Dc, Psi e partiti minori furono spazzati via, l’ex Pci poi Pds si salvò per il rotto della cuffia, ma, timido, informe, indeciso, non seppe mettere in piedi quella alternativa di riformismo militante che sarebbe servita per cambiare fin dalle fondamenta il paese. Poi venne Berlusconi, il resto lo conosciamo.
Che fare, dunque?
Il vero problema della crisi politica italiana (ma anche di quella economica e sociale) è la mancanza di forze politiche nuove. Senza questa condizione, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, non ci sarà alcun reale rinnovamento, lo stato italiano continuerà, più o meno inesorabilmente, il suo declino, fino ad arrivare ai livelli più bassi tra le cosiddette democrazie, non solo europee, su tutti i fronti: Pil, lavoro, ricerca e sviluppo “umano”, diritti.
Ci sovviene in aiuto la storia. Di fronte al sommovimento radicale dovuto a Tangentopoli, non spuntò come un fungo solo Berlusconi, ma ci furono anche altri fenomeni: il tentato rinnovamento del Pri, la nascita della Rete di Orlando, Dalla Chiesa e Novelli, i sindaci della sinistra critica, la stessa Lega Nord, che comunque esprimeva una reale voglia di cambiamento, sebbene eterogenea e ambigua. Proprio come accade oggi, con il movimento Cinque stelle, con Sinistra ecologia e libertà, con la rete dei sindaci Pisapia e De Magistris, e con altri gruppi più o meno visibili.
A questo quadro ricco ma molto vario, vanno aggiunti gruppi di intellettuali, associazioni, riviste, movimenti, una vasta area di operatori e soggetti sociali, per usare un termine per la verità un po’ abusato, la cosiddetta “società civile”, tutta gente non iscritta ad alcun partito, che vorrebbe costituire una nuova politica. Soggetti caratterizzati da un bisogno di rappresentatività in parlamento, che fino ad oggi non si è mai potuto realizzare, sia per colpa delle tradizionali forze politiche, sia per colpa del proprio velleitarismo, della propria conflittualità. Ma anche da un bisogno di moralità, di pulizia, di “buona politica”, che si è espresso in più occasioni, idealmente nei movimenti di piazza, con studenti, lavoratori, pensionati, donne (si pensi alla imponente manifestazione del “Se non ora quando”), e più concretamente, nei referendum autogestiti sui beni pubblici (che non a caso ha ricordato, storicamente, la mobilitazione atipica sul referendum contro il nucleare militare e poi civile degli anni ottanta, con i partiti a ruota della società), con un risultato a tal punto imprevedibile, quasi stupefacente, da rompere completamente i vecchi e usurati schemi politici, anche con l’aiuto di una risorsa nuova, insperata, e quanto mai democratica, come i social network.
Finora i partiti tradizionali hanno dormito sonni abbastanza tranquilli perché queste forze si sono mosse in modo sfilacciato, disarticolato, eterogeneo. Ma l’esistenza di fili conduttori, aspirazioni e ideali che li uniscono, in particolare temi come la critica al neo-liberismo, la lotta alla corruzione, la battaglia contro la criminalità, la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, rappresenta la base per la costruzione di una nuova forza politica capace di interpretare correttamente le richieste e di seguire le dinamiche di una società moderna e globale completamente mutata rispetto al passato.
In una nuova situazione di transizione politica come l’attuale, questi soggetti, che sono la parte indubbiamente più viva e dinamica della società italiana, sottopongono quotidianamente a una critica impietosa la forma-partito, uno strumento giudicato ormai non più intoccabile. In tal senso, l’unico modo che il partito avrebbe per salvarsi dal naufragio e per rimanere in vita, è quello di evitare di chiudersi nella solita funzione decisionale burocratica e di vertice (a questo proposito dovrebbe far pensare il fatto che, nei vari appuntamenti delle primarie, da Vendola a De Magistris da Pisapia a Zedda, fino al recente Doria, venga sempre premiato il candidato che non è espressione diretta del partito), e di aprirsi al microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale, interloquendo con esso a partire dai problemi del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’immigrazione, della pace.
Lo si è visto nella parabola del Pd, che pure inizialmente era stato accolto in modo entusiasta dall’elettorato del centro-sinistra: un patrimonio di speranze è stato sprecato incredibilmente e la colpa ricade, senza scusanti, nell’attuale dirigenza, che dovrebbe quantomeno fare autocritica, cospargersi la testa di cenere, e aprirsi finalmente all’esterno. Anzi, per dirla alla Moretti, dovrebbe aprire le porte a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, e dire “venite, venite nel partito, prendetelo!”.
Nel Pd, infatti, storie troppo diverse, pregiudizi, interessi immediati contrastanti, gruppi di potere non disponibili a lasciarsi liquidare, hanno condizionato e condizionano tuttora fortemente le nuove leve, ed i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti: disorientamento assoluto dell’elettorato abituale, vento dell’antipolitica.
E’ bene anche dire, per correttezza, che il quadro del rinnovamento sarebbe incompleto se non si aggiungesse quella minoritaria parte di mondo racchiuso nei partiti tradizionali, che pure spinge, timidamente, in direzione del cambiamento. Ci sono pezzi e soggetti costruttivi anche dentro ai partiti tradizionali, è evidente. Se anziché parlare di Pdl si parlasse di elettorato di centro-destra, se anziché dire Terzo Polo si dicesse elettore moderato, se anziché scrivere Pd si intendesse centro-sinistra, se invece di Chiesa ci si riferisse al mondo cattolico della base, si capisce bene come in queste realtà esistano forze vere e sincere, schierate contro la degenerazione e la corruzione, con le quali poter costruire una politica nuova.
Va assolutamente evitato di riproporre meccanismi e dinamiche vecchie, destinate alla sconfitta, foriere solamente di illusioni. Il popolo del centro-sinistra ne ha subite fin troppe, fin dal lontano ’48: negli anni sessanta la divisione tra Pci e Psi scavata dal centro-sinistra, negli anni settanta quella dovuta al compromesso storico, negli anni ottanta il craxismo, negli anni novanta i contrasti dell’Ulivo, infine, l’indeterminatezza del Pd.
E’ giunto il momento che le forze vitali della società mettano da parte divisioni e rancori, che i pochi settori vivi dentro i partiti della sinistra si uniscano per dar vita ad una forza politica di sinistra completamente nuova, che selezioni, in modo partecipato e democratico, sulla base delle competenze professionali, la propria giovane classe dirigente, capace di parlare un linguaggio moderno, dinamico ma carico di contenuti e non ignaro del ruolo fondamentale della memoria storica. La storia recente dimostra che costruire un calderone vuoto, un partito liquido senza spina dorsale, senza riferimenti culturali precisi, è stato dannosissimo. Parlare di alleanze, di primarie, di candidato premier e di programma politico, allo stato attuale, è del tutto inutile. Sarebbe, semplicemente, come entrare in pista senza automobile.
Fonte: Qualcosa di Sinistra
Divorzio breve: l'Italia dei diritti si avvicina all'Europa
Fonte: Internet
È ripreso l’iter per il “divorzio breve”. Monti, come fecero già Moro e Andreotti su divorzio e aborto, eviterà di prendere posizione, rendendo possibili maggioranze trasversali. La legge attuale infatti prevede 3 anni di separazione prima della possibilità di divorziare.
La storia delle modifiche non ha avuto vita facile. Nel 2003 la deputata Ds Montecchi firmò la prima proposta, prevedendo una riduzione dei tempi per le coppie senza figli e disposte a presentare una richiesta consensuale. Dopo l’accordo in commissione, tutto finì con un nulla di fatto: la Chiesa e i cattolici intransigenti, nonché gli avvocati, svolsero una efficace azione di contrasto e rimandarono la discussione. In aula fu approvato con voto segreto un emendamento di Lega e Udc che cancellava la sostanza di quel disegno di legge. Rutelli, un tempo sostenitore radicale della legge sul divorzio, dichiarò solennemente: «Nell’agenda delle priorità italiane il divorzio breve è al cinquecentesimo posto». Oggi il Pd vuole abbassare la soglia ad un anno, in tutti i casi. Il Pdl sarebbe d’accordo all’abbassamento ma solo in assenza di figli minorenni. I “guastafeste” i radicali vorrebbero il divorzio “lampo”, cioè senza attese. L’Udc appoggerebbe una riduzione dei tempi ma solo fino a 2 anni, mantenendoli a 3 in presenza di minori.
Il punto è che il “limbo” che passa tra la separazione e il divorzio non serve da pausa di riflessione, come era nelle intenzioni del legislatore più di quarant’anni fa, ma diventa un periodo di alta conflittualità tra i coniugi, nonché di sofferenze per i figli. Molte coppie si rivolgono alla Sacra Rota, il tribunale ecclesiastico che permette di dichiarare “nullo” il matrimonio religioso, con un giro d’affari non indifferente e con cause fuori tariffa. Altre finiscono ad affittare appartamenti all’estero, per avere una residenza momentanea e ottenere così il divorzio (che lo Stato italiano si limita a trascrivere).
Ma in Italia siamo sempre stati un passo indietro. Mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra o in Francia, il divorzio esisteva da secoli, qui da noi, ancora negli anni Cinquanta, si inventava il “piccolo divorzio”: un disegno di legge che limitava la possibilità di divorzio a casi particolarmente drammatici, se uno dei coniugi fosse un serial killer, o un malato di mente, o semplicemente stesse in carcere da decenni per tentato omicidio o, al limite, dopo una separazione per più di quindici anni. Ovviamente non se ne fece nulla, e si dovette aspettare il 1970 con la legge Fortuna-Baslini e il referendum del 1974 per veder sancita una conquista civile che altrove era già data per acquisita.
Si potrebbe ricordare che in Inghilterra, alla metà degli anni Sessanta, si ebbe una svolta nell’opinione pubblica, quando un autorevole commissione creata dall’arcivescovo di Canterbury sostenne, senza alcuno scandalo pubblico, la necessità di riformare radicalmente le leggi esistenti, introducendo il principio del fallimento o del disfacimento della comunione di vita familiare come unica causa del divorzio. In Italia sarebbero parsi dei marziani, e invece, secondo questa commissione, la società non aveva alcun interesse a far sopravvivere l’involucro giuridico del matrimonio, quando al suo interno questa comunione fosse venuta meno. Doveva, invece, fare tutto il possibile perché lo scioglimento di questo vincolo non comportasse alti costi umani, ma avvenisse con il minimo di sacrificio e di tempi. Appunto, di tempi.
In Svezia la richiesta di divorzio viene automaticamente e immediatamente accettata se a presentarla sono entrambi i coniugi; se uno dei due si oppone ci vogliono al massimo 6 mesi. Tempi minori rispetto a noi ci sono un po’ ovunque in Europa (tranne che in Irlanda, in Polonia e in qualche stato minore): da pochi mesi al massimo a 2 anni in Francia, in Svezia, in Olanda, in Inghilterra, in Germania. Il “divorzio espresso” è stato introdotto, nel 2005, in Spagna, con la possibilità di divorziare unilateralmente, senza alcun motivo e in modo immediato. In Brasile, di recente, si può richiedere il divorzio dopo due anni di provata separazione coniugale, senza la necessità di dover passare dal tribunale, e con effetti immediati qualora i coniugi siano in accordo fra loro o non abbiano figli minorenni.
È avvenuta, negli ultimi decenni, una rivoluzione silenziosa nella vita di coppia degli italiani: il numero dei divorzi è cresciuto, quello dei matrimoni è diminuito, determinando grandi cambiamenti sociali: la diffusione delle convivenze prematrimoniali, la moltiplicazione di nuovi tipi di famiglie, nucleari incomplete e ricostituite. Questo processo ha messo in moto dinamiche di mobilità sociale un tempo impensabili, ma ha anche creato nuove povertà. Ci ha avvicinato, in ogni caso, a tutti gli altri paesi industrializzati occidentali.
Secondo i più recenti dati dell’Istat, nel 2009, le separazioni in Italia sono state 86mila e i divorzi 54mila. I due fenomeni sono in costante crescita: se nel 1995, ogni mille matrimoni si sono registrati 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2009 sono passati a 297 separazioni e 181 divorzi. Per dare l’idea dell’aumento, si pensi che, nel 1978 (a 8 anni dalla legge e a 4 dal referendum), i divorzi erano appena 12mila e le separazioni solo 34mila. Sempre nel 2009, inoltre, i matrimoni religiosi sono stati 145 mila, quelli civili 85 mila, cioè il 64% contro il 36%, per un totale di 230 mila. Si ricordi che nel 1972, cioè appena 2 anni dopo la legge, i matrimoni in totale erano 415 mila, di cui solo il 7,3% celebrati con rito civile.
L’età media degli italiani che arrivano alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 per le mogli; in caso di divorzio si passa, rispettivamente, a 47 e 43 anni. Qui le differenze con gli altri paesi si fanno considerevoli: già nel 1977, nei maggiori paesi del Nord-Europa e negli Stati Uniti, l’età media al divorzio era per gli uomini di 35-36 anni, per le donne di 32-33 anni, e nei decenni successivi le medie, in questi paesi, si sono ulteriormente abbassate. Le nostre trasformazioni del diritto di famiglia e delle leggi sul divorzio sono avvenute in un arco di tempo più breve, i cambiamenti maggiori da noi si sono concentrati in un ventennio a fronte di cambiamenti che negli altri paesi sono avvenuti in un secolo circa. Per questo da noi certi comportamenti hanno agito meno in profondità nella popolazione.
In Italia è presente inoltre una peculiarità (comune solo a qualche paese dell’America Latina): esistono sia la separazione che il divorzio. Nel senso che prima ci si separa e poi si divorzia, mentre altrove o la separazione non esiste, come in Finlandia, in Svezia o in Austria, oppure, come accade in Francia, Germania e Spagna, la separazione esiste ma non costituisce condizione essenziale per chiedere il divorzio, per cui è sufficiente la separazione di fatto per un certo periodo di tempo. Questo ha, fondamentalmente, allungato i tempi.
Chi vuole il divorzio deve quindi attendere due sentenze dei tribunali. Per colpa dell’inefficienza dell’apparato della giustizia italiana (secondo un recente rapporto europeo, per le procedure di primo grado da noi occorrono 634 giorni, il doppio di Germania, Francia e anche Portogallo), in particolare nel Sud d’Italia, i tempi si allungano ulteriormente e le spese aumentano. Molti dei coniugi, infatti, si arrestano a questo punto. Chi va avanti, trascorso questo periodo, deve comunque ritornare dall’avvocato e andare ancora in tribunale. Di solito, stando agli studi dei sociologi, va avanti chi occupa una posizione più alta nella piramide sociale: quanto più è alto il titolo di studio o il ruolo sociale, con tutte le sue relazioni e i legami, tanto più breve il periodo che passa tra la richiesta e la sentenza di divorzio. Un altro luogo comune da sfatare è la tesi che il divorzio sia un fattore di ascesa sociale per le donne. Gli studi dimostrano che non è affatto così e che chi diventa più povero, dopo un divorzio, è quasi sempre la donna. Quindi la scelta del divorzio, e la necessità di avere tempi adeguati per sancirlo, è una necessità improrogabile.
Psicologicamente, inoltre, non va sottovalutato un aspetto: il divorzio è un momento di forte difficoltà nella vita di una persona. Uno Stato civile dovrebbe aiutarla e non prolungarne l’agonia. La grande maggioranza dei coniugi che divorziano si sono sposati in Chiesa con una cerimonia solenne. Ma anche quando il matrimonio si è celebrato in comune con rito civile, esso è accompagnato dallo stesso rito sociale: alla presenza di testimoni, ma spesso anche di genitori, parenti, amici, i due sposi si scambiano gli anelli, mentre i fotografi scattano centinaia di foto, e la cerimonia è seguita da feste e pranzi. In modo del tutto diverso ha luogo il divorzio. Pur essendo un passaggio altrettanto cruciale nella vita di una persona, esso non è accompagnato da alcun rito significativo, anzi è un evento “nascosto”, senza parenti, ma davanti a giudice ed avvocati, in una stanza sulla cui porta è appeso l’elenco con i nomi di tutte le ex coppie, per compiere un atto che dura pochi minuti, al termine del quale i protagonisti se ne vanno ognuno per la sua strada.
Negli ultimi tempi le famiglie ricostituite sono cresciute moltissimo anche in Italia. Negli altri paesi non è una novità, basti pensare che in Inghilterra e in Francia, la quota delle seconde nozze raggiunse, già nel Cinquecento e nel Seicento, le punte del 25-30% dei matrimoni. Per non parlare della fitta letteratura straniera sui cosiddetti “matrimoni di prova”, famosi già nel Settecento e Ottocento, basti pensare alle Affinità elettive di Goethe, in cui i protagonisti discutevano amabilmente di prove e di esperimenti coniugali e della necessità di assumere “informazioni reciproche”. Nel Novecento poi ne discussero fior di intellettuali e filosofi, per esempio Bertrand Russell. Si tratta, ovviamente, di situazioni molto diverse dall’oggi, che però danno bene l’idea del dell’apertura mentale presente in altri paesi, anche in epoche remote. Ma non è stata sempre e solo una prerogativa degli stranieri. A proposito della necessità di ricorrere al divorzio, in un libro che risale addirittura ai primi dell’Ottocento, Melchiorre Gioia scrisse che «Mostrare sollecitudine all’amore a chi mortalmente annoja, vivere per molto tempo sotto l’autorità di uno sposo che si disprezza nel fondo dell’animo, è uno stato orribile». E, alla fine dell’Ottocento, Heinrich Heine avanzò qualche dubbio sul matrimonio, rincarando la dose: «Chiunque si sposi è come il Doge che si congiunge in matrimonio con il Mar Adriatico, non sa quel che c’è dentro: tesori, perle, mostri, tempeste sconosciute».
Se è vera la vecchia tesi della sociologa Jessie Bernard, secondo cui in ogni unione coniugale ci sarebbero almeno due matrimoni, quello del marito, che influirebbe su di lui sempre positivamente, e quello della moglie, che avrebbe, invece, quasi sempre un’azione negativa e dannosa su di lei, allora l’approvazione del “divorzio breve” permetterebbe, quantomeno all’uomo, di dare un tocco di positività in più alla sua vita, eventualmente, risposandosi con un’altra donna.
Fonte: Linkiesta
Neve, inefficienza e corruzione: è il 1956 o e oggi?
Fonte: Internet
Non c’è troppo da meravigliarsi del malcostume e inefficienza che monopolizzano in questi giorni le cronache italiane. Quando si sente ripetere il solito luogo comune, quella specie di chiacchiera da bar, per cui l’Italia «è sempre stata così», e per cui noi siamo sempre stati «un paese allo sbando», forse chi lo dice non ha poi tutti i torti. Ripensando alla neve di questi giorni, basta andare indietro nel tempo. E così si arriva alla famosa nevicata del ’56. Quella ricordata in una canzone scritta da Califano e cantata al festival di Sanremo da Mia Martini.
Un po’ per curiosità, un po’ per malizia siamo andati avanti a sfogliare i giornali dell’epoca. Era il febbraio del ’56. Fu, per il nostro paese, la più grande nevicata del secolo. Un’ondata di freddo siberiano portò gelo e neve ovunque. Le temperature delle nostre città, dal nord al sud (addirittura fino a Lampedusa e Pantelleria), raggiunsero dai -20 gradi di Bergamo al -1 di Palermo. Piazza San Pietro si trasformò in una pista da sci. Il freddo glaciale durò più di 20 giorni. Per dare meglio l’idea di cosa accadde, basta riportare qualche passo tratto direttamente da un quotidiano:
Masse d’aria glaciale hanno portato la neve nella penisola. Il primato del freddo in Val Venosta con meno 28. Treni bloccati, gravi ritardi e disagi per i passeggeri. Tutti i corsi d’ acqua che scendono dalle vallate sono gelati. A rendere maggiormente fredda la temperatura contribuisce il vento che da oltre 36 ore soffia foltissimo. Lo strato di ghiaccio formatosi sulle strade ha causato incidenti a raffica. A Livorno il freddo intenso ha presso che interrotto l’attività nel porto. Il Vesuvio sino a quota 350 è ammantato di neve. Sono interrotte le comunicazioni stradali sulla Sila. Numerosi canali di bonifica sono gelati. In alcune zone della città si raggiungono i 12 cm di accumulo. Il traffico impazzisce e alla fine della giornata sono tantissimi gli incidenti causati dalla neve. Chiuse le scuole. Si lamentano sei morti per assideramento.
Sulla neve, il paragone oggi è presto fatto, sul resto, invece, che viene il bello. Altro che foto di Vasto, con Di Pietro e Vendola che tirano per la giacca Bersani. Altro che scandalo Lusi che fa tremare l’ex Rutelli e tutto il Pd. Nel ‘56 la sinistra viveva una delle più grandi spaccature della sua storia, a seguito delle denunce di Chruščёv contro lo stalinismo al XX congresso del Partito comunista sovietico e, soprattutto, dopo l’insurrezione degli ungheresi di Nagy contro i sovietici. Mentre i socialisti di Nenni approvavano un documento che definiva l’intervento dell’Urss in Ungheria un atto incompatibile col diritto dei popoli all’indipendenza e 101 intellettuali comunisti firmavano un manifesto che condannava l’intervento e lasciavano il Pci, Togliatti su Nuovi Argomenti rinnovava la fiducia al modello del Pcus, mentre l’Unità e la direzione comunista definivano gli insorti ungheresi come dei controrivoluzionari traditori. Insomma, cambiano i fatti, cambiano i nomi, ma nella sinistra, lo scontro tra riformisti e radicali è sempre stato di moda, ed ha sempre suscitato profonde emozioni nella base del suo elettorato.
Anche la Cina, così come accade oggi sulle questioni economico-finanziarie del mondo globale, pure allora era al centro dei riflettori del mondo: Mao Tse-Tung, proprio in un solenne discorso del 2 maggio del ’56, si lanciava, con la cosiddetta liberalizzazione culturale dei “cento fiori”, alla conquista, si fa per dire, dell’Occidente. Israele, che di recente ha minacciato di voler attaccare l’Iran con le sue testate nucleari, il 29 ottobre del ’56, inviava le sue truppe ad occupare il monte Sinai in Egitto. Ma non a parole, le inviava sul serio, provocando l’intervento dell’Onu (che anche allora, peraltro, servì a poco).
Intanto, sempre nel gelido febbraio del ’56, con l’intento di una campagna moralizzatrice e a difesa della laicità e dei diritti civili di tutti i cittadini italiani, da una costola del partito liberale, nasceva, nel corso di un improvvisato convegno romano, il partito radicale di Ernesto Rossi, Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, Eugenio Scalfari e altri. Da allora seguirono grandi battaglie e ideali. Pinzillacchere, direbbe Totò, a confronto di quelle dei radicali di oggi, che vanno dietro niente meno che al “fumus persecutionis” della magistratura contro il parlamentare del Pdl Alfonso Papa.
Non c’erano i forconi nel lontano ’56, ma la crisi dell’agricoltura si faceva sentire pesantemente anche allora (il miracolo economico non aveva ancora dato i suoi frutti). Infatti, durante una serie di manifestazioni di braccianti agricoli e disoccupati, a Potenza, Comiso, Foggia, Barletta e a Partinico, a cui partecipò anche lo scrittore Danilo Dolci, arrestato durante gli scontri, la polizia sparava sulla folla, facendo centinaia di feriti e addirittura 3 morti. Anche allora, come è accaduto per tassisti, autotrasportatori e agricoltori, tutto finiva “con tanto rumore per nulla”, al massimo con una interrogazione parlamentare, poi riposta nei cassetto di qualche gruppo parlamentare che la esibiva come patentino al momento di chiedere il voto.
La grande industria di stato, però, se la passava decisamente meglio. E non parliamo solamente della Fiat, costretta oggi ad andare a cercare altrove nuovi mercati, con conseguenze preoccupanti per i suoi dipendenti. L’Eni non lamentava alla stampa, nelle parole del suo presidente, possibili interruzioni di forniture del gas da riscaldamento. Nel ‘56 l’Eni accresceva addirittura la sua quota di mercato internazionale e acquistava il 20% di azioni di una compagnia petrolifera egiziana. Quanto all’Iri, lo stesso anno in cui veniva istituito il Ministero delle Partecipazioni sta tali, otteneva dal governo la concessione per la costruzione dell’Autostrada del Sole Milano-Napoli.
Prima gli autotrasportatori, per andare da Napoli a Milano, impiegavano due giorni di viaggio. La prima pietra della tratta Milano-Parma fu posta il 19 maggio del ‘56. Non che oggi un automobilista se la passi poi tanto meglio: qualcuno dirà che è colpa dei cantieri, qualcun altro della mafia, qualcun altro ancora della neve, ma, alla fine dei conti, dopo circa 56 anni, quell’autostrada, caso unico al mondo, in molti punti sembra una strada sterrata e in tanti altri deve ancora essere perfino ultimata. E sempre nel ‘56, l’Iri incorporava anche la compagna aerea Alitalia: a quei tempi si trattava di una delle compagnia più all’avanguardia nel panorama europeo, oggi è messa seriamente in crisi dalle compagnie aree dei voli low cost ed è finita tra le ultime posizioni nella classifica internazionale per impatto ambientale.
Se prendiamo in rassegna il mondo del lavoro, nel ’56 proseguiva la morsa delle organizzazioni industriali che tenevano i sindacati fuori dalle fabbriche, ricorrendo alla polizia privata, e che si organizzavano, attraverso i servizi segreti deviati, con le prime schedature politiche dei lavoratori (come risulta dall’inchiesta parlamentare del 1955 intitolata “Condizioni di lavoro nelle fabbriche”). La corruzione e gli scandali nel mondo dell’edilizia non mancano i parallelismi: il ’56 non ha nulla da invidiare alla recente affittopoli, alla P3 o P4, e agli intrecci tra politica, economia nelle inchiesta sulla protezione civile, se è vero che il settimanale “L’Espresso” denunciò con più di un articolo dal titolo Capitale corrotta = Nazione infetta (e chiaramente anche allora senza successo), l’Immobiliare Roma accusata di speculazione edilizia e violazione delle norme urbanistiche comunali.
Chiudiamo, giusto per non farci mancare nulla su questo paradossale ma, purtroppo, illuminante confronto tra l’Italia di oggi e quella del ’56, con l’immancabile razzismo. Più di cinquant’anni fa, come ricordano i nostri nonni, a Torino, in alcune fabbriche, gli operai meridionali, siciliani, calabresi, pugliesi e campani, venivano soprannominati “Napoli” dai settentrionali. A quei tempi, nel capoluogo piemontese si si diffondevano vergognosi cartelli con la scritta "affittasi, esclusi meridionali". Torino era la destinazione ideale dei tanti immigrati del profondo Sud che riempivano i cosiddetti “treni del sole”, quelli notturni, quelli stessi convogli che proprio oggi sono stati dismessi (causando il licenziamento di centinaia di addetti). Oggi, come risulta da una freschissima cronaca, in Veneto (per l’esattezza a Mirano in provincia di Venezia) un meridionale forse potrà affittare (rigorosamente “a nero”) una casa, ma non può assicurare la sua automobile. «Per colpa di disposizioni dell’assicurazione», ha gentilmente fatto presente la titolare dell’agenzia dicendo che non poteva mandare avanti la pratica ad un giovane di 26 anni di origini meridionali, ma residente nel veneziano ormai da tempo. Questo succede nell’Italia di oggi.
Fonte: Linkiesta
La libertà di stampa in Italia: oggi come ieri
Fonte: Cronache laiche
«La stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza. Il tema fu già posto da Einaudi alla Costituente, ma né allora né dopo si è riusciti a risolvere questo enorme problema di libertà e dei diritti umani. Non so come giocherà la nuova legge sulla stampa; ma è certo che la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva [...] Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale».
Diciamo subito che la frase si colloca alla fine degli anni Settanta. Sfidiamo chiunque, a parte qualche illustre storico ferratissimo sull’argomento, a indovinare quando e chi ha scritto queste parole. Proviamo a fare un gioco di ipotesi. Non può essere stato un grande scrittore o un artista dell’epoca, almeno per due ragioni: analizzandola filologicamente si nota che la frase si addentra nel tecnico, non è ad effetto, non è altamente poetica, evocativa, accattivante e neppure un po’ populista; inoltre, morto Pasolini (morto non a caso, ma probabilmente proprio per i suoi modi di esprimersi controcorrente, spesso imbarazzanti), nessun altro, a conti fatti, ha posto la questione della libertà di stampa in Italia in termini così netti, almeno a quei tempi. Altro discorso è poi quando è arrivato il conflitto di interessi di Berlusconi, e tutti gli intellettuali si sono svegliati dal torpore ed hanno cominciato, un giorno sì e l’altro pure, a porre il problema, facendone anzi un cavallo di battaglia buono per aizzare le folle e vendere qualche copia in più dei loro libri o pamphlet. No, non di un grande intellettuale si tratta. Non può essere stato nemmeno un gettonato opinionista o un grande giornalista della carta stampata, perché sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangia. Il coraggio e le belle parole le profondono e le dispensano, ampiamente, su altri temi (cavalcando l’onda dell’emozione e del sensazionalismo, dal caso Tortora a Vanna Marchi, da Moggi al capitan Schettino). Non può essere stato, infine, una personalità politica di primo piano nel culmine delle sue funzioni di potere, né con incarichi al governo, per ovvie ragioni di relazioni e scambi di favore con le stesse grandi testate, né all’opposizione, tenuto conto che, dalla fine degli anni sessanta in poi, il più grande partito di opposizione, cioè a dire il Pci, ha cercato in tutte le maniere di superare quell’isolamento (la cosiddetta convention ad excludendum non era valida solo per l’approdo al governo ma anche per lo spazio su Tv e giornali a grande tiratura) a cui era stato costretto dalla Dc (ma anche poi dal Psi) durante la lunga fase della guerra fredda.
No, nulla di tutto questo. Queste durissime parole, che possiamo riproporre valide e intatte oggi, così come sono, senza modificare una virgola, sono state scritte da un uomo che si trovava stipato in un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, grande quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi, in cui c’erano solo una branda, un water, qualche foglio di carta e una penna. Quell’uomo, tenuto prigioniero dalle Br per ben 55 giorni in quello stato, è colui che più di tutti, più di chiunque altro, più di qualsiasi paladino delle libertà nostrane tanto in voga oggi, ha il diritto ed ha l’autorità morale e intellettuale per darci lezioni, allora come oggi, sulla libertà di opinione e di informazione in Italia. Un uomo costretto, in quei lunghi e drammatici giorni, a scrivere per non morire e, soprattutto, a scrivere per riuscire a sopravvivere idealmente, così come poi è stato, alla propria stessa morte materiale.
Per chi non ci credesse, è bene segnalare lo scritto in cui queste parole si trovano: Memoriale, XVI tema – Sulla indipendenza della stampa italiana, in Comm. stragi, II 154-155. Si tratta di quel noto memoriale, ritrovato in più parti e in tempi diversi (1978, 1990), proprio perché in molti, e a vari livelli di potere (politico, economico, editoriale) temettero di renderlo pubblico, appunto, per via dei temi affrontati dal prigioniero. Qui basta ricordarne qualcuno: l’organizzazione della Gladio, i contatti tra le Br e i servizi segreti occidentali, alcuni retroscena della strategia della tensione, le connivenze tra politica, economia, criminalità per far affari sulle spalle dei contribuenti. Insomma ce n’era per far tremare i polsi a chiunque. Ma il passaggio che sottoponiamo all’attenzione dei lettori, quello relativo alla mancanza di libertà di informazione in Italia, è un aspetto che ha influenzato, forse più di ogni altro, l’evoluzione democratica e civile del nostro paese.
Scriviamo questo non in modo estemporaneo, per un tipico vezzo intellettuale (da cui è bene sempre rifuggire), né per dar sfoggio di particolari reminiscenze sulla più recente storia d’Italia, ma perché sollecitato di recente dalle notizie provenienti dal rapporto di Reporters sans frontières, un’organizzazione internazionale, nata in Francia (la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione – è bene ricordarlo di questi tempi), a difesa della libertà di stampa nel mondo. L’Italia, nel quadro comparato con gli altri paesi, si trova addirittura al sessantunesimo posto (per dare un’idea, prime sono Norvegia e Finlandia, la Grecia è al settantesimo, negli ultimi posti Iran, Siria, Eritrea e Corea del Nord). La situazione del nostro paese, nonostante ciò che continuano a ripetere opinionisti e politici invitati nei talk show televisivi o a scrivere dalle prime pagine dei quotidiani nazionali, non è molto diversa, e questo rapporto lo argomenta con chiarezza, da quella di paesi come, ad esempio, quelli balcanici, che vivono enormi deficit democratici oltre che economici.
In particolare, nel rapporto si segnala, anche in Italia, l’utilizzo dei media e dei giornali nazionali a grande tiratura, ma anche dei siti più visitati e quindi più remunerativi dal punto di vista commerciale e pubblicitario, per tutelare interessi privati, si sottolinea la concorrenza sleale su un mercato assai ristretto, e si pone l’accento sulla presenza di giornalisti sottopagati e spesso obbligati all’autocensura.
Non è un caso, dunque, che in Italia molti giornalisti siano ancora costretti a vivere in regime di protezione, e che tanti altri, quelli che vogliono scrivere e riportare la realtà cruda delle cose, senza intermediazioni, compromessi, favoritismi, scambi, vengano isolati e non possano svolgere dignitosamente il proprio lavoro.
Un paese in cui l’informazione indipendente non esiste o è assolutamente minoritaria, usufruisce di pochissimi mezzi, è sempre a rischio di essere strozzata e ridotta al silenzio, nell’indifferenza dei partiti di governo e di opposizione, impegnati a crescere le proprie quote di influenza proprio sui media e sulla stampa nazionale. I tentativi di introdurre leggi bavaglio, di censurare i contenuti della rete da parte del governo precedente, le polemiche furibonde di molte personalità dell’opposizione nei confronti dei giornalisti e della stampa, sono tutti segnali chiari di una forma mentis della politica italiana che, purtroppo, risale a epoche assai remote. Un paese già declassato nel 2009 a “partially free” dall’organizzazione americana sulla libertà nel mondo Freedom House.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: ma è davvero stata solo colpa di Berlusconi e del mai risolto conflitto d’interessi se la libertà di informazione in Italia è giunta ai pericolosi livelli tuttora negati dalla maggioranza degli osservatori italiani? Se ci rifacciamo al drammatico appello di Moro in carcere, che mi sembra un elemento storico molto significativo, credibile, e soprattutto non viziato da possibili forzature interpretative di parte, verrebbe proprio da rispondere di no.
Fonte: Cronache laiche
La dura strada per ottenere leggi in difesa delle donne
Fonte: Linkiesta
Una precisa valutazione delle dimensioni del problema della violenza sessuale sulle donne, nelle varie forme in cui essa si esplica (dalle molestie psicologiche agli abusi sessuali, dall’incesto allo stupro) è pressoché impossibile. Negli ultimi anni, però, da quando le donne sono riuscite ad ottenere anche importanti modifiche alla legislazione, e da quando le vittime hanno trovato voce, sulla stampa e sui media, per raccontare le loro reazioni e i loro stati d’animo alle violenze subite, il fenomeno, rimasto in buona parte ancora sommerso, ha perlomeno cominciato ad emergere nella sua gravità e portata. I dati, ancorché limitati alla superficie del problema, sono già da soli allarmanti e dovrebbero indurre tutti ad amare riflessioni.
Limitandoci all’Italia, si stima, secondo i più recenti dati dell’Istat, che 1 donna su 3 tra i 16 e i 70 anni è stata vittima nella sua vita dell'aggressività di un uomo (in particolare le giovani dai 16 ai 24 anni per il 16,3%). 6 milioni e 743 mila sono, nel complesso, quelle donne che hanno subito violenza fisica e sessuale. Quasi 700 mila donne hanno subito violenze ripetute dal partner e avevano figli al momento della violenza (nel 62,4% dei casi i figli hanno assistito a uno o più episodi di violenza). Nella quasi totalità dei casi le violenze sessuali sulle donne non sono denunciate: circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle dal partner. Risulta considerevole la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite. Inoltre, la violenza psicologica è stata subita da 7 milioni 134 mila donne: le forme più diffuse sono l'isolamento o il tentativo di isolamento (46,7%), il controllo (40,7%), la violenza economica (30,7%) e la svalorizzazione (23,8%), seguono le intimidazioni (7,8%).
Viene da chiedersi come questi dati siano possibili. È evidente che la violenza ai danni delle donne sia una caratteristica che accomuna tutti i paesi del mondo, nessuno escluso. Sono le statistiche a dare la dimensione globale del problema, quando ci dicono che ben oltre il 70% delle donne del mondo ha subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale. Pratica tanto diffusa, dunque, quanto difficile da debellare. È bene però che ognuno guardi attentamente al proprio paese, ai costumi e alla cultura del proprio popolo. La risposta, per quanto riguarda l’Italia, sta dentro il maschilismo, il familismo e il moralismo (in parte di matrice cattolica) della società italiana.
Vediamo un po’, dunque, di fare la storia della legislazione italiana contro la violenza sessuale, partendo dalle sentenze della cassazione, dalle modifiche alle varie proposte di legge, dalle prese di posizione sulla stampa, e, infine, comparandola con quella degli altri paesi.
Per dare l’idea del degrado e dell’arretratezza della giurisprudenza italiana in tema di violenza sessuale basta riportare una sentenza della cassazione del 20 febbraio 1967: “Costituisce violenza qualsiasi impiego di forza fisica esercitata sull’altrui persona, maggiore o minore, a seconda delle circostanze, che abbia posto il soggetto passivo in condizione di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto. Mentre non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile”.
Da quella sentenza veniva legittimata, in giurisprudenza ma soprattutto nell’opinione pubblica, l’assurda idea che alle donne piacesse subdolamente essere violentate.
Come se non bastasse c’era da affrontare, strettamente legato, il tema scottante della violenza sessuale dentro la coppia. Per molti anni, infatti, il matrimonio era stato inteso come un contratto a seguito del quale il marito si impegnava a mantenere la donna, mentre questa in cambio si prendeva cura della casa e gli forniva rapporti sessuali. Il consenso della donna ai rapporti sessuali veniva dato una volta per tutte durante il matrimonio, da qui ne conseguiva che lei fosse tenuta a soddisfare le voglie del marito ogni qualvolta lui volesse. Se la donna si rifiutava di farlo, non solo violava gli obblighi coniugali, ma autorizzava il marito ad ottenere l’atto sessuale con la forza. Solo nel 1976 una sentenza della cassazione stabiliva: “commette il delitto di violenza carnale il coniuge che costringa con violenza o minaccia l’altro coniuge anche non separato, a congiunzione carnale”. Ma appena qualche anno dopo, il Tribunale di Bolzano con sentenza del 30 giugno 1982, sosteneva incredibilmente: “Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo”.
Quella contro la violenza sessuale è stata una tra le leggi che ha avuto l’iter parlamentare più difficile e lungo (quasi 20 anni) della storia d’Italia. La prima proposta di legge fu presentata nel 1977 dal Pci. La riforma delle norme contro la violenza sessuale era stata discussa da anni, ed aveva avuto una forte accelerazione quando, in occasione del processo per i delitti del Circeo, il movimento delle donne aveva dato vita a manifestazioni, tra il 1975 e il 1976, nel tentativo di sollecitare l'opinione pubblica e i partiti ad occuparsi della questione. Nel 1979, infatti, venne preparata una legge di iniziativa popolare, che raccolse oltre trecentomila firme, e che fu presentata in parlamento insieme ad altre 7 proposte di legge presentate dalle diverse forze politiche.
Ancora negli anni Ottanta, a classificare i reati di violenza sessuale era niente di meno che il codice Rocco d'epoca fascista, che li considerava “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, dividendoli in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all'onore sessuale”.
Nel 1982 la commissione giustizia della Camera approvava il testo unificato delle proposte di legge relative alla nuova disciplina penale. Cinque proposte dei vari partiti erano confluite in un unico testo che rispecchiava l'ampio dibattito sviluppatosi negli anni Settanta, soprattutto all'interno del movimento delle donne, sulla necessità di superare una disciplina penale dei delitti contro la libertà sessuale del tutto anacronistica. La violenza sessuale non ledeva più solo la moralità pubblica, ma offendeva innanzitutto la persona, violando il suo diritto fondamentale di decidere liberamente della propria vita sessuale. Era superata la distinzione tra congiunzione carnale e gli atti di libidine, così che le donne non sarebbero più state costrette, almeno teoricamente, a subire l'ulteriore violenza dei minuziosi reiterati interrogatori processuali, comprese le domande sulla vita privata e sulle relazioni sessuali.
Intendeva instaurare la procedura d'ufficio per la persecuzione del reato, anziché la querela di parte, in altre parole, nei casi di violenza, l'iniziativa di perseguire i colpevoli doveva spettare sempre allo stato e non doveva essere, invece, sempre e solo la donna a decidere. Inoltre, spingeva per ammettere la partecipazione al processo, come parte civile, delle associazioni e dei gruppi organizzati delle donne.
Nel 1983 la senatrice indipendente Giancarla Codrignani faceva un atto di pubblica accusa nei confronti di tutti i deputati maschi italiani, accusati di snobbare se non proprio di boicottare la legge:
“Si può uccidere per errore al volante di una macchina, ma lo stupro è tra i delitti quello che certamente non è mai colposo, mai involontario. Allora è bene fare una piccola analisi di merito, quando il legislatore è obbligato a rivedere il codice dalla volontà popolare. Infatti quella che è stata una incomprensibile arretratezza giuridica si svela essere qualcosa di molto più di una cecità storica, di un'ipocrisia tradizionale: è omertà. Questa proposta di legge ha un pregio e un'urgenza che altre leggi non hanno: impone una correzione del costume rispondente a una cultura più seria e responsabile. Per trasformare la società c'è, evidentemente, da impegnarsi. Ce n'è per tutti: per i socialisti e i comunisti che non si sono accorti che il socialismo cominciava a farsi irreale quando l'aspirazione rivoluzionaria “libero amore” voleva dire per le donne “amore nella libertà, nell'autonomia e nella parità”, mentre per gli uomini, la traduzione era in termini di libero consumo di un materiale volgare, certo né storico, né dialettico. E ce n'è anche per i cristiani, che non riescono neppure a rendersi conto che l'aborto, cioè la maternità non voluta, è sempre il risultato di una violenza, anche solo di ignoranza” (Cfr. Gli onorevoli snobbano la legge sullo stupro, “Il Giorno”, 9 febbraio 1983).
Ma le opposizioni manifestate da parte del mondo cattolico bloccavano l’iter della legge e lo vincolavano ad emendamenti restrittivi. Nel 1986, intanto, il parlamento europeo approvava una risoluzione che invitava gli stati membri della comunità ad elaborare una legislazione che cancellasse la distinzione tra stupro e atti di libidine violenta, che qualificasse la violenza sessuale come delitto contro la persona, che riconoscesse come reato la violenza tra marito e moglie, che rendesse la violenza sessuale un reato perseguibile sempre d'ufficio dalle autorità pubbliche.
Ma in Italia le cose procedevano in un’altra direzione. Basti riportare una contemporanea (o quasi) sentenza del Tribunale di Roma del 28 giugno 1985, in cui candidamente si affermava: “Si è da taluno sostenuto che, se il reato viene commesso in danno della moglie, deve essere considerato impossibile, in quanto il debito coniugale va compreso tra i diritti/doveri derivanti dal rapporto matrimoniale. Ad avviso del collegio è da escludere la possibilità di limitazioni in tema di relazioni sessuali tra i coniugi. Il rapporto sessuale tra marito e moglie non può che essere basato sul consenso di entrambi, quali soggetti liberi e compartecipi”.
La Dc, fomentata dalla Chiesa che intendeva arroccarsi sempre più a difesa della cosiddetta famiglia tradizionale (come se il fronte laico, pretendendo una legge decente contro la violenza sessuale, attentasse mai alla sacralità della famiglia!), e confortata dalle sentenze dei tribunali italiani, continuava a non riconoscersi nel testo rispetto alla questione della procedibilità d’ufficio (proposta fin dall'inizio da socialisti e movimento delle donne), distinguendo atti gravi e meno gravi, rispetto alla querela all’interno della coppia e alla questione dei minori cui era vietata ogni forma di effusione anche se consenzienti. In parlamento, in questo caso, non esisteva affatto il fronte laico ma solo quello “governativo”: Pli, Pri e Psdi avevano infatti votato compatti con la Dc.
Tutto ciò, unito all’incertezza dei partiti storici della sinistra e alla cautela con cui la stampa nazionale affrontava l’argomento, narcotizzando in qualche modo le giuste pulsioni progressiste dell’opinione pubblica, aveva l’effetto di far posticipare la questione all’infinito, per più legislature.
Solo nel 1995, dopo anni di nulla di fatto, mentre nel frattempo molti dei partiti storici avevano cambiato nome e struttura, alcune deputate donne decisero di superare l’ostacolo e si riunirono, senza distinzioni ideologiche, ed insieme esaminarono le successive 14 proposte di legge preparando un testo unico. Ci fu una accesissima discussione tra forze politiche in parlamento e sulla stampa e, alla fine, la legge venne approvata nel 1996 con 339 voti favorevoli, 39 contrari e 15 astenuti.
La legge italiana contro la violenza sessuale classifica come crimine contro la persona il reato di violenza sessuale. Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringa qualcuno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni (da 6 a 12 se su un minore). La stessa pena è inflitta a chi induce altri a compiere o subire atti sessuali (la struttura di quell’impianto è stata perfezionata con altre leggi parallele, sul reato di sfruttamento della prostituzione, sul turismo sessuale, etc., nel 1998 e nel 2001).
A livello internazionale, la dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne era redatta dall'Onu nel 1993 ed era frutto di una forte pressione dei movimenti a difesa dei diritti femminili, culminata nella conferenza di Vienna sui diritti umani. Si indicava, per la prima volta, una definizione ampia di questo tipo di violenza: "qualunque atto che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata". Poi l’Assemblea del Millennio dell'Onu del 2000, nella sua Dichiarazione finale, poneva la lotta alla violenza contro le donne come uno degli obiettivi centrali delle Nazioni Unite.
In realtà il problema del miglioramento delle leggi contro la violenza sessuale è da tempo all’ordine del giorno di tutti i parlamenti dei più importanti stati europei, ma non per questo tutti i paesi sono riusciti ad adottare le normative più idonee ed efficaci alla trasformazione culturale e sociale avvenuta in questi ultimi anni.
In Francia la legge sulla violenza sessuale è stata modificata nel 1990: è perseguito come tale ogni atto di penetrazione sessuale di qualsiasi natura, commesso o tentato sulla persona altrui con violenza, costrizione, minaccia o sorpresa. La pena prevista va da un minimo di 10 anni ad un massimo di 20, con la possibilità della reclusione a vita in caso di aggravanti o stupri di gruppo. In Belgio la legge, votata all’unanimità nel 1982, definisce lo stupro come un atto commesso su una persona in qualunque modo non consenziente. Non vi è l’obbligo della vittima di dimostrare che vi sono state minacce di morte e che si è opposta fortemente alla violenza, basta che dimostri che non vi era il consenso. La vittima ha il diritto all’anonimato e all’assistenza da parte dello stato. In Spagna nel 1989 la legge sulla violenza sessuale inseriva quel tipo di reati tra i delitti contro la libertà sessuale e non, come in precedenza, contro l’onestà. Punisce il reato con una pena che va da un minimo di 12 ad un massimo di 30 anni. Per poter iniziare l’azione penale è sufficiente la denuncia della persona lesa oppure di un suo ascendente diretto, di un rappresentante legale o custode di fatto. Il successivo perdono della parte lesa non estingue l’azione penale. Chi viene riconosciuto colpevole deve anche risarcire le vittime. In Lussemburgo la legge distingue gli atti atti di libidine violenta dallo stupro e prevede condanne fino a 15 anni di reclusione, mentre in Irlanda, per questo genere di reato, è previsto l’ergastolo.
Alla luce di questo quadro storico e comparativo, appare evidente che la legge italiana debba e possa essere ancora migliorata, ma per far ciò occorrono almeno due fattori concomitanti: l’attenzione costante dell’opinione pubblica sul problema, raggiunta mediante una informazione capillare e diffusa da parte della stampa, e la sensibilità al tema delle diverse forze politiche presenti in parlamento.
Una legge può cambiare (o meno) il costume generale di un paese se di essa si parla, si discute, se viene fatta conoscere, se non resta un fatto privato degli addetti ai lavori o delle associazione delle sole vittime di violenza sessuale. Le leggi che hanno riguardato e coinvolto le donne, hanno sempre avuto questo carattere sociale, pubblico, diffuso: ciò è valso per il divorzio, per l’aborto, e così ci pare debba essere anche per la violenza sessuale. I pregiudizi che si annidano e prolificano nella comune opinione circa la sessualità e la liceità o meno dei relativi atti sessuali (più o meno violenti) sono davvero tanti. Predomina una mentalità sessuale maschilista, confusa e inquieta, turbata da antiche superstizioni e da incontrollate passioni, viziata da correnti, banali e pigramente accettate opinioni, spesso avallate e incentivate da comportamenti di singoli parlamentari cosiddetti “machi” o “celoduristi”.
Lo scandalo dell’uguaglianza, affermata dalla Costituzione e negata nella pratica, offende principalmente le donne che sono le principali destinatarie (ma non le uniche) della violenza sessuale. L’uguaglianza non esiste nei fatti a causa, soprattutto, della mentalità distorta, spesso anche torbida, che in maggiore o minore misura sopravvive in noi tutti, anche a volte nelle stesse vittime, anche nelle donne che pure, lucidamente e coraggiosamente, la combattono. Poiché questa distorta mentalità sopravvive, tutti dobbiamo vigilare con un’attenzione critica e autocritica continua, affinché non riaffiorino pregiudizi ancestrali molto pericolosi. Questo perché proprio i tanti tabù che avvolgono il sesso e che sono gli stessi che purtroppo incoraggiano gli inclini alla violenza, dissuadono le stesse vittime dall’esigere giustizia. E questo, in un paese civile, non è bene che accada.
Fonte: Linkiesta
Cile, lo sciopero dei camionisti portò Pinochet
Fonte: Linkiesta
C’è una strana atmosfera in giro. Qui da un po’, tutto si svolge nella strada. Da qualche giorno, però, dietro l’agitazione e le (solite) parole d’ordine delle rispettive categorie sociali, s’è instaurata una attesa inquieta. Le code sono lunghe. Per il gasolio, soprattutto, che è quasi scomparso. Nei supermercati iniziano a scarseggiare i prodotti. Non manca tutto, ma quelli più deperibili: frutta, verdura, latte, pesce, formaggi. Dopo la crisi i prezzi sono saliti alle stelle, ora l’inflazione ricomincia a crescere. La produzione industriale del paese è crollata da un bel po’. La macchina economica, in generale, sembra essere sul punto di rottura. Il governo ha fatto quello che poteva, ma non è bastato.
Da giorni la lotta sociale è costante: pubblico impiego, scuola e trasporti pubblici, pensionati, tassisti, farmacisti, operai, studenti. Prima le bombe dimostrative contro alcune agenzie pubbliche. Poi gli agricoltori. Ora lo sciopero degli autotrasportatori. Alcuni di loro dimostrano un maggior attivismo di altri. Strade sbarrate, blocchi autostradali, ritorsioni nei confronti di chi non si ferma: basta un niente e gli tagliano le gomme. In alcuni casi, donne e bambini hanno raggiunto i camionisti e le loro macchine. Nelle proteste c’è scappato perfino il morto. Protestano contro il caro benzina, l’aumento delle tasse, i modelli di trasporto, con tariffe costose per lo spostamento su gomma. Mettono a rischio l’attività dei porti più importanti del paese, delle fabbriche nazionali dove non giungono i rifornimenti, provocano danni per milioni.
Ciò che colpisce di più in queste manifestazioni spontanee, spesso populiste e violente, è la passività del governo. Si prendono provvedimenti forti, impopolari, a livello generale. Poi nessuno dà spiegazioni, fornisce risposte. Non si prende, almeno nella direzione di questi ribellioni, misura alcuna. Non si fa alcuna dichiarazione sulle proprie intenzioni per risolvere la crisi. Si dice che si dovranno presto affrontare le questioni politiche ed economiche di fondo, strutturali, sul lavoro, la riforma costituzionale, ma bisogna pur arrivarci a quel punto: i giorni passano, restano in piedi in conflitti, le lotte tra le categorie, tra i partiti, tra gli stessi singoli individui, mentre i problemi economici sono sempre più vivi.
Volgendo lo sguardo al cuore del paese, balza agli occhi, sempre più, lo stridore dei contrasti. Squallore e povertà, mense per gli immigrati prese d’assalto da individui del ceto medio impoveriti, famiglie allo sbando, venti di anti-politica dirompente. La corruzione finisce per coinvolgere un numero sempre crescente di popolazione, per il pure desiderio di condurre un tenore di vita pari a quello degli altri, dei più ricchi: così tutti vogliono belle case, macchine nuove, viaggi all’estero. Ma tutta la miseria e la disperazione più cupa sta nel mondo dei sotto occupati e dei disoccupati: non hanno i soldi per sfamare le loro famiglie, i loro figli, e la rabbia non fa che crescere. E poi, invece, boutique di lusso, concessionarie di auto costose, negozi di oggetti di alta tecnologia. Tutto il denaro è là, nelle mani dell’evasione, di pochissimi privilegiati, industriali, grandi commercianti, medici, avvocati, funzionari locali e stranieri. Tutto, costi e profitti, appartiene a questo mondo, il resto, gli altri ne sono esclusi.
Chiunque, leggendo queste righe, avrà pensato all’Italia di questi ultimi giorni. Eppure non è così. Al quadro, crudo e drammatico, che ho appena descritto, faccio seguire un brano tratto da un diario, un testo scritto da un grande sociologo di nome Alain Touraine, che commenta tutto ciò che successe, convulsamente, qualche giorno dopo quelle durissime proteste popolari:
«Angel Parra, le cui canzoni amavo, è in ora in prigione. ll suo amico Victor Jara, che cantava la contestazione, è stato arrestato all’università al momento del colpo di stato. Una settimana dopo, hanno invitato sua moglie a portarsi via il cadavere dall’obitorio. La sua morte è stata annunciata senza commenti. Pablo Neruda, che ha dato un nome alle rocce e agli uccelli dell’America latina, che ha fatto correre su tutto il continente le parole tenere e disperate dell’amore, della collera, e della speranza, è abbandonato in questa casa depredata, saccheggiata. Il poeta scompare e la dittatura impone il silenzio della menzogna. Ieri, mentre moriva, il fuoco acceso dall’esercito bruciava i suoi libri tra le torri del quartiere San Borja. Non dimenticherò le mie ultime ore a Santiago. Parto domani. Io non posso fare più niente, qui. È crollato un mondo, è crollata una speranza. Da oggi bisogna pensare alla lotta che comincia, allo sforzo di un popolo per riconquistare la libertà».
Tutto questo era, dunque, in Cile. Era il settembre 1973. Allende moriva assediato alla Moneda e i militari di Pinochet prendevano il potere. Colpisce, in questo racconto che parla della situazione cilena, la somiglianza con i problemi sociali e civili che stiamo vivendo in Italia in questi giorni. La protesta degli autotrasportatori di questi giorni ricalca perfettamente i blocchi e le violenze dei camionisti cileni in quei tragici giorni che precedettero il golpe: oggi in Italia essi protestano per il rincaro dell’autostrada, per l’eccessivo costo del gasolio, per l’aumento dell’Iva e delle addizionali Irpef, mentre ancora il 90% delle merci, circa 1,5 miliardi di tonnellate, viaggia su strada, su 4,7 milioni di Tir e a differenza di tutti i più avanzati paesi europei. Mettendo a rischio l’incolumità degli automobilisti italiani, ma nessuno da decenni fa nulla. Mettendo a rischio, in questi giorni, più di 50 milioni di euro di prodotti italiani, in un contesto di crisi già nerissima per l’agricoltura e, più in generale, la vendita al dettaglio.
Il contesto storico è, con tutta evidenza, completamente diverso, il mondo è cambiato, viviamo in un un’età globale, la politica, le dinamiche sociali sono completamente differenti, ma quello che lascia stupefatti è che le situazioni quotidiane delle varie categorie sociali e degli individui alle prese con la crisi finanziaria ed economica sono le stesse, identiche a quelle di allora. I modi della protesta, pure. Che ci sia di fronte un governo di Unità Popular o un governo di tecnici, con l’appoggio tacito di quasi tutto l’arco parlamentare, poco cambia. Certo, il finale di quella vicenda fu una dittatura feroce e sanguinaria, appoggiata da una potenza straniera. Oggi l’evoluzione di quei problemi sarà, di certo, diversa.
Fonte: Linkiesta
Dai fasci ai forconi, in sicilia la rivoluzione è folklore
Fonte: Linkiesta
Uno dei popoli più ricco di contrasti della terra, tra i più nobili e allo stesso tempo tra i più rozzi, vive in uno dei territori artisticamente più belli del mondo. È il siciliano nella sua Sicilia. Ma, storicamente, il popolo siciliano ha vissuto sempre nelle più difficili, misere e contrastate condizioni che la vita abbia concesso all’uomo, in quella specie di medioevo che, di volta in volta, ha preso il nome di separatismo mafioso, fascismo, strapotere democristiano e, infine, berlusconismo.
Viene da chiedersi, volgendosi indietro e interrogando la storia, per quale strana legge fatale le qualità del siciliano, anche le migliori, finiscano per diventare assolutamente dei difetti: perché la normale cultura si trasformi in pedanteria e nozionismo, la normale prestanza fisica diventi vanto di natura sessuale, la fede religiosa sfiori il bigottismo, l’amore per la terra e per la natura si muti in primitivismo. E così anche il moto rivoluzionario, la protesta di massa finisca per diventare folklore, passatempo, barzelletta.
Una prima, e ovviamente parziale, risposta a ciò può essere la seguente: si tratta di condizioni e situazioni tipiche di un ambiente dove la cultura, l’educazione, non intese in senso generale o scolastico, ma come stimolo che allarga gli orizzonti e le vedute, contaminazione con il resto del mondo, non hanno agito con efficacia nella popolazione, fermandosi al limite della coscienza. Tutto è, da sempre, emozionante, sensazionale ma comunque monco, incosciente, dimezzato, in questa meravigliosa terra di contrasti: la resistenza senza partigiani, il Sessantotto senza sessantottini, il femminismo senza femministe, l’industrialismo senza industrie, e qui mi fermo perché si potrebbe continuare all’infinito.
È probabilmente per questo che, individuato un male, ad esempio il latifondo di una volta, la mafia più di recente, l’evasione – ahinoi – sempre attuale, se l’intervento per risolverlo viene dall’alto (e in questa accezione includo lo Stato, passando per regione, province e comuni) non risolve affatto anzi acuisce il problema. Quel male potrà essere in parte contrastato ma risorgerà dalle radici sotto forme diverse, finché non interverranno due fattori, i più importanti e decisivi: l’autocoscienza del siciliano e la dovuta considerazione dello Stato.
La prima va conquistata, lottando con le unghie e con i denti, attraverso l’educazione, fin dall’infanzia, la diffusione del sapere, della ricerca scientifica, in modo da modificare mentalità erronee consolidate e radicate, agendo sulle nuove generazioni. Su questa strada i siciliani sono andati, per fortuna, ben avanti. La seconda sembra invece essere, allo stato attuale, la condizione più difficile da maturare: la Sicilia e i siciliani sono ancora, purtroppo, per tanti italiani ma soprattutto per lo Stato, una vera e propria incognita. L’isolamento siciliano non è soltanto geografico, economico, ma soprattutto sociale e culturale. I vari governi italiani che si sono succeduti dall’Unità in poi, di qualsiasi tendenza politica, non hanno mai ascoltato la voce di protesta che, di volta in volta, si è levata da parte della popolazione siciliana (o di buona parte di essa). Vero è anche che la diffidenza è stata reciproca.
I fatti di questi giorni richiamano alla mente, se pure con enormi differenze (caratteri e proporzioni), fosse anche solo per l’eterogeneità e la spontaneità della protesta, gli storici fasci siciliani del 1892-94. Come dimostra anche una bella inchiesta datata ottobre 1893 del giornalista Adolfo Rossi sul giornale La Tribuna di Roma, quello dei fasci fu un movimento di massa di orientamento socialista, costituito soprattutto da contadini, braccianti, mezzadri, minatori, operai, artigiani, piccoli commercianti e piccoli proprietari, in cui ebbero parte attiva molte donne e bambini, anche se la sua composizione sociale e politica mutava da luogo a luogo. Si caratterizzò per la protesta contro l’eccessivo fiscalismo, contro la burocrazia delle amministrazioni locali e dei galantuomini, la rivendicazione della terra. Se ci addentriamo, per un momento, più nel merito delle proteste, i provvedimenti più odiati e contestati dai fasci furono la tassa comunale sul bestiame che andava in gran parte a pesare sui ceti più umili, poiché l’importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma – che costituivano gli animali da lavoro del contadino – era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi, cioè i ricchi proprietari. Ma anche le imposte indirette sui piccoli proprietari, gli artigiani, i contadini e i lavoratori in genere, tasse che in Sicilia avevano un gettito superiore a quello delle imposte dirette: il dazio consumo, quello cioè che si pagava al momento della vendita al minuto, e che ricadeva esclusivamente sui consumatori; e soprattutto sui ceti più umili, costretti a sopportarne il peso.
Soprattutto nella fase iniziale, quando si cominciò con l’incendiare i registri dei Comuni, saccheggiare gli uffici, liberare i detenuti, i moti rivoluzionari nacquero in modo disordinato, spontaneo, con mezzi assolutamente inadeguati, suscitando in giro per l’isola infiniti e continui incidenti e azioni eversive, episodiche e sporadiche. Si mescolavano alla rinfusa, nelle diverse azioni di protesta e nelle manifestazioni, i ritratti di Garibaldi e Mazzini, quelli di Marx e Louis Blanc, insieme a quelli del re Umberto I e della Santissima Madre di Dio. Una delle accuse più diffuse che venivano mosse ai fasci dalla stampa nazionale conservatrice e dai delegati di pubblica sicurezza, chiaramente finalizzate a procedere al loro scioglimento, era quella di essere delle società di malfattori, in combutta con la mafia. In realtà un’inchiesta promossa da Giolitti, travolto di lì a poco dallo scandalo bancario romano, accertò che non vi erano elementi sufficienti a dimostrarlo.
Dopo che il movimento si diffuse in tutta l’isola, si abbatté la dura repressione del governo Crispi che proclamò lo stato d’assedio e fece intervenire l’esercito. A questo punto, il Partito socialista, che non aveva avuto fino a quel momento una diretta responsabilità organizzativa di ciò che era accaduto in Sicilia, seppure non troppo convintamente (ritenendo che certi metodi facessero parte di una tradizione anarchica a loro avviso ormai superata), alla fine si schierò in sua difesa. Il movimento assunse un più preciso programma di sinistra, schierandosi apertamente contro il potere mafioso dei gabellotti conniventi con i grandi proprietari terrieri e contro i preti che spesso e volentieri li fiancheggiavano. Ma in questa fase il fenomeno perde le sue peculiari caratteristiche isolane e finisce con l’annegare nel mare magnum del socialismo nazionale, per non dire internazionale.
Oggi in Sicilia gruppi di contadini, allevatori, pescatori e autotrasportatori, soprannominatosi “movimento dei forconi” hanno paralizzato nel giro di pochi giorni una intera regione, bloccando le strade, organizzandosi nelle piazze e davanti ai comuni, e creando soprattutto enormi disagi ai loro concittadini. Protestano contro il rincaro della benzina, l’abbassamento a livelli mai toccati prima d’ora del prezzo dei prodotti agricoli, contro le tasse statali, regionali e comunali. A organizzare i presidi sono soprattutto personalità di secondo piano della destra locale, qualcuno mette in guardia da possibili, anzi probabili, infiltrazioni mafiose, ma a seguire e a fiancheggiare le proteste, spinti dalla crisi economica e dalla morsa dell’impoverimento collettivo, sono ceti e categorie sociali indistinte, giovani e meno giovani, donne e bambini, anche di sinistra. Avvertono i “forconi”: guai a portare simboli o bandiere di partito, il movimento di protesta è di tutti i siciliani. A fermare i tir dell’ortofrutta e di gasolio sono pochi esaltati, ma, a dire il vero, a mettere la faccia davanti ai collegamenti tv, dietro ai capi, c’è tanta gente, soprattutto gente impoverita e umile, che, come tale, suscita la simpatia dell’opinione pubblica. Ora, per tutto ciò che si è detto fin qui, l’atavica pigrizia italiota, e in particolar modo quella siciliana, va assolutamente combattuta. Ben venga, dunque, la critica e anche la protesta accesa, se si mantiene nei limiti della civiltà.
C’è da stare molto attenti però che non si tratti della solita storia che c’è dietro la non consapevolezza e la non cultura del siciliano, di cui si parlava all’inizio. Cioè che dietro l’apparente protesta della popolazione e la sommossa popolare non ci sia, in realtà, la richiesta della solita politica clientelare, del voto di scambio, e che a organizzarle siano proprio quegli stessi politici che, vedendosi privati del potere decisionale a livello regionale e nazionale, soffiano sul fuoco dell’animosità siciliana e giocano sulla buonafede dei più ingenui. Come è già accaduto, purtroppo, in tempi più e meno lontani.
Allo stato attuale non è ben chiaro a cosa voglia giungere con esattezza questo nascente movimento, ma appare chiara, quantomeno, la sua origine, ambiguamente reazionaria. E non ci riferiamo certo ai tanti siciliani che la stanno fiancheggiando, ma a quelli che, così baldanzosamente, la stanno cavalcando. I metodi, peraltro, come è accaduto a Roma nel caso delle proteste dei tassisti, parlano chiaro e sembrano averne tutta la logica interna: basti pensare al dogmatismo, alla violenza decisa, alla imposizione antidemocratica di bloccare la vita quotidiana senza alcun riferimento alle leggi dello stato, al fatto che sembrano non avere nessun programma fisso. Tutto questo non vi ricorda forse qualcosa?
Fonte: Linkiesta
L'11 settembre e la globalizzazione
Fonte:Internet
Premessa
Per tentare di abbozzare, a dieci anni di distanza, un' analisi di lungo periodo sulle conseguenze culturali, politiche, sociali dell'11 settembre, si deve assumere come polo interpretativo il ruolo della globalizzazione intesa non come categoria puramente economico-finanziaria ma secondo la sua più complessa accezione storiografica, percorrendo le tappe della sua evoluzione e analizzandola con l'ausilio delle scienze sociali. L'evento, infatti, al di là della spettacolarizzazione mediatica, è risultato eccezionale anche per ragioni storiche: mai, dal lontano 1812, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco diretto sul proprio territorio nazionale (in quel caso da parte dell'impero britannico).
La sfida lanciata dal terrorismo internazionale con gli attacchi dell'11 settembre, che ha segnato la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nell'età della globalizzazione, in realtà viene da lontano ed è collegata a processi precedenti, come la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, la rinascita di ideologie nazionaliste e populiste, talvolta a sfondo religioso. Nel caos internazionale che ne è derivato, dettano le regole del gioco organismi ed entità – tra cui multinazionali, Fondo monetario, G8 - che danno vita a rapporti trasversali di potere. Gli stati vengono sempre più condizionati da fattori internazionali, in cui l'azione politica è sottoposta ai dettami del mercato mondiale.
Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo di studio “Eisenhower” della Brown University, i costi dell'11 settembre sono stimati in termini umani in 225 mila persone rimaste uccise nel mondo, delle quali solo poco più di 31 mila appartenenti ad eserciti o a gruppi militari, e, in termini economici, in più di 4 mila miliardi di dollari. In realtà, come vedremo, i costi dell'11 settembre sono stati ben più alti ed abbracciano ben altri aspetti della vita di cittadini di tutto il mondo.
Contesto economico-finanziario
Dal punto di vista strettamente finanziario, il cosiddetto economic impact, dovuto agli attentati alle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan a New York, è stato calcolato in 200 miliardi di dollari. Già a partire dal 24 settembre 2001, dopo le prime ingenti perdite dovute alla paura della gente e, in particolare, degli investitori, le borse americane ed europee, a seguito della decisione della Banca centrale americana e di altre banche centrali europee di praticare una politica di denaro a basso costo e di inondare di liquidità il sistema economico-finanziario mondiale, ripresero a salire, per ritornare lentamente alla normalità alla metà del 2002. Se facciamo una comparazione, molto più traumatici sono risultati i danni di lungo periodo di quella scelta che finì col “drogare” virtualmente il sistema economico mondiale, portando alla cosiddetta “crisi dei mutui” e al grande “crash” di Wall Street del settembre 2008, con perdite fino a 3 mila miliardi di dollari, ben oltre dieci volte l’impatto immediato dell'attentato.
Con l'11 settembre sono cambiate anche le impostazioni del commercio estero. Prima di quella data si credeva che attraverso il liberismo economico la globalizzazione avrebbe diminuito le differenze tra i vari paesi, abbassando il tasso generale di povertà. Dopo, la globalizzazione si è diversificata: sono tornate le scelte protezioniste, per cui l'Europa preferisce commerciare con sé stessa o con la Russia, la Cina attira commercio in Asia e negli Usa, mentre questi ultimi esportano soprattutto negli altri stati americani, in particolare Canada e Messico. L’11 settembre ha inoltre introdotto una forte variabile sul prezzo del petrolio.
Instabilità è il termine che appare più indicato ad esprimere la situazione vissuta dagli stati sotto il profilo economico-finanziario.
Contesto militare-strategico
Dal punto di vista militare, l'11 settembre ha rappresentato un punto di non ritorno, in direzione opposta rispetto agli anni del disarmo nucleare e della cosiddetta distensione. Già a partire dal 2002 il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato, toccando la vetta di 343 miliardi di dollari.
Può apparire interessante comparare, in chiave storica, le spese militari dei vari paesi in età diverse: secondo i dati dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, un anno prima dell'11 settembre, le spese militari statunitensi assommavano a 283 miliardi, contro i quasi 57 della Russia (un quinto circa della potenza bellica statunitense, proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio prima), i 40 del Giappone e i quasi 39 della Cina. Si tenga presente che, nel 1900, le spese militari dell'impero britannico, compreso tutto il suo apparato coloniale, erano pari a poco più di 100 milioni di sterline, contro i 24 milioni dei francesi e i 20 dei tedeschi. Le proporzioni, come si vede, rispecchiano sempre la simmetria tra la posizione e il ruolo del paese leader militare e gli altri, e confermano la tesi della continuità di un'economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare.
Nel 2009, secondo lo Stockholm Intenational Peace Research Institute, le spese militari erano così ripartite: Usa 663 miliardi, Cina 98 miliardi, Inghilterra 69 miliardi, Russia 61 miliardi, India 36 miliardi. Una sempre più accentuata instabilità sembra dunque accompagnare la leadership degli Usa che si esprime ancora con forza sulle spese militari, ma che li ridimensiona molto nelle relazioni commerciali internazionali.
Si è giunti, rispetto al secolo precedente, ad una maggiore frammentazione degli stati, passati dai 40 del 1900 ai 180 circa attuali, e ad un aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 1480 al 1800 scoppiava un importante conflitto internazionale all'incirca ogni mesi, mentre, dopo l'11 settembre,aumentano i conflitti locali tra gli stati e tra i gruppi armati non convenzionali.
Va detto, però, che è cambiato molto, negli ultimi tempi, il modo di fare la guerra. In un volume del 1999 dal titolo Le nuove guerre, ben prima dell'11 settembre, Mary Kaldor aveva già individuato nelle più recenti guerre caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, legata soprattutto all'idea della conquista o della difesa territoriale. Le nuove guerre si fondano su elementi di identità (nazionale, etnica, religiosa) e su diversi metodi di combattimento, come le tecniche di guerriglia o la spettacolarizzazione mediatica dei conflitti. L'analisi di Kaldor si concentrava, in particolare, sulle guerre civili “internazionalizzate”, nei Balcani, nel Caucaso, in Asia centrale, nel Corno d'Africa, in Africa centrale e occidentale. Nell'era della globalizzazione e della delocalizzazione, si delocalizzano anche le guerre, soprattutto in paesi con un'economia debole, e gli stessi terrorismi. Quando i terroristi globali hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nestlé, la Nike o la Pepsi: si spostano altrove.
Anche gli attentati di New York e Washington sono stati definiti “atti di guerra. Le guerre classiche contrapponevano stati nazionali o quantomeno entità politiche chiaramente identificabili, mentre gli attentati dell’11 settembre non sono stati ufficialmente rivendicati, sono stati attuati da nemici senza un preciso volto.
La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti, bensì la modificazione dei loro caratteri. È questa una sorta di guerra globale, una “guerra delle reti” (“netwar”), per riprendere l’espressione coniata nel 1996 da David Ronfeldt e John Arquilla in The advent of netwar, in cui il concetto-chiave è quello di asimmetria, intesa da un punto di vista degli obiettivi strategici, dei mezzi utilizzati, della natura psicologica, e in cui i limiti territoriali e gli spazi esterni vengono annullati e la zona di guerra si confonde con l'intero pianeta. Alla “guerra fredda” succede una sorta di “pace calda”.
Il terrorismo internazionale ha trovato terreno fertile nella prospettiva della globalizzazione. Se è vero che il mondo intero è entrato nell'era delle reti (finanziarie, industriali, dell'informazione, ma anche criminali) e si evolve secondo continui spostamenti di flussi e di interconnessioni (di informazioni e immagini), è altrettanto vero che questo nuovo terrorismo risulta composto da varie centinaia di organizzazioni esistenti proprio sotto forma di reti. Si tratta di strutture fluide, decentrate, non obbligatoriamente gerarchiche, ma spesso formate da gruppi eterogenei, che svolgono operazioni di guerra di varia natura, senza una precisa guida a monte, che sono in contatto senza alcuna base territoriale precisa, la cui velocità di elaborazione e distanza fisica le rende quasi inattaccabili.
E' interessante, a questo proposito, riportare l'esempio dell'apparato strategico cinese, secondo quanto descritto nel volume del 2001 di Liang e Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. In Cina, ben prima dell'11 settembre, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999, hanno sviluppato, in modo completamente rivoluzionario, i concetti di guerra asimmetrica e armi “senza limiti”, soluzioni per opporsi allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti. Questa nuova “arte della guerra” si propaga con la modalità tipica delle reti, cioè con i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico (come quello dell'antrace usato come arma batteriologica).Gli speculatori in borsa, come si intuisce bene in questi giorni, possono mettere a rischio la finanza globale. Un hacker senza alcuna professionalità militare è in grado, di compromettere i sistemi di sicurezza di un esercito o di un paese in poche azioni mirate.
La possibilità di usare come vere e proprie armi anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile è un elemento di un certo interesse, se si tiene conto che l'iniziativa di guerra asimmetrica alternativa proviene da una nazione come la Cina che agli inizi del Duemila impegnava, in proporzione, quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (5,3% del Pil) rispetto ad altre nazioni come gli Usa (3%), l'Inghilterra (2,4%), la Russia (5%), ma soprattutto perché mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate.
Contesto socio-culturale
Dal punto di vista culturale e sociale, i costi dell'11 settembre risultano davvero rilevanti. Basti prendere in considerazione, sinteticamente, l'impatto immediato avuto sul diritto internazionale e sulla questione dell'immigrazione.
Dopo il drammatico evento, molti paesi, compresi parecchi di quelli che normalmente consideriamo “democratici”, Stati Uniti in testa, hanno introdotto delle legislazioni speciali di emergenza internazionale, allo scopo dichiarato di combattere o prevenire il terrorismo, contenenti misure che hanno intaccato, quando non violato apertamente, la sfera dei diritti umani. In realtà, l’indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in precedenza, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. Lo stesso, dopo l'11 settembre, è accaduto in Afghanistan e in Iraq. Questo atteggiamento di diffidenza verso forme di collaborazione sovranazionale ha avuto modo di manifestarsi anche in altre importanti tematiche globali, come quella del rifiuto americano di sottoscrivere il protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti nell'ambiente. A esemplificazione di un certo modo di intendere i diritti umani è stato identificato simbolicamente, se pure condannato ufficialmente dall'amministrazione americana, il carcere di Guantánamo, eretto in una base militare cubana per torturare deliberatamente i terroristi catturati.
La necessità immediata, proclamata al mondo dagli Usa, di combattere con ogni mezzo il terrorismo internazionale, ha comportato l'applicazione di misure di sorveglianza e di controllo con severe restrizioni delle libertà pubbliche, di espressione e di comunicazione, che sono state accettate passivamente dall’opinione pubblica quanto più sono state presentate come misure necessarie alla loro stessa “sicurezza”. Quindi, se da un lato, la lotta al terrorismo ha accelerato il declino dello stato-nazione, dall’altro ha finito con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e la crescita di una società di “sorveglianza globale”.
Lo stesso processo di chiusura si è verificato riguardo ai flussi migratori e al fenomeno dell'asilo umanitario.Dopo l'11 settembre, l’emigrazione è diventata un questione di sicurezza nazionale: l'immigrato viene generalmente associato ad uno status di illegalità, per cui il trattamento giuridico che gli viene riservato, anche in molti stati europei, lo esclude dall'area dei diritti civili basilari, includendolo, a sua volta, nel vortice delle economie illegali.
Scontro di civiltà o dialogo?
Dopo l'11 settembre, portando alle estreme conseguenze una tesi espressa nel libro di Samuel Huntington The Clash of civilization, uscito nel 1996, si è diffuso il concetto di “scontro di civiltà”. La risposta degli Stati Uniti di George W. Bush all'11 settembre ha insistito sullo stereotipo di uno scontro frontale tra Islam e Occidente, esasperandone i contenuti, e creando pregiudizi e paure spesso ingiustificate tra la popolazione.
Una tale visione semplicistica, molto forte a livello mediatico, implica una rappresentazione erroneamente unitaria e impermeabile delle culture dei diversi popoli e dei singoli, tendendo a cancellare, da un lato, le differenze, ad esempio, tra Europa e Stati Uniti, e, dall'altro, a fare dell’Islam un insieme compatto e monolitico. Come ha sostenuto, invece, Edward Said in Covering Islam, un volume del 1997, “quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo”, nel senso che geograficamente e politicamente il termine “Islam” non esiste, così come non esiste quello di “Occidente”.
D'altra parte, già da tempo gli Stati Uniti avevano assunto nello scacchiere internazionale una posizione sempre più unilaterale, pronta a difendere i propri interessi e a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento dall'alto della propria indiscussa superiorità economica e militare, come hanno dimostrato le vicende in Somalia, Nicaragua, Haiti, El Salvador, Repubblica Dominicana, Panama, Sudan, Afghanistan e Iraq. La retorica dei “diritti dell’uomo” e della “democrazia occidentale da esportare” ha accompagnato la maggior parte di questi interventi unilaterali che, se non appaiono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, hanno esposto a rischi migliaia di civili in altre parti del mondo.
A conti fatti, dunque, la strumentalizzazione del legittimo risentimento suscitato nell'opinione pubblica dopo l'11 settembre e indirizzato, in modo generalizzato, contro l'immigrazione e il mondo musulmano, l’idea di una superiorità naturale dell'Occidente, la tesi dello scontro di civiltà, l'idea secondo cui il liberismo economico costituirebbe per tutte le culture l'unico orizzonte di progresso, rappresentano, a ben guardare, i migliori alleati per il terrorismo internazionale.
Hannah Arendt, nel suo The origins of Totalitarism, del 1973, ha scritto che ogni regime totalitario ha bisogno di un “nemico metafisico”. Di certo non è possibile considerare gli Stati Uniti e l'Occidente alla stessa stregua di un regime totalitario, ma è evidente che, dall'11 settembre in poi, anche essi hanno scelto il loro nemico metafisico, ovvero il terrorismo internazionale, utilizzato spesso per coprire interessi economici.
Nuovi scenari
A dieci anni dall'11 settembre, l’intero sistema delle relazioni internazionali è stato sconvolto proprio dalla lotta contro il terrorismo globale. Dopo l'11 settembre, per guidare la lotta al terrorismo internazionale e nel tentativo del mantenimento di un ordine globale, gli Stati Uniti si sono alleati provvisoriamente con paesi storicamente ad essi ostili, come India, Cina e Russia (contro cui aveva combattuto la precedente guerra in Afghanistan del 1979).
Ma a partire dal 2008 e, in particolare, nel 2010, lo scenario globale ha cambiato ancora aspetto. La crisi finanziaria ha rivelato la debolezza degli Usa, quando ancora erano in corso le guerre in Afghanistan e in Iraq. Con la presidenza di Barack Obama doveva prendere il via un’ asse strategica cinese-americana che avrebbe reso tutti gli altri stati meno influenti. Ma la Cina, in politica internazionale, preferiva orientarsi per un ordine mondiale multipolare, in cui la propria forza avrebbe potuto contare ancor di più.
La crisi economica globale, e in particolare quella dei paesi dell'Unione europea, hanno reso gli Stati Uniti ancora più deboli, di fronte al colosso economico cinese e alle “tigri” asiatiche, che viaggiano a ritmi di crescita e produttività insostenibili per gli occidentali.
Dal 2011 le due grandi potenze sono in aperta rotta di collisione. Il nemico principale per gli Stati Uniti, dunque, non è più il terrorismo fondamentalista islamico (da qui la recente cattura e l'uccisione di Bin Ladin) ma un nuovo ben più temibile e potente nemico, contro il quale occorre orientare europei, giapponesi dalla propria parte e mantenere neutrali indiani e russi. Inoltre, di recente, la rivolta dei popoli del Maghreb (ma anche della Siria) che chiedono l'abbattimento dei regimi e l'instaurazione di nuove repubbliche democratiche, ha stravolto ancor più il quadro. Se la rivolta dovesse prender piede in Arabia Saudita, gli Usa, tenuto conto delle sue crescenti difficoltà economiche, sarebbero costretti a concentrarsi solo lì, dove esistono i maggiori pozzi petroliferi del mondo, perché il barile di petrolio potrebbe salire oltre i 200 dollari, con conseguenze ancora più imprevedibili e disastrose sull’economia mondiale.
Fonte: “Per la Storia”, B. Mondadori, n. 47, dicembre 2011
Aborto: quando la realtà supera la fantasia
Fonte: Linkiesta
Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Così come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, né dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalità della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, né la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimità costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici.
Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate più di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cioè per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.
Fonte: Linkiesta
All'alba si chiudono gli occhi. Il fenomeno dei suicidi sul lavoro
Fonte: Linkiesta
Ogni tanto qualcuno manca all'appello. Si è tolto la vita. Di solito, nei film, è all'alba che succede. In realtà, l'orario, mai come in questi casi, è un particolare con poco significato. Di recente è accaduto a Lucio Magri. Era stato un intellettuale e un comunista (non quando lo erano in tanti, ma quando era molto meno di moda). Si sarebbe dovuto parlare di lui, come si fa quando muore una personalità che ha avuto un certo ruolo nella società e nella cultura, o anche come si parla di qualsiasi altra persona comune quando viene a mancare. Parlare cioè, nel bene e nel male, di quello che ha fatto in vita. Punto. Nei giorni seguiti al suicidio (assistito) di Magri, invece, ne hanno scritto in tanti, direi in troppi. Da destra a sinistra, dal mondo laico a quello cattolico, tutti strumentalizzando, chi più chi meno, una morte. Roba da far venire il voltastomaco. L'unico motivo per cui, forse, sarebbe stato corretto parlare di un tale personalissimo, e come tale non giudicabile, gesto, poteva essere, semmai, l'immediata approvazione in parlamento di una legge netta, chiara, definitiva, sul fine vita. Per nessun'altra ragione sarebbe stato giusto parlarne nel modo, a dir poco invasivo, spettacolare, roboante, come se ne è parlato. In primis, per rispetto dello stesso Magri, che non avrebbe voluto. Ma soprattutto per un'altra ragione.
Chi ha qualche anno di età, o chi magari ha studiato un po' la storia, o semplicemente ha ascoltato la canzone Primavera di Praga di Francesco Guccini, ricorda e sa chi fu Jan Palach, il patriota cecoslovacco che si bruciò vivo il 19 gennaio 1969 in piazza Venceslao a Praga per protestare contro la repressione sovietica. Quel suicidio fu, oggettivamente, un gesto rivoluzionario, perché assurse ad emblema, a simbolo, andò oltre il significato specifico e personale della singola, quanto peraltro importante, vita umana, ma valse per una moltitudine, fu qualcosa di corale. Come sappiamo la storia, a volte, si ripete. Ecco che allora Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, si dava fuoco in una strada della Tunisia per protestare contro lo stato e la polizia che non gli permettevano di esercitare quello che, a ragione, riteneva un suo diritto: la possibilità di lavorare per guadagnarsi da vivere. Quel gesto di protesta estremo, quel suicidio, come fu nel caso di Palach, è altrettanto rivoluzionario, perché ha innescato una rivolta collettiva, che ha dato il via alla Primavera araba. Dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia partiva quella lotta di liberazione, a livello di massa, che, al grido di "Pane e libertà", si espandeva un po' dappertutto nel Maghreb e poi fino in Siria. Circa un mese fa, Dawa Tsering, un monaco tibetano, si è bruciato vivo nei pressi del monastero di Kardze, invocando la libertà per il suo popolo dall'oppressione cinese. Un gesto che riporta alla mente l'immagine dei monaci buddisti che, durante la guerra del Vietnam, si davano fuoco a Saigon per protestare contro la guerra. Lasciarsi morire con una determinazione e un distacco impressionanti. Azioni apparentemente contro se stessi ma che in realtà sono contro l'ingiustizia sociale e la mancanza di diritti nel mondo intero. Tutti suicidi rivoluzionari, simbolici, come a volere dire che la vita materiale è un nulla, un'inezia, di fronte alle idee, ai pensieri dell'umanità. Nulla da dire, insomma, tanto di cappello.
Ho fatto questi esempi per ricordare solo alcuni suicidi davvero straordinari, che, credo, abbiano fatto epoca e storia in ognuno di noi. Ma l'ho fatto solo, ritornando alle tante, anzi troppe, parole spese per commentare il gesto di Magri, per arrivare al cuore di ciò di cui, in realtà, voglio parlare. E cioè che ci vuole rispetto per tanti altri suicidi non meno gravi, significativi, emblematici. Forse è una cosa che sanno in pochi, ma oggi, in tutto il mondo, e anche nel paese dove viviamo, cioè qui in Italia, nel silenzio generale, nell'indifferenza assoluta di stampa e media di ogni tipo, esiste un malessere di vita molto più comune e generalizzato, legato al mondo del lavoro, che rischia di diventare un vero e proprio detonatore. I sociologi e gli psicologi più avvertiti ne parlano come di una sorta di moderna malattia di massa delle società avanzate. La crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni ha reso ancor più preoccupante e grave questa condizione.
Si tratta del suicidio da lavoro. Il "normale" suicidio da lavoro, che purtroppo non fa mai notizia, e di cui non parlano mai i vari opinionisti e osservatori di turno, è un fenomeno incredibilmente in crescita. Coinvolge tutti i ceti sociali e tutte le categorie lavorative, senza distinzioni. Detto così sembra, effettivamente, un'esagerazione. Bene, ecco qualche esempio, per rimanere solo ai casi più recenti e più incredibili, per modalità e motivazioni. Un dirigente della Gifas Electric di Lucca, da poco licenziato, prima uccide due suoi colleghi, perché non era riuscito a raggiungere i traguardi prefissati dai vertici dell'azienda, poi si spara nel bagno della ditta. Un giovane trentenne di Ragusa, appena licenziato da una catena di supermercati con l'accusa di aver cambiato cinque buoni sconto da 1 euro invece di utilizzarli direttamente, si suicida lasciando moglie e un bambino piccolo. Un imprenditore di una ditta di intonaci vicentina, che non riusciva più a pagare gli stipendi ai suoi venti dipendenti e l'amministratrice di una fabbrica di rivestimenti plastici a tecnologia avanzata, che aveva dovuto far ricorso alla cassa integrazione per tutti i suoi lavoratori, si tolgono la vita nell'indifferenza più totale delle rispettive comunità. Alcuni forse ricorderanno il caso dell'infermiera dell'ospedale San Paolo di Napoli, quella che si prelevava il sangue in quantità progressiva, fino a morirne, per protestare contro il mancato pagamento del suo stipendio. Ancor più grave, in questo caso, perché vittima suicida dell'inadempienza di un'istituzione pubblica. E ancora, il magazziniere di un mobilificio di Pordenone suicidatosi dopo aver saputo che non gli avrebbero rinnovato il contratto, o l'operaio della Fincantieri di Castellammare di Stabia licenziato in tronco e uccisosi davanti ai familiari. Molto di recente, un assistente di polizia penitenziaria di Battipaglia, a causa delle pressioni psicologiche inflittegli dai carcerati e dai suoi superiori, ha deciso di farla finita. Infine, ma l'elenco potrebbe continuare a lungo, un laureato con lode in filosofia a Palermo si è gettato dal settimo piano della facoltà di lettere: dopo il dottorato ormai conseguito in filosofia del linguaggio, il tutor gli aveva fatto intendere chiaramente che non aveva futuro dentro l'università perché i posti venivano assegnati solo ed esclusivamente per raccomandazione e non certo per merito. Il giovane ha lasciato un foglio con scritto "La libertà di pensare è anche la libertà di morire".
Ho riportato questi casi di comuni e normalissimi suicidi, se paragonati agli esempi dei nomi famosi, tanto celebrati, per riportare il dibattito, come meriterebbe, ad una maggiore serietà e onestà intellettuale da parte di tutti. Sono forse meno morti queste di quella di Magri? Vada pure che ci sia una scala di importanza per i diversi ambiti e settori della realtà lavorativa, dove conta solo chi ha soldi, chi è famoso, chi ha visibilità, ma che questa esista anche relativamente al togliersi la vita, mi pare un po' troppo. Si potrebbe dire, allora, riportando tutto meschinamente su una scala di confronti e di paragoni, che un suicidio di getto, d'impeto, magari eclatante, tipo dandosi fuoco o sparandosi alla tempia o in bocca, sia più dignitoso o valoroso di un suicidio assistito? Suvvia, non scherziamo. Una volta si diceva che la morte ci fa tutti uguali, ma evidentemente, nella società iper-mediatica non è nemmeno più così. Peraltro questo problema dei suicidi di massa nel mondo del lavoro, messi in atto da parte di gente comune, è un fenomeno globale, nel senso che riguarda tutto il mondo, e deve interrogarci tutti, nessuno escluso. Basti citare il caso della France Telecom, dove, negli ultimi due anni ci sono stati una cinquantina di dipendenti di diverso ordine e grado che si sono tolti la vita, per motivi vari, cioè per depressione, stress, clima lavorativo opprimente, competizione, fatica fisica e psicologica. Ma ce ne sono molti altri, in Usa, in Cina, un po' dappertutto. E c'è di più: la Mazda di Tokio, con una storica sentenza, è stata costretta a risarcire con milioni di euro i familiari di un giovane che si era suicidato per "eccesso di lavoro". Si è giunti ad un punto, così paradossale e allucinante, che, per tutelarsi da questo problema, una filiale della Apple a Shenzhen ha chiesto addirittura ai suoi lavoratori di sottoscrivere un contratto in cui si impegnano a non uccidersi in cambio di un aumento del 30% dello stipendio. Insomma, saremmo alla farsa, se non fosse, purtroppo, una questione drammaticamente seria.
Ecco allora, alla luce di quanto raccontato, non credete, cari opinionisti e tuttologi di turno, che sia più deontologicamente corretto stare in silenzio di fronte a certi drammi o eventualmente parlare del malessere e della condizione drammaticamente complicata di tanti giovani e meno giovani lavoratori in questa società post-moderna, che arrivano fino all'estremo atto di uccidersi, piuttosto che accanirsi a giudicare il motivo per cui Magri decida di essere lui solo, non lo stato, non i giudici, non la chiesa, e neppure la società o i suoi amici e parenti nel salotto di casa, ad avere il diritto di stabilire se continuare o no a vivere in questo mondo?
Fonte: Linkiesta
Il consultorio ovvero un ferito ai margini della strada
Fonte: Linkiesta
In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è il problema dei tanti bambini e ragazzi destinati a non diventare del tutto uomini o donne, cioè dei tanti bambini nati malformati, sordomuti, ciechi, per colpa di una mancata assistenza pre e post natale alla madre, o dei bambini cosiddetti "istituzionalizzati", cioè privati di quell'affetto necessario alla loro crescita, o ancora dei bambini violentati, non scolarizzati o avviati alla delinquenza e preda delle mafie. Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi, di fatto, "abortiti" per colpa della società e dello stato. A questo proposito, dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.
Il consultorio familiare venne istituito nel 1975 (anche se le prime proposte risalivano al lontano 1949), con la legge 405, grazie al movimento delle donne che lo aveva fortemente voluto, e alla convergenza dei partiti di allora, cattolico, socialista e comunista. Si trattava di un presidio pubblico con la finalità di assicurare informazione, consulenza e assistenza psicologica, sanitaria e sociale su argomenti fondamentali per le coppie e per le famiglie, cioè maternità, paternità, procreazione responsabile e salute sessuale. Con la legge 194 del 1978, poi, le competenze del consultorio inclusero anche l'assistenza all'aborto.
Fino a quel momento, gli unici centri di sostegno per queste problematiche regolarmente funzionanti erano stati solo quelli privati, con forti connotazioni religiose. I primi consultori prematrimoniali esistenti in Italia, infatti, erano sorti per iniziativa di alcuni sacerdoti o laici d'ispirazione cattolica, riuniti nel Ucipem (Unione Consultori Italiani Matrimoniali e Prematrimoniali), a cui erano poi seguiti consultori di gruppi volontari, di indirizzo politico diverso, come quelli dell'Aied (Associazione internazionale Educazione Demografica), del Cemp (Centro per l'Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale), e del Ced (Centro Educazione Demografica), che tendevano, per lo più, a favorire la conoscenza dei mezzi anticoncezionali. Fino a quel momento, le funzioni dei nascenti consultori, soprattutto dopo la soppressione dell'Onmi (Opera Nazionale per protezione Maternità e Infanzia) e dei servizi gestiti dal ministero della Giustizia, erano state delegate alle Regioni, anch'esse peraltro di recente nascita. La difficoltà organizzativa dei consultori si affiancava all'insufficienza delle istituzioni sanitarie del paese e spesso anche alla mancanza di un'adeguata specializzazione dei medici preposti. Sia l'assistenza alla coppia e alla famiglia, quanto le tecniche psicologiche e mediche finalizzate al controllo delle nascite, non potevano essere svolte con coerenza perché demandate a norme legislative regionali diverse.
La legge che faceva nascere il consultorio familiare pubblico metteva di fronte la capacità dello stato di gestire un problema di tale portata e l'attaccamento della Chiesa alla gestione delle problematiche relative alla famiglia, secondo la propria reiterata tradizione secolare. Si trattava, dunque, di un primo importante banco di prova e di un'occasione preziosa per cominciare un discorso di crescita, non solo a livello di organizzazione sociale, ma anche a livello dei rapporti tra società religiosa e società civile.
Quando nacque, il consultorio scontava subito tutta l'inadeguatezza della legge e delle strutture organizzative italiane: finì per essere gestito dai rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, figure, con tutta evidenza, troppo burocratizzate per poter assolvere alla loro funzione specifica, a scapito dunque del diretto coinvolgimento della società, cioè a dire delle famiglie, delle coppie e in particolare della donna. A questi meccanismi si provò ad affiancare, inizialmente, il volontariato, con la presenza, nel consultorio di donne che informavano e discutevano le varie problematiche relative alla vita sessuale della coppia. Ma una soluzione di questo tipo, se pure utile, non poteva che ritenersi provvisoria e monca. Permanevano, inoltre, enormi differenze tra le diverse regioni. In sostanza, si disse molto all'italiana, i consultori sarebbero diventati ciò che la politica e la società li avrebbero fatti diventare.
Vediamo allora, dopo 35 anni, cosa sono diventati. Dalla metà degli anni ottanta, il numero dei consultori familiari pubblici era continuato a crescere, nonostante la mancanza di un miglioramento della funzionalità e del livello del servizio offerto. Nel 1979, cioè un anno dopo l'approvazione della legge sull'aborto, erano circa 600 quelli pubblici e poco più di 200 quelli privati; nel 1981 si era passati ad un rapporto di 1456 contro 167. Nel 2006 il numero dei consultori notificato era pari a 2188 per quelli pubblici, mentre si erano ancora ridotti, a 103, quelli privati. Ma veniamo all'oggi.
Di recente il ministero della Salute ha pubblicato il primo rapporto nazionale sui consultori familiari pubblici presenti in Italia. La situazione è a dir poco preoccupante. Solo in poche regioni le Asl prevedono un capitolo di bilancio ad essi adibiti, ma più in generale, non hanno alcun interesse a valorizzare i consultori, come dimostra il mancato adeguamento delle risorse e degli organici. Il numero dei consultori è passato dai 2097 del 2007 ai 1911 del 2009, con un consultorio ogni 31 mila abitanti circa, contro un valore legale stabilito per legge di 1 ogni 20 mila in area urbana e 1 ogni 10 mila in area rurale. Mancherebbero all'appello, dunque, almeno 1000 consultori. Inoltre, la legge prevede un organico multidisciplinare, con figure professionali come ginecologo, pediatra, psicologo, ostetrica, assistente sociale, sanitario, consulente legale, infermieri. Nel rapporto si legge invece che solo nel 4% dei casi è coperto l'organico, in particolare l'andrologo è assente in tutti in consultori pubblici nazionali (ad eccezione che in Valle d'Aosta). La legge prevede che il consultorio disponga di locali per l'accoglienza utenti, la segreteria, la consulenza psicologica e terapeutica, le visite ginecologiche e pediatriche, le riunioni, l'archivio, mentre la realtà dice che il 15% dei consultori ha solo 1-2 stanze, ben 440 consultori non hanno una stanza per gli incontri di gruppo, ed addirittura 634 non possono inviare e ricevere mail. Inoltre il 9% dei consultori è aperto la mattina solo uno o due giorni a settimana e il 7% non risulta mai aperto la mattina, mentre il 14% non è mai aperto neppure il pomeriggio, mentre il sabato mattina è chiuso l'86% dei consultori italiani. Quanto ai contenuti, l'assistenza alla gravidanza è praticamente inesistente mentre il percorso prematriomoniale è fornito solo in tre regioni.
Per completare il quadro è bene ricordare che i consultori matrimoniali familiari fondati sul cosiddetto sul "counselling" (cioè sulla consulenza come relazione di aiuto tra consulente e coppia) risalgono alla fine degli anni Venti negli Stati Uniti, ed hanno avuto, da allora, un considerevole sviluppo in numerosi stati europei, in particolare in Inghilterra (1946), nei paesi scandinavi (1952), poi in altre nazione come Austria, Irlanda, Malta, Francia, Svizzera, Germania etc. Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta i consultori hanno poi avuto ampia diffusione e riconoscimento in quasi tutti gli stati dell'Europa occidentale e infine, anche da noi.
E' evidente che, oltre ad essere arrivati ancora una volta per ultimi a questo servizio di base per la cultura della famiglia e delle coppie, ci troviamo ancora oggi ad un livello di funzionalità e di fruibilità del servizio assolutamente inadeguato, se paragonato a quelli degli altri paesi. Non ci stancheremo mai di ricordare e di ripetere, dunque, che è su questi argomenti che si misura il grado di civiltà di uno stato. Forse, al di là delle fumose affermazioni di principio, è il caso che il governo tecnico di recente formazione inizi proprio col mettere mano a inadempienze e inadeguatezze come questa per meritarsi la nostra stima e la nostra simpatia.
Fonte: Linkiesta
Le ammucchiate trasformistiche cominciarono con Depretis
Fonte: Linkiesta
È mai possibile che in Italia non si possa desiderare che ad opporsi in una sana e competitiva dialettica politica ed elettorale, siano, da un lato, una coalizione di centro-sinistra, laica, socialista e riformista, che eviti magari di inglobare in sé, incredibilmente, i peggiori vizi del centralismo democratico comunista e dell'interclassismo democristiano di un tempo, e, dall'altro, una coalizione di centro-destra, caratterizzata da idee democratico-liberali, e non fondata, invece, solo su posizioni populiste se non addirittura eversive? Come ha sostenuto recentemente su queste pagine, Massimiliano Gallo, nella tragica situazione in cui versiamo, finisce per diventare quasi rivoluzionaria la soluzione da sempre più consolatoria, che diventa la meno traumatica, cioè quella di pensarsi tutti un po' democristiani.
In realtà la risposta a questa tragica domanda retorica ce la fornisce, come sempre, la storia.
Trasformismo e grandi ammucchiate politiche sono meccanismi che noi italiani conosciamo bene, anzi si potrebbe quasi dire che li abbiamo inventati. Certo, se è vero che il trasformismo, politicamente parlando, è sempre stato praticato fin dai tempi della nascita del nostro stato, è anche vero che in Italia le grandi coalizioni non sono mai andate troppo di moda. Come dire: i cavalli passano direttamente da una scuderia all'altra.
In tutti i partiti e in tutte le epoche, però, dalla destra storica alla sinistra costituzionale, dai liberali giolittiani ai democristiani, dai socialisti fino ai post-comunisti, il vizio di abbandonare la dialettica vibrante e lo scontro parlamentare su precisi e solidi progetti politici alternativi, per annacquare nel moderatismo e nel conformismo l'attività politica ordinaria, è sempre stato un sport molto praticato.
E non ci si riferisce tanto alle svilenti pratiche di passaggio da un partito o da un gruppo politico all'altro, verificatesi dai tempi dei Minghetti, negli anni ottanta dell'Ottocento, per arrivare fino al trasformista post-moderno Scilipoti. Quanto al continuo e stucchevole richiamo allo spirito di sacrificio durante momenti di emergenza nazionale, che sia economica, sociale o addirittura questione letteralmente di vita o di morte, come ai tempi del terrorismo, poco importa. In realtà, i cambiamenti di linea (e di casacca da parte dei parlamentari) all'interno dei due schieramenti, così come l'allineamento su politiche moderate o di centro, rese simili a prescindere dalle differenze politiche, con lo specchietto per le allodole rappresentato dall'emergenza, sono dettati solo dalla necessità di catturare il consenso di alcune influenti componenti del mondo della finanza e della grande industria, nazionali o internazionali.
Questa convergenza tra posizioni diverse non riguarda, di solito, programmi e progetti politici a lungo termine, ma problemi specifici e circoscritti, ed è raggiunta attraverso accordi e favori elargiti anche a singoli parlamentari, con la scusa che è necessaria l'unità d'intenti e, a parole, il sacrificio di tutti i cittadini. Pur di evitare il confronto aperto, l'alternanza decisa e ruvida tra le due coalizioni, si ricorre alle scuse più incredibili. E non è solo questione di sistema elettorale, con buona pace dei fini politologi, ma di cultura politica. Già un errore di valutazione in questo senso è stato commesso nel 1994, quando il presunto passaggio dal vecchio al nuovo, dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, venne affidato, unanimemente da tutti i soggetti politici, all'idea che una semplice riforma elettorale di tipo maggioritario bastasse a regalare al paese una democrazia dell'alternanza. L'idea alla base era la seguente: con lo stesso meccanismo mentale per cui è possibile esportare la democrazia occidentale in oriente senza corpo ferire, altrettanto si sarebbe potuto trapiantare un sistema elettorale straniero nella nostra vita politica. Questa idea, oggi lo si può dire senza timore di smentita, si è rivelata del tutto illusoria. Gli uomini e i contesti sociali contano molto più dei modelli teorici. Oggi che il rito è stato consumato e il miracolo non è avvenuto, tutti dovrebbero rifletterci su.
Vediamo un po', allora, cosa è successo in Italia, a proposito di trasformismi e larghe intese, nel corso della storia d'Italia. Questo ci permette di capire il vero motivo per cui l'alternanza da noi continua a rimanere un sogno lontano e la dura realtà è invece tutta amaramente democristiana. Realtà simboleggiata, meglio di qualsiasi altra cosa, dalla probabile compresenza dei due Letta, Gianni ed Enrico, nell'esecutivo tecnico in formazione.
Il primo tentativo trasformistico di grande ammucchiata fu quello messo in atto dall'ex mazziniano Agostino Depretis, esponente della Sinistra costituzionale che, nel 1887, incluse nel suo governo esponenti della destra storica. Puntando inizialmente sull'appoggio delle masse popolari scontente dei precedenti governi, Depretis apriva alla borghesia imprenditoriale e agraria, alle grandi industrie, guardando alle nostalgie borboniche dell'elettorato del sud. I provvedimenti presi sull'onda della necessità di fare sacrifici furono niente meno che l'imposta sul macinato, la decisione di non nazionalizzare le ferrovie, per dare un contentino ai gruppi dei costruttori ferroviari, la scelta di ampliare le spese militari per accontentare la monarchia. Si mescolavano a misure come l'allargamento del suffragio elettorale e l'istruzione elementare gratuita, a dimostrazione di un intento altamente demagogico.
Nel secolo XX, non sono mancati altri esempi di grandi coalizioni in fasi di particolare difficoltà del paese. Dopo la fine del fascismo e della guerra, tra enormi difficoltà psicologiche e materiali, in previsione della nascita della Repubblica italiana, veniva varato il cosiddetto governo di “unità nazionale”. Alla caduta del governo Parri, infatti, nel dicembre 1945, nasceva il primo governo di Alcide De Gasperi, con l'appoggio di comunisti socialisti e democristiani, tutti insieme appassionatamente. A dispetto delle solenni dichiarazioni, nei fatti, la politica economica e fiscale era subito affidata al ministro del Tesoro, il liberale Corbino. I provvedimenti che questa coalizione, seppure tra mugugni e diffidenze, prendeva erano i seguenti. Venivano smantellati i controlli sulle attività finanziarie. Erano abolite le imposte sui redditi da azioni e obbligazioni. Era dimezzata l'imposta sul trasferimento di azioni. Venivano liberalizzati i cambi. Era contenuta la spesa pubblica. Crescevano incontrollati i redditi bancari. Erano sbloccati i licenziamenti. Veniva concessa, infine, agli esportatori la libera disponibilità del 50% della valuta ricavata.
Alla fine degli anni Settanta, in piena fase di esplosione del terrorismo, e in concomitanza con il sequestro Moro, nasceva il cosiddetto “governo di solidarietà nazionale”, detto anche “dell'emergenza”. Era presieduto da Giulio Andreotti e veniva votato da democristiani, socialisti e comunisti, anche stavolta, tutti insieme appassionatamente. Quali provvedimenti varava questo capolavoro di strategia politica e quali risultati portavano? È presto detto. Venivano bloccati i salari, con l'ammorbidimento delle posizioni dei sindacati. Era favorita la mobilità del lavoro. Venivano tagliate fortemente le spese sociali. Venivano fatti accordi sulle nomine dei vertici delle aziende di stato, degli organi direttivi delle più importanti banche, equamente divisi tra i partiti. Lo stesso accadeva per la Rai. Aumentava la pressione fiscale, mentre i prezzi aumentano più del costo del lavoro.
All'inizio degli anni novanta, in concomitanza con Tangentopoli e con la permanenza del nostro paese in Europa, dopo l'accordo di Maastricht, sempre con la solita tiritera dei sacrifici, in una situazione oggettivamente allarmante, dal punto di vista economico e finanziario, per il nostro paese, veniva formato il governo di Giuliano Amato del 1992. Era appoggiato da democristiani, socialisti, liberali, con l'avallo silenzioso degli ex-comunisti. Si dava inizio, così, ad una manovra da 30 mila miliardi di lire, fondata su tagli della spesa e nuove tasse, in particolare con il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, con la patrimoniale, la liberalizzazione degli affitti, la fine dell’equo canone, l’aumento dell’età pensionabile, la detassazione degli utili reinvestiti e un piano di privatizzazioni. Qualcuno disse che in quell'occasione si salvò addirittura il paese. Ma si sa, in Italia, non c'è mai limite al peggio. Per cui, oggi, ci risiamo.
Dopo la (presunta) fine del berlusconismo, in una situazione finanziaria internazionale e italiana di gravissima entità, si preannuncia la formazione di un governo tecnico a guida Mario Monti, o anche, eventualmente, di “larghe intese”, che coinvolgerebbe centro-destra, terzopolisti e centro-sinistra in una grande ammucchiata. Anche in questo caso, le misure annunciate, almeno se ci rifacciamo direttamente gli ultimi interventi pubblici dell'economista sul Corriere, parrebbero preannunciare lacrime e sangue per i cittadini italiani. E cioè ridimensionamento drastico del welfare sul recente modello inglese (31 ottobre 2010). Modello Marchionne nei rapporti tra aziende e lavoratori, nonché conferma della riforma Gelmini su scuola e università (2 gennaio 2011). Liberalizzazioni e modifica dell'art. 41 della Costituzione (6 febbraio). Riduzione della spesa pubblica (3 luglio). Rafforzamento della linea di disciplina fiscale di Tremonti (14 luglio). Poi certo, ci sarebbe da far ripartire la crescita economica, la produzione industriale, da colpire drasticamente le posizioni di privilegio della politica e delle rendite, ma il nucleo fondante sembra già delineato. E purtroppo, si sa, quanto si tratta di far fare sacrifici ai cittadini, le forze politiche trovano sempre subito l'accordo, ad ogni epoca.
Ora, è evidente che, nel corso degli anni, dall'unità fino ad oggi, questi esempi di grandi coalizioni e di larghe intese hanno rappresentato casi limitati, sia numericamente che cronologicamente. Sia ben chiaro, non è la norma, per fortuna, bensì l'eccezione. Nell'intervallo di tempo intercorso tra questi esperimenti trasformistici, infatti, ci sono stati anche governi più o meno solidi, più o meno compatti, marcatamente di destra storica o di sinistra costituzionale, governi a guida liberale o governi dichiaratamente fascisti, monocolori democristiani o governi di centro-sinistra organici, esecutivi di centro-destra berlusconiani e di centro-sinistra prodiani, o ulivisti che dir si voglia, che si sono combattuti apertamente in parlamento e nel paese. Per questo motivo, è bene tenere alta la guardia della democrazia, contro tutti i trasformismi e tutte le ammucchiate possibili. Ed è bene che la speranza di provare ad essere un paese normale in cui si confrontino progetti e idee sul mondo e sulla società italiana veramente alternative non muoia. Mai.
Fonte: Linkiesta
Speculazione edilizia: così l'Italia frana
Fonte: Linkiesta
«Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all'Italia?». Era il novembre del 1994, quando Antonio Cederna, autorevole urbanista e parlamentare indipendente di sinistra, poneva questa domanda dalle colonne di Repubblica. È vero, probabilmente, che l'uomo non può impedire del tutto certi disastri naturali, ma di sicuro può prevederne, in parte, le conseguenze predisponendo adeguate precauzioni, in modo da limitarne così i danni.
In questi giorni, invece, mentre le alluvioni mettono in ginocchio intere città, sindaci e autorità non fanno altro che ripetere «non era prevedibile». Pensiamoci un istante. In Italia, si sa, le responsabilità non esistono. E purtroppo è una storia che si ripete. Torniamo a Cederna.
Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10 mila miliardi in trent'anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata (…) La difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell'industria. Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; condono per le dighe abusive, che sono 700. Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l'urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il 20 per cento (6 milioni di ettari) dell'Italia, riducendo del 30 per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali.
Sono parole che si potrebbero riportare per intero, senza aggiunte, in un articolo di commento alle drammatiche alluvioni di questi giorni. I mancati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, da sempre sottovalutati in Italia, sono alla base dei più incredibili disastri ambientali: dalle inondazioni in Sicilia, in Calabria e nel Polesine alla tragedia della diga del Vajont, dalla Valtellina e Val d'Ossola alla frana delle case abusive di Agrigento, dalle alluvioni del salernitano, di Firenze e di Genova fino ai terribili crolli dovuti ai terremoti del Belice, dell'Irpinia e del Friuli. E sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 5 mila morti e un costo stratosferico per le casse dello Stato.
L'Italia è davvero un paese strano. Ma non per ragioni culturali - le solite - quelle formulate dagli osservatori più avvertiti, che parlano di una presunta minorità antropologica degli esseri italici. Più semplicemente, per una questione di senso civico. Siamo un paese che diventa vittima sacrificale per colpa di un po' di pioggia abbondante. Solo da noi eventi climatici considerati naturali in qualsiasi altro luogo del mondo provocano alluvioni, frane, straripamenti. Con conseguenze che, per l'ignavia, l'irresponsabilità e l'arretratezza dei politici che ci governano, annichiliscono le istituzioni e annientano intere popolazioni.
Non è, ovviamente, solo colpa delle classi dirigenti succedutesi alla guida del Paese. Sarebbe una fin troppo facile consolazione. Di fronte al ripetersi ciclico di eventi di questa portata l'opinione pubblica si ribella per qualche giorno, ma poi non vigila più e torna a subire tutto in silenzio, inesorabilmente. Lo stesso fa il mondo della cultura e dell'informazione, buono a recitare qualche paternale, per poi tornare a sguazzare nell'indifferenza. È a dir poco imbarazzante, decennio dopo decennio, anno dopo anno, dover ripetere sempre le stesse cose, come se le parole dette o scritte rimbalzassero sui muri.
Eppure nel lontano 1909, un sindaco, inglese per nascita, italiano di adozione, per scelta e cultura, il repubblicano Ernesto Nathan, era riuscito a far approvare a Roma un piano regolatore che ridisegnava, sul modello dei più importanti esempi stranieri, le topografie della città, tenendo in considerazione il bilanciamento tra quartieri residenziali e spazi di verde pubblico. Una regola semplicissima, quasi elementare, che, se applicata correttamente anche altrove, avrebbe evitato il catastrofico sviluppo edilizio e i ripetuti disastri. Ma anche allora gli interessi dei proprietari fondiari e delle imprese edilizie ebbero la meglio, trovando in Italia protettori potenti ed estese complicità politiche, dagli assessorati degli enti locali, ai partiti con le loro varie clientele, fino alla stessa Chiesa, per non parlare poi dei poteri criminali e mafiosi.
Gira e rigira, si torna sempre allo stesso punto nodale. Il profitto economico immediato di imprenditori e classe dirigente ha spinto verso l'aumento vertiginoso delle aree edificabili, senza alcuna attenzione per una pianificazione ambientale razionale, nel completo disprezzo delle regole e delle norme di sicurezza, da quella anti-alluvioni a quelle antisismiche. Non è azzardato affermare che la speculazione edilizia è stata per decenni il più lucroso affare italiano, una questione di proporzioni immani, che ha pesato e continua a pesare, come è evidente in questi giorni, sulla vita di tutti noi cittadini.
A volte i luoghi comuni albergano anche in chi divulga la storia, per cui parrebbe che i democristiani siano sempre stati solo uomini politici corrotti, reazionari e socialmente arretrati. Non è affatto così. Nel 1962, per rimanere in tema, fu proprio un ministro democristiano di nome Fiorentino Sullo, a cercare di porre rimedio alle maldestre storture legislative dei decenni precedenti, proponendo un disegno di legge generale sull'urbanistica. La sua bozza, secondo la suggestione dei modelli stranieri, era stata addirittura predisposta da un pool di autorevoli tecnici, tra cui l'architetto Giuseppe Samonà e il sociologo Achille Ardigò.
La principale proposta riguardava la concessione ai comuni del diritto di esproprio preventivo di tutte le aree edificabili incluse nei piani regolatori, tassando dell'8% le enormi speculazioni precedenti. La selvaggia speculazione si sarebbe così interrotta o, quanto meno, sarebbe diminuita. Ma anche quella volta la riforma incontrò l'opposizione ferma dei poteri forti dell'imprenditoria edile nazionale e di molti settori della stampa conservatrice, nonché le connivenze del mondo politico e religioso
Negli anni Ottanta e Novanta, in più occasioni, furono i Verdi e gli Indipendenti di Sinistra a sollevare ripetutamente in parlamento la drammaticità della questione ambientale, richiamando alla semplice osservanza delle più avanzate legislazioni europee. Da allora praticamente nulla è stato fatto. La difesa dell'ambiente e la razionalizzazione dello sviluppo del territorio, urbano, costiero e rurale, in Italia continuano a rimanere, in una parola, soltanto un sogno. Basti dire che la legge urbanistica italiana risale all'età fascista, cioè al 1942. Nulla da aggiungere, dunque. Solo due sintetiche riflessioni, che si vanno ad unire, con buona probabilità inutilmente, alle tante altre fatte in questi decenni un po' da ogni parte. Ma tant'è.
La prima. Oggi più che mai, sanità e salute si trovano sempre più su posizioni paradossalmente contrapposte: l'una, in quanto organizzazione istituzionale e culturale, non riesce a tutelare concretamente l'altra. Non è, con tutta evidenza, solo un problema di mezzi e di efficienza dei servizi, ma di educazione civica e di cultura.
La seconda. Ora come sempre, lavoro e ambiente sono due termini collegati molto più di quanto, spesso, non si pensi. Storicamente l'ecologia è nata nelle fabbriche, è cominciata proprio dalle lotte dei lavoratori per la difesa dell'ambiente di lavoro, che è strettamente legato all'ambiente naturale e umano esterno. In un libro edito da Feltrinelli nel lontano 1973, scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, drammatico e amaro fin dal titolo, e sconosciuto ai più, c'era scritto “Lavorare fa male alla salute”. Il lavoro è una condizione di crescita e non può essere fonte di morte e di pericolo, come succede oggi in Italia. Tanto meno può esserlo, in un paese civile e degno di questo nome, l'ambiente circostante.
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Unioni civili e il vizio italiano di stare fuori dal mondo
Fonte: Linkiesta
Il riconoscimento giuridico delle unioni civili, e in particolare di quelle omosessuali, si è ormai esteso in quasi tutta l'Europa. Gradualmente ma senza particolari difficoltà, con una sempre crescente accettazione sociale da parte della popolazione, almeno della maggioranza, e con una attribuzione di diritti economici e sociali sempre maggiore, fino anche alla possibilità, in alcuni casi, di adottare bambini da parte delle coppie non sposate.
Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Austria, Spagna, perfino, più di recente, Ungheria, Portogallo, Irlanda, Islanda e Sud Africa sono paesi che hanno affrontato e risolto la questione, talvolta pacatamente, altre volte con scontri e polemiche, come è anche giusto che sia, nei rispettivi parlamenti. Ma non ci sono solo i singoli stati sovrani. Ci sono state anche deliberazioni più generali: nel 2003 una storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarava incostituzionali le legislazioni contro gli omosessuali, poi la stessa cosa stabiliva la Corte costituzionale tedesca; infine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vietava qualsiasi discriminazione fondata, oltre che sul sesso, la razza, la religione, la lingua, le opinioni, il patrimonio, l'handicap, anche le caratteristiche genetiche, appunto, cioè le tendenze sessuali del singolo cittadino europeo.
In un simile contesto europeo e internazionale, va da sé che il parlamento italiano sia del tutto inadempiente, per non dire latitante, su una questione di siffatte implicazioni civili, morali, teoriche e pratiche, che non coinvolgono, come qualcuno potrebbe pensare, una sparuta minoranza degli italiani. Bastano due semplici dati per dare l'idea dell'entità della questione: oggi sono circa 650 mila nel complesso i conviventi effettivi; il numero degli omosessuali dichiarati si attesterebbe intorno al 5% della popolazione nazionale. Non esistono finora dati ufficiali; l'Istat ha previsto un primo censimento per il prossimo anno, il che la dice lunga sulla sottovalutazione dell'argomento qui da noi.
Si può fare solo un breve resoconto, alquanto striminzito peraltro, e non certo per colpa degli osservatori, ma per oggettive ragioni di carenza propositiva da parte delle forze politiche italiane.
I primi disegni di legge furono presentati nella metà degli anni Ottanta, sollecitati dall'associazione per i diritti degli omosessuali (Arcigay), e appoggiati, peraltro timidamente, solo da socialisti, radicali e indipendenti di sinistra. Negli anni Novanta le proposte di aggiornamento alle legislazioni più avanzate sono aumentate, sulla spinta delle richieste del parlamento europeo, ed hanno avuto una maggiore ricezione anche presso altre forze politiche più moderate, con parziali quanto velate aperture, in realtà esclusivamente teoriche, sia a sinistra che destra. Prima alcune città pilota (come Pisa), poi intere regioni (Toscana, Umbria, Emilia-Romagna), con le modifiche dei loro statuti, si sono dichiarate favorevoli ad una legge sulle unioni civili, istituendo i registri delle convivenze. Negli anni Duemila, durante il secondo governo Prodi, fu discusso alla Camera un disegno di legge presentato da Grillini che si richiamava ai Pacs francesi, poi si parlò di un'ipotesi di legge denominata Dico (Diritti e dove delle persone stabilmente conviventi), poi Cus (Contratto di unione solidale), infine Didore (Diritti e doveri di reciprocità dei conviventi). Sono cambiati i nomi, ma non la sostanza: tutte le proposte sono miseramente fallite, insabbiate da più fronti congiunti.
Nel 2010, però, la Corte costituzionale italiana ha stabilito la rilevanza appunto “costituzionale” delle unioni civili e omosessuali, cioè a dire la possibilità stessa del riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri di questo tipo di convivenze. Ora, stabilito questo principio giuridico, è evidente che per adeguare la costituzione occorre l'azione del legislatore, quindi del parlamento. Ma non si tratta certo di attuare una revisione costituzionale su un tema in Italia così controverso, per la quale occorrerebbero grandi convergenze politiche, assolutamente improbabili allo stato attuale, quanto di formalizzare la distinzione, già sancita peraltro dalla Carta dell'Unione, tra “diritto di sposarsi” e “diritto di costituire una famiglia”, anche tra persone dello stesso sesso.
Allo stato attuale, almeno in Italia, sono state spese tante belle parole, ma sono stati fatti davvero pochi fatti. Ad oggi l’ordinamento giuridico italiano non riconosce a chi convive senza essersi sposato, doveri di mantenimento, né di assistenza, né tanto meno, diritti. In mancanza di una legislazione generale coerente, nel corso del tempo, sono state riconosciute alcune eccezioni: succedere nel contratto di locazione, in caso di morte del convivente; in presenza di figli naturali, quando cessa la convivenza, ottenere dalle assicurazioni un indennizzo, come spetterebbe ad un coniuge; ricevere la pensione di guerra. Esiste, certo, la possibilità di stipulare con il convivente un accordo scritto privatamente, possibilmente redatto da un avvocato o da un notaio, in cui si indicano la ripartizione delle spese e la suddivisione dei beni in caso di rottura. Nient'altro. Roba da Medioevo.
In Italia però, si sa, c'è un potere, non direttamente riconducibile a un preciso partito o a un governo specifico, ma piuttosto ad una vera e propria istituzione, che, nel corso della storia, ha sempre condizionato, influenzato, a volte ridimensionato e addirittura bloccato certe leggi: si tratta, come si è ben capito, della Chiesa. Nel legittimo esercizio del suo magistero, la Chiesa si è sempre opposta, finora, salvo rare eccezioni, e come dimostrano i documenti della Congregazione per la dottrina della fede, a questo adeguamento della legislazione con l'evoluzione del quadro internazionale.
È solo uno dei tanti intricati capitoli dei rapporti tra stato e chiesa in Italia: un affare di coscienza, per una libertà religiosa in Italia, aveva scritto Alessandro Galante Garrone in un libro; Arturo Carlo Jemolo li aveva sintetizzati in una semplice frase “Gli anni della Repubblica non hanno visto, in materia dei rapporti tra Stato e Chiesa, nulla di sensazionale, nulla che ricordi le acri lotte del Risorgimento”. Questo giudizio, scritto nel 1965, può essere tranquillamente sottoscritto oggi.
A questo proposito, per rimanere nell'ambito del nostro argomento, può essere interessante fare un salto indietro nella nostra storia e vedere qual è stata la sua posizione in occasione della vicenda che ha portato, prima con la legge del 1970, poi con il referendum abrogativo, a far diventare legge anche in Italia lo scioglimento del matrimonio. Negli anni Sessanta nonostante il tanto esaltato miracolo economico, i costumi della società non avevano subito grandi trasformazioni dai tempi del fascismo. Erano ancora fondati sul ruolo centrale della famiglia tradizionale, dove i rapporti tra i coniugi erano finalizzati solo alla nascita della prole e a garantire la stabilità dell'ordine sociale.
Dall'entrata in vigore della Costituzione, ben poco era cambiato nel diritto di famiglia italiano, paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile, fondato su principi retrogradi come quelli della proprietà, dell'eredità, dell'autorità, del possesso, del privilegio del sangue, con l'esclusione dei figli generati fuori dal matrimonio e il non riconoscimento, ovviamente, delle coppie di fatto. Se si prende in considerazione, in quegli anni, non la situazione di una coppia sposata che volesse divorziare, ma, ad esempio, quella di giovane coppia di conviventi (esistevano anche a quei tempi), si capisce bene come, anche allora, la realtà fosse ben difficile e complicata. Conviventi e figli illegittimi erano sprovvisti di qualsiasi stato giuridico.
La Chiesa ha sempre esercitato la sua pressione sulle famiglie e sulla società richiamandole ai valori tradizionali e cristiani, a vari livelli, a partire dall'educazione dei bambini negli istituti religiosi, fino a quella delle coppie. La storia è nota: con la secolarizzazione e l'apertura ai modelli delle legislazioni europee, grazie all'apporto prima dei radicali e dei gruppi della società civile, come le femministe, poi con la mediazione delle sinistre di espressione laica (in particolare dei socialisti) e cattolica, in parlamento, si arrivò alla fatidica legge Fortuna-Baslini. Quella proposta si appellava a tutte le legislazioni straniere, ad esclusione dei soli casi arretrati di Spagna e Irlanda. Qualcosa di simile all'oggi.
Bene. Cosa c'entra la possibilità di divorzio con le unioni di fatto, chiederete voi. C'entra eccome. L'anello di congiunzione è presto detto: non tutto il mondo cattolico, anzi, si potrebbe dire, non tutta la chiesa, aveva la stessa monolitica posizione di chiusura nei confronti del divorzio. E qui ci viene in aiuto un elemento importante e condizionante, cioè la posizione espressa dai gesuiti italiani, che rappresentano una espressione, peraltro importante e autorevole, della chiesa stessa. Non ci furono dunque solo i gruppi del dissenso religioso, le comunità di base, l'associazionismo critico, ma storicamente, fu anche un'ala interna alla chiesa ufficiale, a manifestare delle aperture sull'argomento. Per quanto riguarda il precedente storico, basta ricordare un importante articolo di Aggiornamenti sociali uscito nel 1966, cioè 4 anni prima dell'approdo alla legge sul divorzio, dove i padri gesuiti abbozzavano una proposta ai laici fondata, in sostanza, sulla garanzia di parità dei coniugi e sulla presa in considerazione delle “unioni di fatto” (cito letteralmente) mediante il regolamento giuridico.
Se ci spostiamo alla questione delle unioni omosessuali, nel 2008, ancora una volta, la stessa rivista dei gesuiti ha invitato il mondo cattolico a ricordarsi che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell'assunzione pubblica della cura e della promozione dell'altro». Inoltre i gesuiti ha sottolineato, e mi pare questo un particolare molto significativo, che, riconosciuto il valore sociale della convivenza, sarebbe «contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso».
È proprio vero, dunque, che la storia, molto spesso, si ripete. Anche allora, per la legislazione sul divorzio, noi in Italia eravamo indietro rispetto a tutti gli altri paesi, proprio come oggi. Anche allora i gesuiti lanciarono aperture significative. C'è da ricordare, peraltro, che la legge sul divorzio, statistiche alla mano, non diede vita, almeno nell'immediato (e questo dimostra che i fattori di sfaldamento della famiglia tradizionale furono altri e non certo la singola legge) a quello stravolgimento dei costumi che alcuni avevano ventilato: si pensi che i divorzi passarono dal 5,3% del 1973 al 3,1% del 1975, fino ad appena il 3,3% del 1978.
Oggi le coppie di fatto sono in un trend di aumento esponenziale, secondo l'Istat: nel 2010, ben il 36% del totale (erano il 27% nel 2001, il 17% nel 1991, appena l'1,6% nel 1961) e ciò prescinde chiaramente da una legge sulle unioni civili che ancora non c'è. Questo dimostra che, oggi più che mai, in una società globalizzata, le chiusure a riccio sono inutili e non servono ad evitare cambiamenti nei costumi e negli atteggiamenti di vita della popolazione. Servono solo, purtroppo, ad allontanare il nostro paese dal novero delle nazioni civili che volgono il loro sguardo attento alla condizione e ai diritti di ogni persona umana in quanto tale, a prescindere da trattative politiche, favori a istituzioni, ammiccamenti a gruppi di interesse o di potere. A prescindere, insomma, da tutto il resto.
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Un diritto tutto italiano: l'evasione fiscale
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Nella storia del mondo l'Italia e i suoi governi si sono guadagnati un posto in prima fila per avere inventato sostanzialmente un nuovo diritto: il diritto di evasione fiscale.
Basti un esempio storico per dare l'idea della nostra "diversità" su questo aspetto rispetto alle storie dei paesi europei più avanzati. Alcuni secoli fa, i baroni inglesi, e poi ovviamente tutti i cittadini del regno britannico, si sentivano veri contribuenti, si sentivano lo stato, si sentivano classe politica. Per questo il sistema bicamerale ebbe un senso profondo in Inghilterra perché la Camera dei Lords dovette esercitare una specifica funzione non solo politica ma anche finanziaria, che venne poi cedendo alla Camera dei Comuni man mano che la ricchezza affluiva alle classi medie intraprendenti. In poche parole si trattò di una storia corale di coscienza fiscale. E in Italia?
Sentite cosa scriveva a questo proposito Piero Gobetti in un articolo su "La Rivoluzione Liberale" del 1922: "In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non è un'esigenza, ma una formalità giuridica. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il parlamento italiano esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione politica. E' demagogico fin dal suo nascere perché è nato dalla retorica, dall'inesperienza, dalla scimmiottatura. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti.”
Si tratta di un problema annoso, non risolvibile, come invece vuol far credere qualcuno, attraverso mezzi e strumenti esclusivamente economici. Che però, sia chiaro, aiutano. L'economia, infatti, constata l'esistenza di un problema finanziario ed offre una soluzione, ma la sua osservazione resta sul terreno dell'analisi dei sintomi. Si prenda, ad esempio, la questione del pareggio del bilancio che è, da sempre, il punto più sensibile della crisi economica italiana. Esso non può essere risolto solo con riforme tecniche perché è soprattutto un problema di contribuenti. E', per evidenti ragioni, se non altro psicologiche, una questione più di spese che di entrate, ma anche di coscienza tributaria. E' un problema dunque non solo di regole ma culturale, di educazione civica.
Purtroppo in questa lunga storia, cioè nella formazione del nostro costume tributario, le responsabilità dei liberali, a partire da Giolitti, dei cattolici, fin dai tempi di Sturzo, dei socialisti, fin da quelli di Turati, fino ai comunisti di Togliatti e successori, sono state enormi e abbastanza indifferenziate: si è stati cinici nel far passare, di volta in volta, come liberale, cattolica, socialista e comunista, la politica di saccheggio dello stato e la diseducazione a non a pagare le tasse, rivolta rispettivamente a imprenditori, commercianti, contadini e quant'altro. E proseguita a tamburo battente, e in modo incalzante, nel dopoguerra, poi negli anni settanta e ottanta, fino ad oggi. C'è stato, negli ultimi tempi, solo un breve intermezzo con il tanto vituperato ministro Visco. Poi nient'altro.
Ad esasperare ancor più la situazione è stata la politica fiscale di questo governo, che contrasta, addirittura nei suoi capisaldi, con un importante principio di civiltà, cioè la progressività della tassazione ovvero il fatto che più alto è il reddito di un cittadino più si dovrebbe contribuire alle spese dello stato. Tale principio è peraltro sancito dalla Costituzione italiana. In Italia, infatti, la situazione dei contribuenti, col passare dei decenni, si è, se possibile, incancrenita: la pressione fiscale incide molto sulla fascia più povera della popolazione e meno su quella più ricca. Si aggiunge, dunque, al problema principale di educazione alla legalità, anche la questione tecnica del sistema fiscale italiano, che è tra i meno evoluti del mondo. Gli ultimi governi di centro-destra si sono, inoltre, distinti per aver legittimato direttamente l'evasione fiscale, con scudi fiscali, condoni, e quant'altro. Tutto ciò ha aggravato lo stato di insoddisfazione di un paese dove, complice anche la crisi finanziaria internazionale, ma acuito dalla particolare crisi dell'economia e del fisco, queste sì tutte italiane, gli stipendi reali si riducono e dove iniziano ad essere seriamente erosi i risparmi delle famiglie, sempre più in difficoltà.
Concludeva Gobetti nel 1922: "I capitalisti veramente contribuenti cercheranno di non lasciarsi sopraffare partecipando essi pure all'accordo generale e facendosi pagare in sussidi ciò che dovrebbero elargire in imposte". La notizia è che oggi gli industriali, così almeno parrebbe, hanno chiesto un cambio di marcia e perfino una tassazione progressiva. Forse è arrivato il momento, dopo decenni di complicità e inadempienze, che qualcuno intervenga, una buona volta.
Fonte: Linkiesta
Global Spring ovvero la Primavera globale
Fonte: Linkiesta
Spring, 春天, ربيع, le printemps, Frühling. Quando la primavera comincia non la si può fermare.
L’inverno in politica sembra ormai passato e per un bel po’ non ritornerà. Fuor di metafora, sembra proprio che stavolta, davvero, sia nata una “primavera globale”. Nord Africa, Spagna, Inghilterra, Grecia, Cile, Israele, Italia, Stati Uniti. Il 15 ottobre 2011 è previsto il primo appuntamento unitario. Ed è già storia.
Se proviamo a interrogare la storia sulle cosiddette "primavere dei popoli", dobbiamo tornare indietro, quantomeno, a due importanti precedenti: il Quarantotto ottocentesco e il Sessantotto del secolo scorso.
Il primo coinvolse soprattutto gli stati europei: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Austria e Italia, e vide il susseguirsi di sommosse, rivolte, ribellioni, proteste da parte di giovani e lavoratori, a seguito della forte crisi economica, dell’aumento dei prezzi, della crescente disoccupazione. Da un lato, videro l’alleanza tra borghesia e proletariato urbano, dall’altro l’irrompere dei primi movimenti socialisti, con richieste spesso un po’ utopiche e, appunto, romantiche, nel tentativo di collegare l’individuo ad una comunità che non aveva ancora alcun tipo di carattere corale.
In particolare, venivano chieste: indipendenza nazionale, maggiore democrazia, libertà sancita dalle costituzioni, migliori condizioni lavorative. I giovani furono, indubbiamente, i protagonisti di quei risorgimenti, con azioni spesso esaltanti, eroiche, plasmate da condotte di vita poco conformiste per l’epoca, quando non proprio coraggiose, o addirittuta trasgressive. Da Palermo, con la velocità della comunicazione telegrafica, la rivolta si spostò lentamente a Parigi, poi Vienna, Berlino, fino in Polonia, in Ungheria e Boemia.
Anche la seconda ondata rivoluzionaria mondiale, la primavera del Sessantotto, pur avendo, sostanzialmente e a conti fatti, fallito, ha di certo contribuito a trasformare il mondo. Si è sviluppata, per lo più, in America, ma anche in Europa, in Francia e in Italia. I suoi caratteri furono, dunque, mondiali, con uno stretto rapporto tra spazialità e tecnologia: in questo caso più veloce del telegrafo, ma non ancora simultanea. Era già iniziata, comunque, l’epoca del “villaggio globale”.
Anche stavolta le proteste videro come protagonisti i giovani, in particolare gli studenti, che si organizzarono in modo spontaneo, improvviso, straordinario quanto a capacità di mobilitazione, al punto da diventare una moda. Assunse caratteri come l’anticapitalismo, il pacifismo, l’anti-razzismo, l’egualitarismo nelle scuole e nelle università, la richiesta di maggiori diritti umani e civili, la secolarizzazione. Allo stesso modo, da New York si spostò, stavolta ben più velocemente, a Bonn e a Parigi, poi Varsavia, Rio de Janeiro, Città del Messico, Roma, Pechino e Praga.
La primavera araba, iniziata lo scorso anno e proseguita fino a oggi, ha avuto luogo soprattutto nel Nord Africa e nel cosiddetto Medio Oriente, coinvolgendo paesi come l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, la Libia, la Siria, il Marocco. Ha avuto anch’essa, come protagonisti indiscussi, un’intera generazione di giovani, con forme di resistenza civile di varia natura, scioperi, manifestazioni, marce, cortei, sit-in, collegati attraverso l’uso della tecnologia, in particolare la simultaneità di social network, come Facebook e Twitter. Un modo per poter divulgare e rendere pubblici non solo nei rispettivi paesi ma anche all’opinione pubblica internazionale i tentativi di repressione.
Queste proteste si sono contraddistinte per le richieste di libertà, democrazia, maggiori diritti civili e umani, contro la corruzione delle classi dirigenti e la crisi economica. Uno dei motivi che ha portato all’esasperazione le popolazioni arabe è stato infatti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Da Tunisi sono istantaneamente divampate al Cairo, a Bengasi e Tripoli, e hanno portato, in alcuni casi, anche al crollo dei rispettivi regimi.
In tutti questi modelli c’è in comune, con le dovute differenze di tempi legate alle diverse epoche storiche, la medesima capacità dei giovani di annullare lo spazio, comunicando: quasi per contagio.
Nel primo caso in modo trans-nazionale. Nel secondo, internazionale. Nel terzo, addirittura, globale. Nel primo caso, come imitazione di un gesto lontano sentito per le medesime ragioni civili, nel secondo caso, per identificazione planetaria, nel terzo per simultanea percezione della stessa necessità. Se il Quarantotto aveva affermato il diritto dei popoli a costituirsi in soggetti autonomi e indipendenti dentro un unico spazio europeo di stati, se il Sessantotto poneva l’umanità come soggetto richiedente diritti universali in un contesto mondiale, la primavera araba ha sancito la fine della distanza delle rivendicazioni e la contemporaneità e simultaneità dei suoi eventi.
E siamo all’oggi. La protesta giovanile pare essersi diffusa dappertutto, complice la crisi economica globale. L’enorme ondata di proteste da parte di giovani, lavoratori precari, disoccupati, ricercatori (ma anche pensionati), delusi dai partiti e dalla crisi provocata dalla finanza internazionale, che sta scoppiando nelle piazze di tutto il mondo, da Tunisi al Cairo, da New York ad Atene, da Santiago del Cile a Madrid, da Roma a Londra, da Gerusalemme per arrivare persino a Nuova Delhi, potrebbe dare un colpo mortale alla politica tradizionale. Oggi ce ne sono tantissimi, un po’ dappertutto, anche dove non si sono ancora mobilitati. ll 15 ottobre si riuniscono per il primo appuntamento unitario. Basta dare tempo al tempo. Qualcuno l’ha chiamata anti-politica globale.
Forme di anti-politica, per la verità, ce ne sono state diverse anche in passato. Per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare, a livello internazionale, il popolo dei “no global” di Seattle contro il Wto, mentre per l’Italia si pensi al movimento dei girotondi, o al più recente popolo viola, contro le leggi ad personam. Ma, stavolta, sembra si tratti di qualcosa di diverso, più profondo, più radicato, che potrebbe affondare le sue radici proprio in quei nobili e storici precedenti che richiamavo all’inizio. Proviamo a capire perché.
Le piazze, le strade, i sit-in davanti alle scuole e alle istituzioni, in modo costante, permanente, duraturo, tutto questo sembra tornato di moda, dopo anni, anzi decenni di letargo. I giovani, ma non solo, se ne riappropriano con decisione, e si riscoprono rivoluzionari, ma in un modo nuovo. In Spagna li chiamano “indignados”, in Egitto, in Siria, in Tunisia sono i ragazzi della Primavera araba, in America sono chiamati “millenials”. Se le giovani e i giovani arabi hanno abbattuto dei regimi, i giovani “occidentali” si confrontano contro un altro tipo di tirannia o dittatura: quelle di una classe politica corrotta e abbarbicata al potere e di un’economia neocapitalista e neoliberista incapace di fornire adeguate risposte di crescita e di sviluppo economico per tutti. In una parola, contro la globalizzazione. Ma non nei termini del recente passato.
Sembra percepirsi, o quantomeno si intravede, una consapevolezza maggiore, una visione più critica e meno ideologica del processo globale. Non più la visione apocalittica del nuovo “impero”, che riduceva tutto a una concentrazione del potere mondiale nelle mani delle corporation multinazionali, del governo statunitense, delle potenze occidentali europee, in funzione di una cospirazione ai danni dei paesi più poveri e delle categorie sociali meno abbienti. Piuttosto, sulla scia delle analisi della cosiddetta world history, questi giovani considerano il concetto di democrazia occidentale moderna, per varie motivazioni culturali, inadeguato per la comprensione della vita moderna e per capire gli stili di vita di alcuni popoli o paesi orientali, ad esempio come l’India, la Cina o il Nord Africa.
Non si tratta, dunque, di esportare modelli di democrazia laica e democratica di stampo occidentale, possibilmente di stampo liberalista, nei paesi orientali, ma di tradurre certe categorie in contesti molto diversi per cultura e tradizione. Così come si tratta di recepire aspetti e modalità dalle altre culture. Viceversa, l’esercizio del metodo comparativo tra le culture significa far interagire le diversità attive dei comportamenti individuali e collettivi nei diversi contesti, sottolineare e, nello stesso tempo, considerarle come potenziali alternative scartate o sconfitte dalla storia, restituendo piena autonomia e dignità al soggetto umano in quanto tale, alle sue scelte e alle sue battaglie.
Questo confronto costruttivo aumenta le potenzialità della globalizzazione, in particolare sotto l’aspetto della combinazione di nuove tecnologie, culture scientifiche, libertà individuali. Se dunque la globalizzazione (anche sull’onda delle più recenti analisi degli studiosi economici americani) è vista da tutti loro come un completo fallimento (almeno dal punto di vista economico), proprio questa dimensione culturale della globalizzazione, che è evidente nelle critiche rivolte dai giovani indignati alle classi dirigenti che hanno governato questi decenni di transizione, cioè la continua ricerca degli intrecci e degli scambi che nella human community, sembra riuscire a superare i confini e le identità ideologiche del più recente passato.
Questi giovani di diversi continenti sono tutti accomunati da alcuni tratti distintivi: nella maggior parte sotto i trent’anni, con un alto livello di istruzione, usano Internet, l’i-Phone e i portatili, molto spesso sono disoccupati o comunque fanno lavori precari, sono attenti alle tematiche ambientali e dei diritti umani e civili, prendono di mira la classe politica e dirigente dei loro paesi, ma anche le corporations, le multinazionali, le banche.
Una cosa è certa. Rispetto ai predecessori questa generazione ne ha fatta di strada. Lasciamo stare le dirigenze dei partiti, buone solo a strumentalizzare le proteste e a metterci sopra il cappello. Se Facebook, Google, Twitter, You-tube, Wikipedia si mobilitano accanto a loro, questi movimenti potrebbero arrivare lontano e prendersi in mano il proprio futuro. Occorre, però, un progetto più definito, chiaro, una nuova cultura così come una nuova politica. Occorre coordinarsi, darsi obiettivi di rappresentanza politica, acquisire luoghi e spazi fisici oltre che virtuali.
Dalle proteste di questi ultimi tempi viene fuori con chiarezza almeno una richiesta di partecipazione democratica, legalità, giustizia sociale e fiscale, politiche ambientaliste, meno consumismo, lavoro più stabile, istruzione gratuita. Questa generazione indignata, delusa, arrabbiata, poteva essere un bacino fertile per le varie opposizioni di sinistra, ma i leader di questi partiti se li sono persi per strada. Le sinistre non hanno saputo intercettare queste richieste di cambiamento, non hanno saputo canalizzare queste energie disperse, perché non si sono sapute differenziare abbastanza dai vari governi, dalle loro politiche moderate e conservatrici. Non hanno saputo neppure differenziarsi con un riformismo solo vagamente abbozzato. In una parola hanno contribuito ad alimentare una cultura e una politica troppo consolatorie.
Forse ormai è tardi per arginare o incanalare questa protesta. Non rimane che osservarla, farsene interlocutori, e seguirla, nella speranza che non porti a scosse troppo traumatiche e che trovi la sua dimensione di progetto e costruzione di una realtà politica e sociale veramente alternativa.
Fonte: Linkiesta
Concordato tra Stato e Chiesa: privilegi di ieri e di oggi
Fonte: Linkiesta
Dei presunti privilegi che la Chiesa godrebbe nei confronti dello Stato si sente spesso parlare. È un po' come una specie di leggenda metropolitana, tramandata di bocca in bocca da molta gente. Soprattutto in questi difficili mesi di crisi economica, in cui il governo chiede sacrifici a tutti, l'argomento dei privilegi ecclesiastici è tornato di moda e infiamma gli animi dei cittadini, non più dei soliti anticlericali, ma anche quelli di osservatori abitualmente ben più pacati.
Cosa siano i Patti Lateranensi è molto probabile che, anche per sentito dire, la maggior parte degli Italiani lo sappia. In cosa consistano realmente, a quali rapporti e relazioni tra Stato e Chiesa diano vita, invece, sono quesiti pressoché sconosciuti ai più, noti solo a qualche vecchio studioso e a pochi, interessati, addetti ai lavori. Per provare a fare un discorso aperto, a tutto tondo, non ideologico, sul Concordato, occorre rifarsi, come quasi sempre accade, alla storia e fornire dati comparativi. Possibilmente, partire dai precedenti, cioè dal considerare quale fosse la situazione che caratterizzava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa nell'Ottocento, prima dell'Unità d'Italia. Proviamo a farlo sinteticamente.
Ancora nell'Ottocento, la Chiesa provvedeva ai propri “bisogni” con un sistema di autofinanziamento, avendo un diritto di decima. Essa fruiva di donazioni, lasciti, ed era ricca al punto da non necessitare di aiuti da parte dello Stato. La sua presenza nella società era enorme: basti pensare anche solo al fatto che i servizi sociali, di assistenza e di istruzione, non erano forniti dai “piccoli” stati italiani ma erano gestiti dalla “grande” Chiesa.
Con l'Unità d'Italia, lo Stato italiano prende in mano tutti questi servizi, ma con essi anche le rendite in base alle quali la Chiesa esercitava quei compiti. Questo meccanismo mise la Chiesa in condizioni di maggiore difficoltà sotto il profilo patrimoniale. Le parti si erano dunque invertite: se prima lo Stato si serviva della Chiesa per supplire alle proprie carenze, da quel momento in poi fu la Chiesa a doversi appoggiare alle strutture pubbliche per poter esercitare, grazie al suo aiuto, alcuni dei suoi precedenti compiti. Ci furono confische, espropri, passaggi di beni e denaro a favore dello Stato.
Si giunse dunque al Concordato, con questo retroterra che non va dimenticato. Mussolini, firmando il famoso accordo nel 1929, davanti al cardinal Gasparri in rappresentanza di Pio XI, garantiva alla Chiesa la libertà e l'indipendenza del suo governo spirituale, stabiliva che lo Stato pagasse una enorme somma di denaro come risarcimento, concedendole una zona del suo territorio, il Vaticano, ammetteva il matrimonio cattolico e l'insegnamento religioso nelle scuole, riconoscendo giuridicamente gli ordini religiosi e concedendo alcuni privilegi ai membri del clero. In particolare, confermava la congrua, cioè che lo Stato si accollasse una parte dello stipendio dei sacerdoti, per giungere, infine, a concedere un vero e proprio stipendio statale a quei preti che svolgessero funzioni pubbliche, come nell'esercito o nelle scuole (ancora oggi, peraltro, sono scelti dalle diocesi ma assunti e retribuiti dalle regioni o dallo Stato).
Dopo la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, tutti i partiti furono sostanzialmente d'accordo nell'evitare di chiedere la denuncia degli accordi lateranensi. Per i leader dei principali partiti bastò inserire in un articolo della Costituzione, il famigerato articolo 7, un riferimento preciso alla continuità sulla questione del Concordato. L'impressione, ormai consolidata dalla storiografia, è che la Dc, poco interessata a questioni culturali e religiose, dovesse, in qualche modo, restituire il favore dell'appoggio fornito dalla Chiesa alle elezioni, mentre i comunisti, per mantenere la pace religiosa nel paese, non avessero alcuna voglia di imboccare la via dell'anticlericalismo. I socialisti affermarono addirittura che anche la più piccola delle riforme agrarie interessasse loro più della revisione del Concordato. All'assemblea costituente, infatti, solo una sparuta minoranza, qualche ex azionista e qualche cristiano-sociale, aveva osato protestare. Nient'altro.
Il problema in sostanza venne accantonato per più di un decennio, fino a quando non fu riproposto dalla rivista il Mondo (quella di Ernesto Rossi, per intenderci) in occasione di un convegno, organizzato nell'aprile 1957. In quell'occasione fu lanciata la prima proposta pubblica di abrogazione del Concordato, suscitando ovviamente forti proteste nel mondo cattolico.
La questione veniva nuovamente messa a tacere, per essere ripresa negli anni Sessanta, dal nascente movimento dei radicali di Pannella. Il vento della secolarizzazione iniziava a spirare e preannunciava le storiche battaglie sui diritti civili. Ne era passata, d'altronde, di acqua sotto i ponti e da “oltre Tevere”, qualcuno “in alto", aveva iniziato a capire che con lo Stato era forse giunto il momento di trattare.
Sondaggi e opinioni a parte, le forze politiche, ancora negli anni Settanta, non erano affatto convinte di volersi impelagare in una sorta di battaglia campale contro la Chiesa e preferivano impegnare il parlamento a costituire una commissione di studio sul problema e il governo a intraprendere contatti diretti con la Santa Sede. Era, con tutta evidenza, un modo per rinviare sine die il problema.
Solo la sinistra socialista (con Basso), i repubblicani (con Spadolini) e gli indipendenti di sinistra (con Parri) continuavano a proporre una revisione a tappeto del Concordato, sottolineando gli aspetti cruciali della questione: le “finte innovazioni”, evidenti ad esempio nella falsa rinuncia della Chiesa alla definizione della religione cattolica come “unica religione di Stato”, elemento, per la verità, decaduto in Italia fin dal 1948; l'accettazione da parte dello Stato dell'autorità della Chiesa sulla attribuzione automatica dei finanziamenti pubblici e anche sulla sua scelta di insegnanti e docenti nelle scuole e università private cattoliche; i privilegi per enti e beni ecclesiastici.
Era quello un copione che più volte, nel corso degli anni, si riproponeva all'attenzione degli Italiani. Grandi questioni di principio, ma poi, nei fatti, nessuna modifica di sostanza.
Il Concordato era infatti uno degli esempi più classici di come la Chiesa, arroccata a difesa delle sue posizioni di privilegio, iniziasse a perdere terreno e consenso tra la gente comune, come avrebbero dimostrato, nei decenni successivi, il calo inesorabile dei fedeli praticanti e delle stesse “vocazioni”. Ed era anche un terreno che, se avesse visto la compattezza e la giusta convinzione da parte del fronte laico, avrebbe potuto riservare spiacevoli sorprese alle gerarchie ecclesiastiche. Ma la vicenda prese, come vedremo, una ben diversa piega.
Il punto era che democristiani e comunisti, cioè a dire la maggioranza dei seggi in parlamento, non erano d'accordo a inimicarsi la Chiesa con forti scelte di laicità che intaccassero non tanto i principi ideali, quanto i suoi stessi interessi economici e finanziari. Per dare un'idea di quali fossero questi interessi, basti riportare qualche breve passo tratto da due “storici” articoli, uno pubblicato su il Mondo (dicembre 1976) e l'altro sul Corriere della Sera (gennaio 1977):
“Solo a Roma è stato calcolato che le proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici ammontano a oltre 80 milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della città. In Italia, secondo un'approssimazione per difetto, superano i 400 mila ettari... Gli enti ecclesiastici godono di un regime fiscale di favore che comprende non solo la proprietà ma anche le attività costruttive e di esercizio. Gli acquisti sono esenti dalle imposte e dalle tasse di registro, successione e di ipoteca, da quelle sull'asse ereditario e di donazione, dalla tassa di riscossione governativa per l'accettazione di liberalità o per atti a titolo oneroso. Le proprietà sono esenti da contributi di miglioria, dalle imposte sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili... La Chiesa cattolica riceve ogni anno dallo Stato una serie di finanziamenti diretti. Somme ragguardevoli sono iscritte nei bilanci dei vari ministeri, soprattutto dell'interno e del tesoro. Il bilancio del ministero dell'interno a favore del culto nel 1976 è stato di 39 miliardi di lire. L'anno prossimo è prevista una cifra pari a 46 miliardi”.
Fu chiesta la costituzione, dagli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, di diverse commissioni di studio di politici, specialisti, studiosi e furono coinvolte delegazioni della Santa Sede, ma ogni volta i punti cruciali rimanevano inalterati. La solita “grande novità” di principio, vecchia ormai di decenni, relativa cioè alla religione cattolica non più religione di Stato. Il solito rinvio sulle questioni più scottanti. In poche parole, la famosa “bozza di revisione” compiva, da anni, una specie di percorso carsico: per la maggior parte del tempo segreta, invisibile, sotterranea, riemergeva improvvisamente di quando in quando, prendeva una boccata d'aria, non sempre in parlamento, ma passata sottobanco alla stampa, da guardarsi di sghimbescio, per poi far perdere nuovamente le proprie tracce. La Chiesa non era intenzionata, in alcun modo, a cedere i suoi privilegi. Inoltre, col passare del tempo, fu sempre più esautorato il ruolo del parlamento sulla questione, limitando la possibilità di critica dei singoli deputati, e demandando tutto agli accordi diretti tra governo e Vaticano.
Questo almeno fino al 1984, quando a Villa Madama il “decisionista” Craxi e monsignor Casaroli in rappresentanza di Giovanni Paolo II, firmavano un accordo di modifica del Concordato lateranense, secondo la stessa prassi usata tra Stato e Chiesa ai tempi di Mussolini, cioè senza alcuna possibilità di intervento da parte del parlamento. Veniva così varato solennemente un nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, votato da tutto l'arco costituzionale (con la sola astensione dei liberali e il voto contrario di radicali, Pdup e Sinistra indipendente).
Più che un evento storico di eccezionale rilevanza, come venne subito dipinto sulla stampa, il nuovo Concordato fu un'occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche da parte del governo. Uno dei tanti compromessi politici della storia d'Italia, probabilmente il più grande, quanto a forze in campo coinvolte e a interessi finanziari, fatto, come tante altre volte, sulla testa del cittadino.
Il nuovo Concordato fondava un regime che non era né quello della separazione tra Stato e Chiesa, né quello dello stato confessionale. Cosa si stabiliva? In teoria, grandi affermazioni di principio: si aboliva l’ormai anacronistico (oltre che anti-costituzionale) riferimento al cattolicesimo come sola religione ufficiale; si assicurava allo Stato una propria autonomia nelle questioni di diritto familiare, l'insegnamento della religione nelle scuole diventava facoltativo e non più obbligatorio; si aboliva la congrua per i sacerdoti.
Nei fatti però, la libertà della Chiesa faceva un indubbio passo avanti, quella dello Stato rimaneva sostanzialmente quale era, mentre le sue finanze, con buona probabilità, diminuivano. Proviamo a spiegare brevemente perché.
Nelle scuole l'insegnamento della religione veniva impartito da insegnanti nominati dall'autorità ecclesiastica, ma pagati dallo Stato. Era introdotta l'ora di religione nelle scuole materne. Si stabiliva che le scuole private cattoliche avessero un trattamento scolastico uguale a quelle statali, senza però precisare i loro obblighi nei confronti dello Stato. Si prevedeva il finanziamento da parte dei cittadini, aprendo la strada al sistema dell'8 per mille del gettito Irpef (con il meccanismo della donazione automatica alla Chiesa cattolica per il cittadino che non avesse espresso alcuna scelta). Era sancito l'obbligo per lo Stato di finanziare le attività, il personale e il funzionamento della Chiesa cattolica, con le sue decina di migliaia di istituti religiosi, parrocchie ed enti di varia natura, che avessero dichiarato di svolgere un “servizio sociale”. Veniva garantita l'esenzione dall'Iva e dall'imposta su terreni e fabbricati e sulle successioni. Erano accollati allo Stato, infine, gli oneri per la costruzione e la manutenzione di edifici di culto, per la tutela del patrimonio artistico gestito da enti e istituzioni ecclesiastiche.
Sul momento tutti parlarono di evento epocale, di accordi che avrebbero giovato sia alla Chiesa che allo Stato e dipinsero Craxi e gli artefici di quel trattato, tra cui anche l'attuale ministro Tremonti, come una sorta di eroi nazionali.
Sono passati 27 anni dal quell'evento storico, abbastanza per valutarne gli effetti concreti.
Nel 2007 l'Unione Europea chiedeva spiegazioni all'Italia sui troppi privilegi della Chiesa in materia fiscale, frutto del nuovo Concordato, sollevando un polverone tra le file cattoliche e religiose. Già durante gli anni precedenti, con i primi governi Berlusconi, e poi in maniera propulsiva negli anni a seguire, sono stati introdotti altri provvedimenti che si potrebbero definire “di favore” nei confronti della Chiesa: l'esenzione dall'Ici (le prime esenzioni furono peraltro inaugurate nel 1992 dal governo Amato), per una somma compresa fra i 400 e i 600 milioni di euro; quella dall'Ires (portata al 50% per gli enti assistenziali), con un risparmio annuo di circa 900 milioni; i finanziamenti alle università private e all'editoria cattoliche; le convenzioni privilegiate con istituti ed enti nel settore della sanità. E altro ancora.
Probabilmente le indicazioni dell'Ue avrebbero dovuto essere tenute in conto anche da altri governi, se è vero che oggi la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico.
Se paragoniamo i dati forniti negli articoli del 1976 e quelli di oggi, ci rendiamo conto di quanto il nuovo Concordato abbia inciso, ma non certo a favore dello Stato.
Secondo i più recenti calcoli, nel complesso, un gettito di circa 3,5 miliardi di euro all'anno, se si considerano i finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e il mancato gettito fiscale.
Da dieci anni a questa parte, infatti, solo con l'8 per mille ammonta a circa 1 miliardo di euro l'anno e nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni. Non si dimentichi il particolare che questa cifra affluisce nella casse della Chiesa solo sulla base di una apparente volontà maggioritaria dei cittadini italiani: solo il 44% dei contribuenti indica a chi attribuirlo e di questi solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Tuttavia, grazie al meccanismo risalente al nuovo Concordato, le quote dell'8 per mille non espresse, cioè quelle di coloro che non hanno fatto alcuna scelta, non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartite tra le confessioni religiose, in base alle percentuali ottenute. In questo modo la Chiesa cattolica percepisce l'85% dei contributi.
A questi vanno sommati i 360 milioni per gli stipendi degli insegnanti dell'ora di religione, 460 milioni per esigenze di culto e pastorale, 235 milioni per interventi caritativi, altri 700 milioni circa versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Si aggiunga che questa è una particolarità tutta italiana. In Spagna, ad esempio, le quote non espresse del 5 per mille restano allo Stato. In Germania i cittadini possono scegliere di versare l'8 o il 9 per cento del proprio reddito alle diverse chiese. Nel resto dei paesi europei vige il principio della volontarietà del contributo, senza trucchi.
Alla luce di questa sintetica ricostruzione storica e dei dati di comparazione forniti, mi pare che si possa già abbozzare una prima valutazione di fondo, sia sui mancati benefici venuti dal rinnovo del Concordato, sia in termini di libertà e di laicità per lo Stato (acuiti dai provvedimenti dei governi successivi), sia -soprattutto- sulle pesanti ripercussioni in termini concretamente economici sui cittadini italiani, credenti e non.
Fonte: Linkiesta
Carceri italiane, cronaca di un disastro dimenticato
Fonte: Linkiesta
Nel corso del 1982 alcuni giornalisti della Rai, redattori della rubrica televisiva “Cronaca”, nell’intento di far conoscere al grande pubblico la verità della realtà carceraria italiana, avevano deciso di dedicare una trasmissione al carcere di Rebibbia. Dopo un colloquio con l’allora Ministro di Grazia e Giustizia democristiano, avevano avuto l’autorizzazione a intervistare i detenuti e gli agenti di custodia di quel carcere. All’epoca, i carcerati di cui si parlava abitualmente nei servizi giornalistici, erano i detenuti “speciali”, cioè quelli appartenenti alla grande criminalità organizzata, dal terrorismo alla mafia, dalla camorra al traffico di droga. Quel servizio era, invece, un documento di eccezionale valore e interesse perché, per la prima volta, svelava dall’interno del carcere la tragica realtà quotidiana delle condizioni di vita dei detenuti comuni e degli stessi agenti di custodia, e perfino le violenze che alcuni di loro erano stati costretti a subire in silenzio. Ma quella trasmissione, programmata il novembre 1982, gli italiani non l’avevano potuta vedere, perché non era mai andata in onda. I più sospettosi avevano spiegato l’accaduto per un eccesso di autocensura da parte dell’allora direttore generale della Rai. Altri avevano ipotizzato sotterranee pressioni da parte del governo. Quando, qualche tempo dopo, venne fuori la polemica, si disse subito che la trasmissione conteneva violazioni del segreto istruttorio ed altri non meglio specificati reati, tanto che intervenne la Procura della Repubblica di Roma a sequestrare la pellicola. I giornalisti precisarono subito di aver avuto tutte le autorizzazioni del caso e di aver usato le doverose premure e regole sulla privacy, ma, in sintesi, neppure dopo l’intervento della magistratura la trasmissione venne dissequestrata e tanto meno trasmessa.
Si era trattato, con tutta evidenza, di una grave violazione del diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati, oltre che di un’occasione perduta di far conoscere alla gente i veri motivi dell’ingovernabilità e della inciviltà delle istituzioni carcerarie. A fronte della tante dichiarazioni di buona volontà pronunciate, di volta in volta, da governi e ministri della Giustizia, per risolvere la questione giudiziaria, quella censura diceva più di mille parole.
I dati statistici, ancora nel 1983, erano allarmanti. In un’inchiesta sulle carceri italiane pubblicata sull’ “Avvenire” si parlava di un totale di 40 mila detenuti, prevalentemente giovani, stipati tra vecchi muri che ne potevano contenere 27 mila al massimo. Il numero, di per sè stesso, se comparato a quello di altri paesi, non era poi così elevato. Il problema era che solo il 30% scontava una condanna definitiva, il 60% era in attesa di giudizio (24 mila in primo grado, 6 mila in appello) e quindi in carcerazione preventiva (per al meno 2 anni), e addirittura il 30%, alla fine, era prosciolto. Di questi solo una sparuta minoranza si trovava in galera per reati gravi come rapine, sequestri di persona, omicidi, il resto per reati minori, soprattutto per furti. L’inchiesta ricordava inoltre che, in media, un detenuto costava ogni giorno allo Stato circa 60 mila lire, cioè a dire circa 22 milioni all’anno (oggi costa circa 400 euro mensili).
Un capitolo a parte era quello delle carceri di massima sicurezza, che andavano ricondotte entro i crismi della legalità, eliminando tutte quelle vessazioni disumane, arbitrarie che caratterizzavano le condizioni di vita dei detenuti negli istituti speciali. In questo genere di carceri, i detenuti erano spesso sottoposti a vessazioni e privazioni di diritti umani del tutto superflue rispetto alle esigenze di sicurezza. In alcuni casi le restrizioni comprendevano il divieto di leggere libri e giornali, in altri la permanenza all’aperto fuori dalla cella, in altri ancora i colloqui con i parenti venivano ostacolati dall’esistenza di vetri divisori e dalla possibilità di parlare solo attraverso i microfoni, sovente non funzionanti. Talvolta era anche proibito l’acquisto di generi alimentari e di conforto. Le donne recluse erano una percentuale limitata, molto al di sotto del 10% del totale. Nel carcere di massima sicurezza femminile di Voghera, ad esempio, le detenute vivevano in condizioni di totale isolamento. Più in generale, il carcere femminile era, se possibile, una sorta di carcere dentro al carcere, un ulteriore muro rispetto alla stessa società carceraria. Le regole carcerarie erano maschili, con la loro coazione e repressione. Le donne non potevano comunicare con il resto del carcere, oltre a non comunicare con l’esterno, non potevano comunicare con gli uomini. Un muro costruito sulla cultura sessuofobica che in carcere diventava paura e isteria.
Se negli anni Settanta, ospedali, istituti minorili, manicomi e scuole erano stati investiti da una ondata di apertura e il movimento di trasformazione aveva toccato quei luoghi un tempo chiusi per modificarli, nelle carceri continuava a manifestarsi un sistema autoritario e gerarchico, di angherie e vessazioni dei potenti sui subordinati. A chi stava fuori della società veniva chiesto, in poche parole, di non dare fastidio e al massimo di accontentarsi di una soluzione amministrativa o assistenziale ai suoi problemi.
Un importante spartiacque nella storia del sistema penitenziario italiano fu il giugno 1984. Nella casa di reclusione di Rebibbia si svolgeva, infatti, proprio quel giorno, il primo convegno all’interno di un carcere. L’idea era stata di un gruppo di detenuti che stavano preparando una rappresentazione dell’Antigone di Sofocle sotto la guida di quegli stessi giornalisti della Rai che, dopo aver conosciuto alcuni dei carcerati, avevano iniziato, volontariamente, a prestare la loro opera fra di loro. Quel giorno la commozione ebbe il sopravvento sulla gioia e sullo stesso orgoglio di aver realizzato davvero un evento epocale. Cancelli e porte blindate aperti, detenuti e liberi cittadini insieme senza distinguersi, magistrati, operatori, agenti, parlamentari a discutere una relazione elaborata dai detenuti stessi, di ammirevole serietà e ricca di proposte concrete.
L’articolo de L’Unità del 30 giugno 1984 che riprende il convegno a Rebibbia (L’Unità
I carcerati chiedevano, in sostanza, un carcere più umano, misure alternative alla detenzione e la possibilità di lavorare in cooperative interne agli istituti di pena, per stabilire un collegamento organico fra carcere e territorio, in vista della cosiddetta risocializzazione. In quel momento la società politica superava, almeno nei buoni propositi, la visione chiusa del carcere come luogo di segregazione in cui i cittadini non potevano entrare.
C’era da aggiungere il problema degli operatori penitenziari, la cui “immagine” era poco avvertita presso l’opinione pubblica. Ben pochi si rendevano conto che dalle carceri, presto o tardi, i detenuti sarebbero usciti e che dipendeva anche dal modo in cui durante la detenzione erano stati trattati, dai rapporti che gli operatori erano riusciti a stabilire con loro, se al momento di riprendere la libertà avrebbero presentato più o meno alto di pericolosità sociale. La maggioranza dei cittadini manifestava la tendenza a considerare gli operatori penitenziari esclusivamente come i secondini dei vecchi tempi, chiamati a custodire i detenuti nel senso di tenerli ben chiusi e segregati, per non disturbare gli uomini liberi. Una visione totalmente antiquata e frutto di pregiudizi. Da qui la scarsa considerazione e il bassissimo prestigio sociale degli operatori penitenziari. C’era poi un problema concreto, cioè a dire l’organico basso, con circa 3300 agenti ausiliari, e quindi non effettivi, per un totale di 40 mila detenuti, da cui derivavano turni pesantissimi, nonché il problema dei bassi stipendi. In realtà, nelle carceri, esistevano figure molto differenziate. C’era, per esempio, quella del magistrato di sorveglianza, la cui funzione, spesso di carattere amministrativo e di controllo, era difficilmente conciliabile con la posizione di terzietà che avrebbe dovuto avere un giudice. Di solito la stampa si accorgeva della sua esistenza solo dopo episodi negativi come il mancato rientro di un detenuto da un permesso o dopo un’evasione. Nelle carceri non vi erano ancora le condizioni affinché i giudici di sorveglianza potessero effettivamente svolgere le proprie funzioni. Inoltre, la presenza degli operatori sociali (assistenti sociali, educatori, psichiatri, psicologi, criminologi, ecc) era una realtà diffusa pressoché in tutti i paesi occidentali, ma, in Italia, il loro ingresso nelle carceri era avvenuto, invece, con sensibile ritardo e con contraddizioni specifiche.
In materia di carcere, probabilmente, la società civile si rivelava più arretrata della società politica. Fino a quel momento, la gente si era sempre sentita estranea al problema della prevenzione alla criminalità, la riteneva una questione da politici, così come considerava la repressione compito esclusivo della polizia e della magistratura, e la rieducazione attribuibile soltanto ai tecnici della risocializzazione o, eventualmente, agli operatori del volontariato. Quando il paese era stato chiamato a pronunciarsi tramite referendum sull’abolizione dell’ergastolo, nel 1981, aveva risposto di no, a stragrande maggioranza. L’ergastolo, invece, grazie a una legge del Parlamento, approvata a larga maggioranza nell’ottobre 1986, qualche anno dopo, veniva abolito: i carcerati condannati all’ergastolo sarebbero usciti in libertà condizionale, dopo 26 anni di detenzione. Il nuovo regime carcerario italiano diventava, almeno in teoria, tra i più avanzati del mondo. Ma prima c’erano volute le rivolte carcerarie (le prime fin dal lontano 1969 a Torino, Milano e Genova, nel 1973 devastazioni e incendi a Regina Coeli, a San Vittore, ad Alessandria, con alcuni morti, poi ancora un’ottantina di focolai di protesta carceraria, tristi episodi di suicidi), e il problema era stato posto all’attenzione dell’opinione pubblica soltanto da alcune inchieste giornalistiche e dagli scritti sulle condizioni dei carcerati, superando l’aula parlamentare e le isolate denunce degli indipendenti, dei radicali e della sinistra socialista.
La riforma delle carceri del 1986, meglio nota come “legge Gozzini”, era una importante conquista di civiltà, un segnale di fiducia e di ottimismo riposto dalla società nella bontà della natura umana. I capisaldi di quella legge erano l’attribuzione alla pena detentiva di un carattere flessibile (discontinuità della pena), l’estensione dei permessi premio, semplificando le procedure per ottenerli, e delle cosiddette misure alternative alla detenzione: il lavoro all’esterno del carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, o anche la liberazione condizionale, ossia sorvegliata da controlli periodici di polizia, che il tribunale di sorveglianza poteva concedere quando la maggior parte della pena era stata scontata e il condannato presentava determinati requisiti.
A qualsiasi condannato (anche quelli per reati connessi alla criminalità organizzata, sia mafiosa che politica), veniva infatti riconosciuta la possibilità di cambiare, di essere recuperato e reinserito nella società anche prima di aver scontato l’intera pena, anche se si trattava di una condanna all’ergastolo. La sentenza pronunciata dal giudice del dibattimento non era più intangibile nella misura della pena, questa poteva essere ridotta durante l’esecuzione da un altro giudice, quello di sorveglianza, in relazione al comportamento in carcere del condannato. E la riduzione era pari a un quarto: 45 giorni ogni sei mesi di detenzione. Riguardo ai permessi: tornare per qualche giorno in famiglia, agli affetti, riprendere i rapporti più cari poteva costituire, da un lato, un mezzo prezioso perché la pena fosse accettata più serenamente, dall’altro, una preparazione pratica e morale al reinserimento quando la pena fosse stata espiata. A fronte del numero minimo di condannati che evadevano (circa il 2%) o commettevano altri delitti, c’era il numero grandissimo di altri condannati che andavano in permesso e regolarmente ritornavano. L’affidamento in prova al servizio sociale poteva essere applicato alle pene non superiori ai tre anni, ma una sentenza della corte costituzionale aveva ampliato questo limite. I centri di servizio sociale per adulti erano organismi dell’amministrazione penitenziaria, operanti fuori delle carceri.
Una particolare forma di affidamento era quella prevista per i condannati tossicodipendenti, allo scopo di favorirne l’inserimento in comunità terapeutiche. La detenzione a domicilio era analoga agli arresti domiciliari nel periodo della custodia cautelare antecedente alla condanna definitiva: a casa sua o in altro luogo privato o pubblico, ospedale, ospizio. Potevano essere ammessi alla detenzione domiciliare i condannati a non più di due anni o a cui due anni alla fine della pena. Non tutti però: solo le donne in maternità, gli ultra sessantacinquenni, se inabili anche parzialmente, i malati gravi, i minori di ventuno anni. La terza misura alternativa, la semilibertà, poteva essere concessa ai condannati che avessero scontato almeno metà della pena. Di giorno fuori, di notte in carcere.
Sono passati ormai 25 anni da allora e negli ultimi tempi una vera e propria legislazione repressiva ha preso campo in Italia, che ha avuto come risultato il ritorno al passato: la ghettizzazione, la catalogazione e l’esclusione sociale del carcerato. Sono state soprattutto due le leggi che hanno causato circa il 60% delle detenzioni. La prima, Fini-Giovanardi, che agisce sull’equiparazione delle droghe leggere (cannabis e derivati) a quelle pesanti (oppiacei e droghe chimiche) e costruisce una equiparazione, non solo sociale, tra lo spacciatore ed il consumatore. Tutto ciò ha portato ad una quantità enorme di giovani in carcere, con successivi problemi di ordine psicologico derivati dal trauma della carcerazione e con problematiche dettate dall’esclusione dal contesto sociale. Circa 39 mila unità, il 44% di tutti gli ingressi del 2009. Il caso italiano è un unicum in Europa. Secondo i dati del Consiglio d’Europa, i detenuti per reati previsti dalla disciplina sugli stupefacenti rappresentano mediamente il 16%. La seconda, Bossi-Fini, con il peggiorativo pacchetto-sicurezza, che ha creato il “reato di immigrazione”, trasformando una sanzione amministrativa in un reato penale. Questa legge ha avuto un impatto di circa il 25% sul numero dei detenuti totali, portando in prigione uomini e donne che sopravvivono con lavori a margine, extra-legali o sommersi, che alimentano mercati economici gestiti dalle mafie. La presenza di persone straniere nei penitenziari italiani è più che raddoppiata negli ultimi venti anni: se nel 1991 c’erano il 15% di stranieri nelle patrie galere, nel 2010 erano diventati il 36% (addirittura in due carceri sarde la presenza di stranieri arriva al 70 e all’80%). La percentuale delle donne nelle carceri rimane invece stabile (passa in vent’anni dal 5,3% al 4,3%).
È tornata, in altre parole, l’esclusione sociale dei detenuti: dalla sistematica non applicazione dei diritti umani sanciti a livello europeo e internazionale (alla sanità, alla cultura, all’istruzione), ai processi di riqualificazione e reinserimento lavorativo con condizioni di lavoro interno pessime, sottopagate e senza tutele (nel 2010 il numero dei detenuti lavoratori era di 14 mila circa il 20% del totale, nei settori industriale e agricolo).
I detenuti in Italia sono oggi circa poco meno di 70 mila, di cui il 50% circa in attesa di giudizio (su scala internazionale, nel 2010, l’Italia si trova all’ottavo posto tra i paesi europei per la percentuale di persone in attesa di giudizio detenuto negli istituti di pena, dopo stati come Montenegro, Andorra, Liechtenstein, Turchia, Lussemburgo e Gibilterra). L’ambiente che si respira tra i detenuti si riassume facilmente con il numero di suicidi: 66 nel 2010. La capienza dei nostri istituti di pena è pari a 43 mila posti, con una capienza tollerabile di 48 mila, e con un sovraffollamento medio del 150%. Il primato negativo di sovraffollamento spetta all’Emilia Romagna, poi alla Puglia e al Veneto. Guardando all’Europa, secondo i dati forniti dal Centre for Prison Studies del King’s College di Londra, l’Italia è il terzo paese come sovrannumero di carcerati, solo dopo Bulgaria (155%) e Cipro (153%). Il 2011, inoltre, ha visto un ulteriore aggravarsi della crisi in cui versa il sistema penitenziario italiano, che peraltro, usufruisce di risorse sempre più esigue (i fondi sono diminuiti del 15%). È in crisi, soprattutto, il sistema delle misure alternative al carcere (nel 2010 le persone in misura alternativa erano circa 16 mila, il 19% del totale). Quanto, infine, ai tristi casi degli ospedali psichiatrici giudiziari, nei 6 istituti visitati di recente da una commissione di parlamentari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere) sono stati trovate condizioni fatiscenti, dotazione carente di attrezzature e personale medico, condizioni inaccettabili degli internati, abbandonati in stanze, senza alcun tipo di cure.
Nel 2010 il comitato per la Prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha definito incredibile la situazione riscontrata nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, dove alcuni detenuti vengono legati al letto seminudi, 24 ore su 24 anche per dieci giorni. Anche il sistema della giustizia minorile, pur essendo molto più funzionale ed efficiente rispetto a quello degli adulti, nonostante la Corte costituzionale abbia posto attenzione alla questione, per esempio abolendo l’ergastolo per i minori, ha fatto negli ultimi anni preoccupanti passi indietro.
Di recente la Corte costituzionale tedesca, con una sentenza storica, ha obbligato le autorità penitenziarie del paese a rilasciare un detenuto qualora non siano in grado di assicurare una prigionia rispettosa dei diritti umani fondamentali. La decisione tedesca apre la via alle liste di attesa penitenziarie che già sono state realizzare in altri paesi del nord Europa. Il governo norvegese ormai 25 anni fa intitolò il piano di edilizia penitenziaria “Ridurre le attese per scontare la pena”. Era ovvio per il governo scandinavo non incarcerare persone alle quali non potesse essere assicurato un posto letto dignitoso. Le liste di attesa per detenuto sono un’invenzione norvegese. Se non c’è posto in carcere si aspetta a casa che il posto si liberi. In Italia, pochi giorni fa, il Tribunale di Lecce ha sentenziato che il carcere di Borgo San Nicola dovrà risarcire con 220 euro un detenuto tunisino per danno esistenziale dovuto ad una cella troppo piccola (di circa 11 metri quadrati da condividere con altre 2 persone).
La civiltà di un paese si misura, non solo dal grado di sviluppo economico e culturale, e dalla situazione relativi ai diritti civili, ma, anche, dalle condizioni delle sue carceri. È forse il caso di tornare al passato e di aggiornarsi alle legislazioni europee più avanzate, come peraltro è già accaduto nella nostra storia.
Fonte: Linkiesta
Bacheche vuote e crocifissi appesi
Fonte: archivio privato
Ho letto, di recente, che negli Stati Uniti, per l'esattezza in un campus dell'Università del Wisconsin, un professore ha ricevuto delle minacce da parte della polizia ed è stato censurato dai vertici dell'ateneo, con la motivazione di "cattiva condotta". Pare abbia affisso sulla bacheca del suo ufficio alcuni fogli personali. Cosa c'era scritto? Uno parafrasava il personaggio di un noto telefilm americano con frasi che incitavano alla violenza. L'altro, prendendo spunto dall'immagine di un cartone animato, ipotizzava il famigerato ritorno del fascismo. "Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini e degli animali” - aggiungeva.
Questa notizia mi ha indotto a due riflessioni, una semiseria, l'altra un po' meno.
La prima è che in terra americana, patria della libertà di pensiero e di opinione, censure di questo tipo stridano un po con l'età in cui viviamo. L'uso, molto in voga nei paesi anglosassoni, di attaccare vignette, foto, manifesti, volantini, sulla bacheca del proprio ufficio, potrà anche non piacere a qualcuno, se inteso come utilizzo privato di uno spazio pubblico, ma almeno dà l'idea di una certa vitalità e scambio, seppure scherzoso e ironico, tra docenti e studenti. Ben vengano foto divertenti e post-it con tanto di botta e risposta. Qui da noi purtroppo, negli uffici degli atenei, e da un bel po' ormai, le bacheche risultano completamente vuote. Simboleggiano, meglio di qualsiasi altra cosa, la lenta agonia di un'istituzione, dopo i tagli del governo. Non ci saranno certo violazioni di diritti, ma, con tutto il rispetto, a guardarle mettono davvero tristezza.
La seconda invece concerne, più in generale, l'utilizzo di immagini o di simboli, religiosi o di altra natura, come emblemi o rappresentazioni ufficiali di intere popolazioni, per esempio quelli appesi alle pareti. Qui il discorso si fa più scivoloso. Prendiamone non uno a caso, ma il più celebre: il crocifisso.
In alcuni paesi europei l'uso del crocifisso in luoghi pubblici, e in particolare nelle aule scolastiche, è vietato, perché si garantisce così, non solo teoricamente, la parità tra la religione cattolica e gli altri credi religiosi professati dalla popolazione. Negli Stati Uniti i simboli religiosi non sono vietati nei luoghi pubblici quando esposti in modo appropriato e passivo, semplicemente perché i tribunali americani riconoscono il valore non solo di fede ma anche culturale e civile dei simboli religiosi. Nella fattispecie, il crocifisso è visto come simbolo cristiano ma anche del sacrificio militare. Questo ultimo aspetto mi porta ad affrontare, sinteticamente, la questione della presenza del simbolo cristiano del crocifisso nei luoghi pubblici in Italia. Lasciamo da parte la questione se è giusto che un paese laico dia la preferenza ad un simbolo religioso, che pure rappresenta una parte fondamentale della sua storia, piuttosto che ad altri. Proviamo invece a svolgere una riflessione di carattere psicologico e antropologico.
Mi pare che si debba partire dall'asserzione che il significato di un simbolo non sia oggettivo e unilaterale ma debba essere liberamente lasciato all'interpretazione di chi lo guarda.
Faccio un esempio in proposito. Una persona, magari di famiglia musulmana, regala ad un'altra un tessuto indiano coloratissimo, splendidamente ricamato con immagini floreali. Ai suoi occhi appare bellissimo, originale. Alla sua mente ricorda una storia ancestrale di popoli lontani, di usanze misteriose e sconosciute ai più. L'effetto indotto sull'altro, qualora sia, per esempio, di origine ebraica, può essere però devastante e provocare reazioni sdegnate. Ciò accade nel momento in cui in quel mosaico di forme e colori, l'altro vada subito ad individuare una piccola croce uncinata, simbolo solare diffuso in Oriente. La persona ricevente lo interpreterà, piuttosto, come una svastica nazista, con tutti i collegamenti logici del caso.
Questo piccolo esempio serve per dimostrare che qualsiasi simbolo, religioso o meno, essendo aperto a interpretazioni diverse, non potrà mai rappresentare il pensiero di un'intera nazione.
E' evidente che per alcuni cattolici, più o meno praticanti, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, rappresenti il simbolo dell'amore e del sacrificio eminentemente cristiano, ma per altri possa rappresentare, ad esempio, il potere esclusivamente temporale e politico della chiesa.
In sintesi: se da un lato, missionari, sacerdoti, gente di buona volontà hanno diffuso pacificamente e con tolleranza, spesso con il crocifisso in pugno, la parola di Cristo tra la gente, dall'altro, a qualcuno quel simbolo potrebbe suggerire alla mente le stragi di islamici durante le Crociate, gli eccidi degli albigesi, i massacri dei valdesi, le torture dell'Inquisizione, lo sterminio dei nativi sudamericani, perpetrate proprio con la croce impressa sugli scudi.
Il simbolo religioso, nella fattispecie il simbolo cristiano per eccellenza, è carico di valori soggettivi e, come tale, non può rappresentare tutta la cristianità italiana, né tanto meno la cristianità mondiale, ma forse, solo i cattolici. Ad esempio, per gli ebrei, per gli islamici, ma anche per molti cristiani, esso è indice di idolatria.
Ecco, per questa semplice motivazione psicologica e antropologica, e non per ragioni politiche, teologiche o di puro principio filosofico, uno stato laico non dovrebbe consentire, né tanto meno imporre che il crocifisso, così come qualsiasi altro simbolo religioso, sia esposto nelle sue sedi pubbliche, e in particolare nelle scuole. Il suo posto è nelle chiese.
Questo, peraltro, non significa affatto mettere in discussione i valori umani e sociali insiti nell'insegnamento del Vangelo e nella figura di Cristo. Anzi, va detto che, proprio attraverso una riforma e una revisione dell'impostazione data, ad esempio, all'ora di religione nelle scuole, esso potrebbe acquistare ulteriori motivi e momenti di studio, di analisi comparata rispetto alle altre religioni, in una sorta di nuova ora di storia delle religioni del mondo, come sosteneva, tra gli altri, l'antropologo Alfonso Di Nola. Ciò arricchirebbe fortemente, a mio avviso, il messaggio stesso del cristianesimo. Lo si affronterebbe, infatti, non in modo simbolico, emotivo e dogmatico, cioè a dire attraverso un crocifisso appeso al muro, ma in modo storico, analitico, sociale. Voler diffondere il messaggio cristiano a colpi di crocifisso significa avere una visione gretta, limitata, assolutamente incompatibile con la realtà di oggi, momento in cui occorrerebbe, più che mai, una chiesa capace di aprirsi alle novità delle nuove generazioni.
A questa spiegazione rigorosamente culturale, ne aggiungerei un'altra di carattere storico. Il crocifisso è previsto da un decreto risalente addirittura all'Unità d'Italia, confermato poi dalla monarchia nel 1908, ma è stato imposto nelle scuole statali solo dal regime fascista nel 1924, anno del delitto Matteotti, e poi passato automaticamente indenne nel Concordato del 1929.
Ora, a quell'epoca, il simbolo del crocifisso non era esclusivo nelle pareti delle scuole, ma era affiancato, alla sua destra, dal ritratto del Re d'Italia, e alla sua sinistra, da quello del Duce. Ed aveva un senso proprio in quel preciso contesto. Già prima, ad esempio durante il Risorgimento e per tutto il primo periodo post-unitario, la questione della libertà religiosa era stata affrontata e dibattuta con una serietà ed un rigore morale completamente sconosciuti al regime, tanto che vari governanti e politici, fino a Giolitti, non accettarono mai la pretesa dei cattolici di imporre il crocifisso nei luoghi pubblici. Successivamente, nei decenni repubblicani, la scelta di mantenere quel simbolo religioso come emblema dell'italianità fu dovuta a questioni di semplice opportunità politica, per ingraziarsi le alte sfere ecclesiastiche, prima da parte degli spesso poco religiosi e moralmente corrotti dirigenti democristiani, poi da parte dell'altrettanto corrotto leader socialista. Oggi, nella cosiddetta “seconda repubblica”, seppure in una società ormai completamente secolarizzata, l'atteggiamento di supina sudditanza e riverenza di maggioranza e opposizione nei confronti della Chiesa, continua (si prenda, ad esempio, il recente articolo di Veltroni sul “Foglio” di Ferrara, dal titolo “Io sto col Papa”).
Vivaddio, la storia d'Italia, fino a prova contraria, non è stata fatta solo da Mussolini, Andreotti e Craxi, ma anche da Mazzini, Garibaldi e Cavour. E non tutti hanno permesso che il crocifisso fosse assurto a simbolo dell'italianità e presente immancabilmente nei luoghi pubblici, come spesso qualcuno cerca di far credere agli italiani.
Forse in un futuro prossimo, una classe politica completamente rinnovata, attenta, critica, fatta da giovani con una mentalità aperta al nuovo contesto globale e multiculturale, ma non per questo contraria pregiudizialmente a certi valori religiosi, e tanto meno digiuna dei principi (l'art. 3, 8 e 19) che definiscono incompatibile la presenza di qualsiasi simbolo religioso in posizione di monopolio con il dettato costituzionale, deciderà di equiparare finalmente il nostro paese, anche su questo argomento apparentemente futile o astratto, ma in realtà carico di significati, agli altri più avanzati paesi europei. Non sarebbe affatto un modo per sminuire il valore della religione cattolica, ma piuttosto per darle uno “scossone”, nel tentativo di renderla più viva e vitale, e non così arroccata su se stessa e separata dalla società in cui viviamo.
Fonte: Cronache Laiche
Adozione dei minori. Per una legge che rifletta i cambiamenti della società
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Di recente il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha riconosciuto, in Italia, un provvedimento di adozione per un bambino africano di 7 anni (dello Zambia) da parte di una donna siciliana (nubile, di professione medico), che lo aveva avuto in affidamento quando aveva solo pochi mesi. Si tratta di un' adozione "particolare", concessa a un singolo genitore, non coniugato: in questo caso con la motivazione che il piccolo è orfano di entrambi i genitori ed ha avuto un rapporto preesistente stabile e duraturo con la donna. Se un marziano avesse messo piede sul nostro paese proprio subito dopo quel riconoscimento, avrebbe subito pensato di trovarsi in un luogo all'avanguardia in tema di diritti civili e in particolare dei minori. "Visto" , avrebbe detto, "voi italiani state sempre a lamentarvi del profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica, insensibile agli effettivi problemi e ai bisogni della gente, e il mondo vitale della società impegnato nella quotidianità! State sempre lì a dire che il parlamento è indotto a legiferare sulla base solo di spinte corporative e gruppi di pressione, e comunque sempre e solo a seguito dell'esplosione dei problemi, quando si sono incancreniti, e mai prima! E invece avete delle ottime leggi, che noi marziani non possiamo far altro che invidiare." Purtroppo, al di là di questo simpatico siparietto tra il marziano e gli italiani, la questione si pone in termini ben diversi. L'adozione del bimbo africano da parte del medico siciliano è un caso rarissimo. In realtà, anche sotto questo punto di vista, purtroppo, l'Italia appare una nazione del tutto arretrata, bloccata, poco competitiva, rispetto agli altri paesi europei. Scopriamo il motivo, ripercorrendone sinteticamente le tappe storiche.
A dire il vero, all'inizio della storia, le cose erano andate piuttosto bene. Si è quasi corso il rischio, nella seconda metà degli anni sessanta, di essere considerati un paese civile e all'avanguardia. Fu proprio quello della riforma sull'adozione dei minori e l'introduzione dell'adozione "speciale" il primo vero banco di prova che funzionò come apripista per la legislazione sui diritti civili e familiari nel nostro paese, come dimostrarono poi divorzio, obiezione di coscienza e aborto. Prima della nuova legge, approvata nel 1967, non era raro che migliaia di coppie senza figli rinunciassero ad adottare un bambino abbandonato per i ritardi burocratici o per non correre il rischio di vederselo togliere più avanti. Secondo i dati dell'Istat di allora, nel 1964 esistevano circa 150 mila bambini ricoverati in istituti di assistenza. Accadeva spesso che un bambino abbandonato venisse affidato a una coppia senza figli e che, dopo anni, si facesse vivo il genitore naturale a chiedere una cifra mensile "per non creare difficoltà". Poteva accadere perfino che una ragazza incinta invece di lasciare il bambino al brefotrofio in vista dell'adozione, decidesse di contattare, attraverso un intermediario, una coppia senza figli e glielo facesse avere come "legittimo", presentandosi semplicemente in clinica con un padre non tale. Per ovviare a situazioni incresciose come quelle, il parlamento seguì in quel caso un iter legislativo diverso da quello di quasi tutte le altre norme. Quel percorso rappresentava, infatti, un caso raro nella storia parlamentare italiana, perché si verificava una spontanea convergenza tra i partiti, pur partendo da posizioni fortemente distanti di cattolici e laici, nonché il favore della Chiesa, decisa a promuovere un'adeguata legislazione. Dopo vari studi sui casi esteri di Usa, Inghilterra e Olanda, quella legge prendeva il meglio, differenziando il caso dei minori dai maggiorenni, diminuendo il limite di età per poter adottare (da 50 a 35 anni), fissando in 20 anni la differenza di età con l'adottato, stabilendo l'organo competente nel Tribunale per i minori (e non più la Corte d'appello), prevedendo, infine, un periodo pre-adottivo di 2 anni. Dopo i 5 anni di prova, la legge aveva dimostrato di funzionare, ma privilegiava ancora troppo l'interesse degli adulti su quello dei minori. Inoltre, non aveva evitato del tutto la compravendita di bambini che aggirava l'intervento dei tribunali, non rompeva abbastanza il legame tra minore e famiglia di origine, prevedeva ancora formalità burocratiche e lungaggini. Mentre il numero famiglie adottive era indubbiamente cresciuto, facendo diminuire sensibilmente i minori abbandonati o istituzionalizzati, quello delle adozioni era rimasto esiguo rispetto ai minori adottabili di fatto.
Sedici anni dopo, nel 1983, una speciale sottocommissione senatoriale, dopo aver ascoltato il parere degli operatori del settore, di magistrati, associazioni ed enti che si occupavano da anni dei problemi dell'infanzia e della famiglia, proponeva alcune importanti modifiche alla legge, sulla base dei disegni di legge presentati dai democristiani e dai comunisti, in particolare aumentando la differenza di età tra adottante e adottato e diminuendo i cavilli che davano vita alle lungaggini burocratiche. Nonostante le imperfezioni e le difficoltà sorte nella sua applicazione, la riforma aveva introdotto finalmente il principio del prevalente interesse del minore e invertiva le finalità dell'adozione: dal dare un erede ad adulti che non potevano averne, al dare invece una famiglia ad un bambino che purtroppo ne era privo. Più di un decennio dopo, veniva regolata, anche in Italia, l'adozione internazionale, secondo la Convenzione dell'Aia, e poi con una legge del 1998 che prevedeva l'adottabilità anche per i conviventi, ma solo dopo un certo numero di anni. Nel 2001, però, venivano apportate alcune modifiche alla disciplina dell'adozione nazionale, in particolare l'innalzamento da 40 a 45 anni dell'età che doveva intercorrere tra genitore e minore da adottare e, oltre al matrimonio, una convivenza di almeno 3 anni come criterio di adottabilità, nonché la graduale chiusura degli istituti di ricovero per minori.
La legge italiana perseverava, dunque, nel vietare l'adozione ai semplici conviventi. A differenza di ciò che accade all'estero, in cui si prediligevano le coppie più giovani per l'adozione, e in certi casi anche quelle non sposate. Che la famiglia costituisse ancora negli anni novanta in Italia il luogo privilegiato nel quale emergevano clamorosamente tutte le contraddizioni, gli antagonismi e in conflitti di una società secolarizzata ma ancora alle prese con la forte influenza e il potere della chiesa cattolica, è un elemento di tutta evidenza. Proprio nel campo delle problematiche familiari la chiesa trovava infatti l'elemento cardine su cui costruire la difesa di certi valori tradizionali. Ma questo arretramento legislativo, a fronte delle iniziali aperture dei decenni precedenti, portava, in alcuni casi, anche a conseguenze drammatiche: per esempio, nel giugno del 2000, quando un'ordinanza di un giudice costringeva i carabinieri a effettuare un "blitz" presso un casolare grossetano, allo scopo di sottrarre una bimba alla coppia a cui era stata provvisoriamente affidata per destinarla a una famiglia "in regola". La legge sulle adozioni, infatti, privilegiava ancora come principio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto disagiata essa fosse. Bastavano, inoltre, le sporadiche visite di un parente perché un minore restasse fisso in una casa famiglia, senza che potesse essere dichiarato lo stato di abbandono che portava all’adottabilità.
La legislazione italiana sui criteri necessari all’adozione se da un lato è molto rigorosa e cauta rispetto a quella internazionale, e pone al centro dell'adozione il bene del bambino (e non l'interesse di chi desidera adottarlo), dall'altro, però, rischia di essere superata dai tempi e di non riuscire a far fronte alla richieste di una società sempre più in movimento. I dati parlano chiaro: se nel 1968 ci furono circa 4 mila 400 tra affidamenti e dichiarazioni di adottabilità, nel 1999 le domande di adozione rimanevano altissime, circa 23 mila, ma solo circa 7 mila venivano accolte. Nel 2005 le domande di adozione erano 15 mila e passavano a 20 mila nel 2007, delle quali ancora solamente poco più di 4 mila erano accettate. Nel 2008 ne venivano accolte appena 5 mila, nel 2009 nuovamente in ribasso, circa 4 mila, mentre si registrava, dal 2004 al 2008, un forte aumento dei minori stranieri adottati (67%) contro i minori italiani (32%), mediante l'adozione internazionale, molto più rapida e funzionale: ben 3420 minori stranieri nel 2007. Dal 1995 ad oggi questo tipo di adozione è molto cresciuta, non solo in Italia, ma in particolare in Spagna, Svezia, Norvegia. Anche se i nuovi criteri per l'accreditamento delle agenzie di intermediazione all'adozione introdotti da Russia, Ucraina e India hanno contribuito ad un rallentamento negli ultimi anni.
In ogni caso, il rapporto attuale tra richieste e accettazioni di adozione è di cinque a uno: per la maggioranza dei bambini, allora come oggi, ciò che resta è l'attesa. Un alto numero di famiglie o coppie rinunciano, ancora oggi, a seguito di lentezze burocratiche e attese infinite proprio come negli anni sessanta. Eppure in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infanzia abbandonata crescono, e anche in Italia esiste un numero enorme di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che avrebbero bisogno di una famiglia: 26 mila bambini, secondo le recenti statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per non parlare poi delle coppie che preferiscono andare all'estero direttamente, pagando la cifra che serve. Dagli anni sessanta ad oggi, a fronte di un aumento costante delle famiglie adottive, dell'aumento dell'intermediazione con gli enti (ovvero consultori familiari ed enti autorizzati Ai.bi), non aumenta la percentuale media delle accettazioni di adozione, non diminuisce l'età media degli adottanti (39 anni per le donne, 41 per gli uomini), a differenza degli altri paesi. Rimane costante la percentuale dei motivi di adottabilità del minore, cioè a dire l'abbandono per il 41% e la perdita della potestà genitoriale per il 43%, mentre si diversificano gli stati di provenienza dei bambini (oggi soprattutto Russia, Ucraina, Polonia, Brasile, Etiopia, Colombia. Vietnam e India).
Se da un lato dunque è giusto rifarsi a criteri di adottabilità equilibrati e cauti, è necessario, tuttavia, che le leggi riflettano i cambiamenti della società in cui viviamo. Una legge "elastica", che sa distinguere i singoli casi, che crea un’eccezione e riconosce, formalmente, una famiglia atipica, come nel caso della donna medico siciliano e del bimbo africano è di buon auspicio per il futuro. Sarebbe bene che questa eccezione costituisse un precedente importante. Come ha già fatto presente una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, è auspicabile, infatti, un rapido intervento da parte del parlamento italiano in modo da ampliare i casi di adozione non solo da parte delle famiglie formalmente riconosciute, ma anche delle coppie e dei single. Anche se per la verità, l'attuale classe politica italiana sembra presa da altri più stringenti problemi, ad esempio su come riuscire a mantenere intatti i propri privilegi di casta. Staremo a vedere.
Fonte: Linkiesta
Omofobia. Se questa è una persona
(Fonte: Internet)
Qualche giorno fa, per la seconda volta nel giro di due anni, il parlamento italiano, accogliendo le pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Udc, Pdl e Lega, ha fermato la legge che inasprisce le pene nei confronti dell'omofobia. Si tratta di un provvedimento in contrasto con lo stesso accoglimento da parte italiana dei punti contro la discriminazione sessuale presenti nel trattato di Lisbona.
La verità è che, al di là delle fumose affermazioni di principio, il mancato rispetto della diversità, fomentato da dichiarazioni di esponenti politici di questo governo, di questa maggioranza, e adesso anche attraverso leggi in parlamento, è l'ennesimo campanello di allarme, che si va a sommare all'arretratezza tutta italiana su temi come testamento biologico, diritti dell'infanzia, delle donne, dei migranti, sul più generale versante dei diritti civili in Italia.
Non molti ricorderanno la vicenda del docente Aldo Braibanti che, nel lontano 1968, fu processato per plagio di minori, ma in realtà condannato per la sua omosessualità pubblicamente dichiarata. La stessa condanna "morale" veniva riservata, in quegli anni, allo scrittore Pier Paolo Pasolini. E' evidente che alla fine degli anni sessanta esisteva ancora in Italia, da un punto di vista legislativo, un divario fortissimo nei confronti di altri paesi più avanzati sul diritto di famiglia e sul diritto della persona. Basti pensare che nel 1956 non fu approvata per un soffio addirittura una legge che configurava l'omosessualità come un reato punibile fino a due anni qualora la relazione fosse "notoria". Quella incredibile legge non entrò in vigore solamente perché la revisione del codice penale non ebbe luogo. Però già nel 1960 venne approvata una legge in materia di censura che definiva l'oscenità, in relazione alla "diversità", in senso ancora più restrittivo di quanto già non lo fosse. Era il segno dei tempi: le stesse coppie di conviventi e i figli illegittimi erano privi di stato giuridico, esclusi da tutta una serie di benefici che spettavano invece ai coniugi. Figuriamoci, dunque, cosa accadeva nel caso degli omosessuali.
Il punto è che all'arretratezza giuridica si sommava a quella della mentalità comune, che non aiutava certo il loro inserimento in società né aiutava quelle minoranze politiche interessate ad affrontare coraggiosamente la questione, a far sentire con forza la propria voce in parlamento e nel paese. La Chiesa esercitava la sua pressione "moralista" sulla società e sulle famiglie, a partire dall'educazione dei bambini, agli insegnamenti alle coppie in procinto di sposarsi, ma l'invito alla repressione sessuale trovava terreno fertile quando si trattava di tollerare e accettare comportamenti "diversi", specie se provenienti da sparute minoranze quale erano allora gli omosessuali. In quel contesto di dogmatismo "familista" si inseriva la sessuofobia, e in alcuni casi addirittura il giudizio di "abominio sociale" di molti vescovi e sacerdoti nei confronti della diversità, in particolare dell'omosessualità (che pure esisteva all'interno della stessa comunità religiosa e che, invece, in tal caso, veniva ampiamente coperta e tollerata), mentre parallelamente la questione iniziava ad essere approfondita in ambito medico (allora era diffusa addirittura l'idea che l'omosessualità fosse una malattia) oltre che sociologico.
A ispirare questi comportamenti censori e intolleranti era, nel caso della chiesa (ma con un'incidenza enorme a livello governativo, attraverso la Dc) , la poca conoscenza della sfera sessuale, ma anche la sensazione che tutta una serie di dispositivi sociali e di aperture, recepite dai paesi europei del nord, potessero, in un certo senso, incrinare e aprire qualche breccia nel vincolo del sacramento del matrimonio. Il collegamento, alquanto forzato, che veniva fatto a più livelli, era che il fenomeno "deviante" si manifestasse negli ambienti più evoluti economicamente a seguito dell'edonismo e del consumismo della società moderna. Non che l'omosessualità rimanesse sommersa per colpa del giudizio intollerante della società, ma che fosse addirittura contagiosa, fomentata dalla dissoluzione dei costumi e dal mercato, oltre che dall'individualismo più sfrenato. Per fortuna, non solo alcuni importanti sociologi, psicologi, medici, sessuologi come Manganotti e Santori dimostrarono che non c'era nulla di contagioso biologicamente, ma va detto che neppure tutta la comunità religiosa si trovava su posizioni così intolleranti: basti pensare che alcuni intellettuali cattolici e dei sacerdoti come don Liggeri e don Grasso, andando oltre le reazioni moralistiche, avevano iniziato a promuovere convegni di studio e ricerche in direzione di un approfondimento serio e scientifico della questione della diversità.
E' evidente che tutti questi condizionamenti, pressioni, interpretazioni forzate e strumentali, nel lungo periodo, dopo decenni, si sono sedimentate ed hanno contribuito a formare una opinione pubblica molto arretrata su tematiche come questa. Eppure, oggi, nel 2011, credo sia legittimo porsi questa domanda anche in Italia: è giusto escludere le persone omosessuali dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona?
Paesi come Stati Uniti, Spagna, Olanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Portogallo hanno già risposto un definitivo "no" su più aspetti della questione. Rimanendo al tema recente dell'omofobia, intesa come atto violento o anche come semplice incitamento all'odio psicologico, essa è punita anche in Danimarca, Francia, Islanda, ed esistono esplicite norme antidiscriminatorie in Brasile, Australia, Canada, Israele, Sudafrica, Austria, Cipro, Finlandia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Svizzera, Ungheria, Inghilterra, Repubblica Ceca, Serbia, Montenegro e perfino Colombia, Ecuador e Isole Fiji.
Non è solo una questione di eguaglianza e democrazia, ma anche di dignità, come chiede esplicitamente la costituzione europea e come stabilisce anche la nostra stessa costituzione italiana. Ora, alla luce di questa breve analisi storica e comparazione con gli altri paesi, non solo per una questione democratica di principio ma anche per un motivo ben più pragmatico , visto che gli omosessuali producono, consumano e pagano le tasse come tutti gli altri cittadini italiani (e gli stranieri), non è forse il caso di adeguare e aggiornare anche la nostra legislazione in modo da provare a combattere, attraverso una legge dello stato, l'odio ingiustificabile verso il diverso?
Fonte: Linkiesta
I figli non sono nostri
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Quando si pensa ai diritti dell'infanzia di solito, vengono in mente i casi estremi, quelli che si esprimono bene nelle immagini dei bambini che muoiono di fame nei paesi sub-sahariani, dei piccoli rifugiati a causa di atroci guerre, dei piccoli profughi palestinesi o dei giovanissimi migranti giunti sulle carrette del mare. Situazioni come queste siamo abituati a vederle spesso in tv o in rete, provenienti da posti più o meno lontani, dove i minori sono vittime, spesso totalmente inconsapevoli, della ignorante ferocia degli adulti.
Di recente, in Honduras, centinaia di bambini, seguiti a pochi passi da agenti armati fino ai denti, hanno marciato per le strade, al grido “Non vogliamo più vedere armi, vogliamo la pace”, chiedendo al regime che si ponesse fine alle ingiustizie sociali e alla militarizzazione delle loro vite. Scene come questa sono già molto più rare. Non gli adulti ma i bambini stessi prendono consapevolezza del ruolo che hanno rispetto allo scenario del mondo futuro e chiedono il rispetto dei propri diritti.
In realtà, oggi, a parte le lamentele per il governo che non governa e per l'acutissima crisi economica, a pochissimi verrebbe in mente di pensare che nel nostro civilissimo paese i diritti dell'infanzia vengono troppo spesso ignorati e, comunque, continuano ad essere fortemente limitati. Pensare che, in tema di diritti civili e umani, l'Italia non stia peggio degli altri paesi europei più importanti, è un banale luogo comune. Una ulteriore prova di ciò è l'arretratezza in cui versiamo nel campo dei diritti dei bambini.
In un libro scritto nel lontano 1974, dal titolo emblematico, “I figli non sono nostri”, il magistrato e presidente del Tribunale per i minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, forniva una documentata requisitoria contro lo stato di abbandono, rifiuto e mis-conoscenza in cui l'allora vigente legislazione e il costume sociale confinavano i bambini, spingendoli, in molti casi, al disadattamento e alla devianza, salvo poi intervenire con sanzioni repressive. Secondo il codice civile italiano, ancora negli anni Settanta, i figli avevano solo il dovere di onorare i genitori; per il resto, essi erano paragonabili più a ombre e fantasmi che a persone in carne ed ossa.
Da allora sono passati ormai quasi quarant'anni, ma se incrociamo i dati estrapolati da alcuni rapporti forniti da Unicef, Save the children, Amnesty International, Caritas-Migrantes, Istat, Cies (Commissione indagine esclusione sociale) e Crc (Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza), scopriamo in modo inequivocabile che l'Italia è un paese incredibilmente in ritardo anche su questo delicato tema.
Secondo quanto è stato sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia (1989) e dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (1996), provvedimenti che hanno portato felicemente a compimento il cammino iniziato con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), i primi fondamentali diritti umani riguardano proprio quelli dei bambini. Il parlamento italiano era andato nella giusta direzione quando, nel 1997, aveva approvato una legge dal titolo Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e l'adolescenza che si poneva il problema non solo in riferimento a situazioni di degrado sociale, ma anche a condizioni di normale esistenza. Si trattava di garantire ai bambini e agli adolescenti, la libertà di scelta e di espressione, il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla sicurezza sociale, al ricongiungimento familiare per minori stranieri, all'affidamento e all'adozione familiare, la lotta all'abuso e allo sfruttamento sessuale e lavorativo, l'accesso ai servizi in ospedale, in particolare per i disabili, la sicurezza contro gli abusi in carcere. Ma da allora in poi, complice il non rifinanziamento del progetto, l'incidenza di quella buona legge nella realtà si è praticamente dissolta.
Il rischio di discriminazione pesa soprattutto riguardo all'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari da parte di bambini in condizione di svantaggio sociale o disagio economico, appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose, stranieri, specialmente se non accompagnati, richiedenti asilo o rifugiati, diversamente abili, nati al di fuori del matrimonio, senza famiglia, reclusi in istituti penali.
Se consideriamo il grado di benessere materiale dei bambini, a fronte della fascia più alta di paesi come Svizzera, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia (con una disuguaglianza inferiore alla media Ocse), l'Italia si colloca nella fascia più bassa, insieme a Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria, Stati Uniti e Slovacchia. Se prendiamo in considerazione la variabile dell'istruzione dei bambini, ben lontano da paesi come Finlandia, Canada, Danimarca e Svezia, il nostro paese si colloca ancora nella fascia più bassa, insieme a Lussemburgo, Repubblica Ceca, Grecia e Stati Uniti. In relazione, infine, al benessere nella salute dei bambini, a differenza di paesi avanzati della prima fascia come Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svizzera, l'Italia si trova sempre nella fascia più bassa insieme a Grecia, Spagna, Stati Uniti e Ungheria.
Sembra incredibile ma ci posizioniamo al ventesimo posto sui 24 paesi Ocse quanto a livello di benessere materiale dei bambini, al ventunesimo sul benessere educativo, e al penultimo posto nel campo della salute. Aggregando gli indici delle tre fasce si ottiene una classifica che vede Danimarca e Finlandia in testa, Italia e Grecia in coda.
I minori in condizione di povertà relativa in Italia sono circa 1 milione e 728 mila, ossia il 23% della popolazione povera; ben il 61% di loro ha meno di 11 anni; il 72% risiede al Sud, dove si concentra il 65% delle famiglie povere; nonostante nel Sud risieda soltanto il 32% del totale.
Come testimoniato da un dossier della Caritas, i minorenni stranieri che vivono in Italia (1 su 5 del totale) raggiungono livelli di istruzione molto bassi: meno del 25% continua gli studi dopo il diploma, contro il 40% degli italiani; hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari di base (1 migrante su 3 non ha il tesserino sanitario); il 90% non è in grado di convertire il permesso di soggiorno, al raggiungimento della maggiore età. La conseguenza è l'allontanamento, oppure il passaggio alla invisibilità sociale. Le recenti politiche sull'immigrazione hanno alimentato sempre più condizioni di precarietà esistenziale e culturale nelle famiglie straniere e si sono rivelate dannose per la maturazione psicologica e lo sviluppo sociale dei figli dei migranti, cioè dei giovani italiani di domani. Emerge, più in generale, una grave carenza sul principio di partecipazione dei bambini, richiamato nell'art.12 della Convenzione del 1989: la scuola non riesce a svolgere alcun ruolo significativo nello sviluppo dei processi partecipativi dei minori, e non tiene affatto in considerazione le opinioni, le indicazioni, le aspettative degli alunni.
In questo contesto così sconfortante, le uniche forme di “interesse” da parte della società (non solo italiana) nei confronti del comportamento dei bambini, sembrano indirizzasi su strade completamente sbagliate. Nel 2010 un gruppo di ricercatori dell'università della California ha pubblicato sul “Journal of Nutrition Education and Behavior” una indagine dal titolo Characteristics of Food Industry Web Sites and “Advergames” Targeting Children. La ricerca è stata condotta su circa trecento pagine web di aziende e catene di ristorazione, allo scopo di esaminare le strategie da esse adottate per prolungare il tempo di permanenza dei bambini sui loro siti. La tendenza riscontrata è stata l'uso di videogiochi on-line assolutamente diseducativi, che catturano l'interesse dei bambini, irretendoli dentro forme di pubblicità invasiva. La tecnica pubblicitaria si chiama advergames e fa uso di software on line, spesso costruiti con tecnologia flash, con grafiche coloratissime e famosi personaggi di fumetti e film di animazione. In mezzo al gioco, all'improvviso e in maniera prolungata, compaiono spot pubblicitari che riguardano cibi altamente calorici, come caramelle e cioccolato. Questi meccanismi sono usati, con tutta evidenza, per tenere i bambini incollati allo schermo del pc, affinché interiorizzino messaggi pubblicitari ingannevoli.
E' evidente, dunque, che non siamo poi così lontani dal quadro di arretratezza e di ingiustizia che lamentava Meucci quarant'anni fa: ancora oggi i bambini (poveri e stranieri) in Italia sono considerati alla stregua di meri strumenti senza diritti, tutt'al più, oggetti di consumo.
Fonte: Linkiesta
Testamento biologico: è l'ora di aggiornarci agli altri paesi
(Fonte Internet)
Dopo una pausa di circa due anni, ritorna al voto in parlamento, proprio in questi giorni, nel silenzio più assoluto di tv e stampa, il dibattito sul cosiddetto testamento biologico.
L'argomento è delicato e il dibattito, nonostante non si sia mai trovata alcuna sintesi legislativa, affonda le sue radici, almeno in Italia, addirittura nei lontani anni settanta. Le cosiddette “tecnologie della sopravvivenza” hanno posto, in modo sempre più urgente, gravi interrogativi sui limiti dell'accanimento terapeutico, cioè di quell'insieme di iniziative clinico-assistenziali, di carattere piuttosto eccezionale, che vengono attuate intorno a un malato terminale, cioè in condizioni gravissime o già piuttosto prossimo alla morte, e perfino sull'eutanasia.
La prima forma di eutanasia era stata chiesta nel 1969 dall'inglese Lord Raglan alla Camera dei Lords con il Voluntary Euthanasia Bill il cui scopo era quello di autorizzare i medici a dare l'eutanasia ai pazienti che l'avessero richiesta, ma era poi stata respinta. Dalla cosiddetta eutanasia “attiva”, cioè attuata, generalmente mediante aiuto del sanitario, con il ricorso a sostanze narcotiche o tossiche, somministrate in dosi mortali, a quella “passiva”, trattandosi di omissione di soccorso, con la sospensione delle terapie ordinarie e ancora perfettamente utili a un miglioramento di condizioni, o almeno a bloccare il processo patologico del male.
Aiutare a morire “bene” e senza sofferenza è un compito del medico? Turbare l'ordine biologico significa manipolare la vita e la morte umane? Quali sono le definizioni di vita e di morte nella biologia e nella medicina contemporanee e quali i problemi scientifici, etici e normativi dell'accertamento di morte? Certo, senza codificare nulla, casi più o meno diffusi di eutanasia si sono sempre praticati negli ospedali, affidando tutto solo al senso di pietà del personale coinvolto. Ma, mentre la scienza medica è andata molto avanti nella terapia anti-dolore, la scienza sociale non ha ancora saputo affrontare seriamente il problema di come attrezzarsi rispetto allo stato irreparabile del singolo. Per non parlare poi della politica.
Da quando il solito deputato socialista Fortuna, nel dicembre 1984, aveva proposto le Nome sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell'eutanasia passiva, fondate sul principio del rifiuto del malato, richiesto esplicitamente, ad essere sottoposto ad accanimento terapeutico, il dibattito, che ha avuto toni finanche più accesi dei tempi dell'aborto, non si è mai fermato. Per il fronte laico non è lo stato ma il singolo individuo (o eventualmente i suoi familiari) che può decidere sulla sua eventuale morte.
Il dibattito che si è sempre contraddistinto per alto tasso di dottrina giurisprudenziale ha apparentemente spaccato in due l'opinione pubblica ed ha avuto una accelerazione dopo le vicende di Welby, Coscioni ed Englaro. Con delle sfumature: possibilisti Pd, una parte del Terzo Polo, contrari Pdl, destre, Lega, Udc, favorevoli radicali, socialisti, liberali, Idv, Sel e Fds.
Per la Chiesa (salvo qualche teologo più progressista) tutte le iniziative proposte, che vanno dalla soppressione silenziosa prima che il malato si accorga di morire, alle più ingegnose metodiche di trattamento clinico per prolungare, anche solo di poco, la vita che sta spegnendosi in modo naturale, sono da considerarsi alla stregua dell'omicidio doloso, senza consenso della vittima.
Nel nostro paese, stando all'ordinamento, l'eutanasia attiva viene assimilata all'omicidio volontario. In caso di consenso del malato è prevista la reclusione con pena dai 6 a 15 anni. Anche il suicidio assistito è considerato reato. Negli altri paesi, l'eutanasia passiva e il testamento biologico sono permessi, con modalità diverse, in Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera, Lussemburgo, Australia, Canada, Cina, Stati Uniti, mentre il Inghilterra e Germania il suicidio assistito non è considerato reato.
Se però andiamo oltre le posizioni (strumentali e ideologiche) presentate dai fronti contrapposti, ci accorgiamo che accade la stessa dinamica verificatasi nel caso di vicende fondamentali nel processo di secolarizzazione della società italiana, come divorzio e aborto. Secondo i più recenti sondaggi gli italiani non sarebbero poi così divisi: sono favorevoli per il 75% all'eutanasia passiva e al testamento biologico e più del 90% sostiene che sia necessario superare l'attuale normativa vigente, assolutamente anacronistica.
Alla Camera, in questi giorni, la maggioranza, con l'appoggio esterno dell'Udc, incurante dei pareri di autorevoli giuristi, sta andando in direzione opposta. Nega infatti il diritto di rifiutare trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico, e dà il potere decisionale più al medico che non al paziente.
Ora, su un argomento così delicato è evidente che sarebbe bene evitare i frontismi e le contrapposizioni troppo aspre. Ma, pur lasciando comunque libertà di scelta alle singole coscienze, ogni forza politica degna di questo nome dovrebbe esprimere una sua posizione ufficiale, chiara, senza ambiguità, e contribuire al dibattito per il superamento e non certo per l'arretramento della legislazione vigente, adeguandola e aggiornandola agli altri paesi europei più avanzati.
Fonte: “Linkiesta”
Italia a basso sviluppo "umano"
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
In questi ultimi tempi, soprattutto dopo la vicenda del fallimento della Grecia e le difficoltà di Portogallo e Irlanda, non si fa altro che parlare del possibile declassamento dell’Italia, da un punto economico, a paese di secondo rango. Il problema è indubbiamente reale e non va sottovalutato. Anche analizzando la questione esclusivamente in termini di Pil, un parametro di comparazione ormai limitato e tutt’altro che efficace, la parabola discendente del nostro paese appare inconfutabile: da quinta potenza mondiale, nel 1986, quando scavalcammo addirittura l’Inghilterra, a ventinovesima oggi, in termini pro capite. Per dare un’idea del degrado socio-economico del paese basta ricordare due dati: il potere di acquisto dei salari italiani è progressivamente diminuito da 13,6 punti del 1971 a circa 1 punto nel 2010; il compenso per ora lavorativa è ben al di sotto di paesi europei come Svezia, Danimarca (dieci volte maggiore), Norvegia, Germania, Francia, e tra i più bassi di tutti.
Se poi osserviamo il livello di competitività dei paesi mondiali non attraverso il dato del semplice benessere economico o del salario medio ma secondo un’altra più interessante e utile lente, cioè a dire lo sviluppo culturale e i diritti umani, ci rendiamo conto di essere diventati, e da un bel pezzo, uno dei fanalini di coda.
Si lamenta il profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica insensibile agli effettivi problemi e bisogni della gente e il mondo vitale della società che si impegna nella quotidianità ed è veramente costruttore di storia. Questo aspetto è emerso, con grande portata ma non ancora con l’impatto rivoluzionario di cambiamento che certe premesse meriterebbero, in occasione del recente voto referendario.
Si depreca, spesso, che il parlamento sia indotto a legiferare solo sulla base degli interessi opportunistici di singole personalità o di spinte corporative di ben individuati gruppi di pressione (dalla P2 alla P4), o, eventualmente, a seguito dell’esplodere di problemi enormi (tipo il caso dei rifiuti di Napoli), rincorsi, più che previsti. Sono ormai dati di fatto, che condannano, nel giudizio ormai quasi unanime della storia, le classi dirigenti degli ultimi decenni.
Non si deve affatto pensare, però, che prima l’Italia fosse un paese all’avanguardia nel campo della legislazione sui diritti e nello sviluppo umano. Siamo sempre arrivati in enorme ritardo rispetto ad altri paesi europei all’appuntamento con leggi e provvedimenti volti a migliorare il grado di civiltà del paese.
Per dare l’idea basti prendere in esame, sinteticamente, alcune vicende. La legge sull’adozione dei minori prevista in Svezia o in Olanda molti decenni prima, in Italia veniva abbozzata solo a partire dal 1965, e con moltissimi limiti, ovvero con l’adozione speciale (poi rivista nel 1983), e tuttora non proprio all’avanguardia.
La legge che ha reso legale il divorzio fu votata in Italia nel 1970 (solo Spagna, Irlanda, Liechtenstein e Andorra, tra i paesi europei, a quella data, non l’avevano ancora fatto), mentre in Inghilterra una simile legge era presente fin dal 1857 con il Divorce Act e in Francia addirittura dal lontano Code civil del 1792.
La legge sull’assistenza psichiatrica in Francia è stata promulgata già alla fine dell’Ottocento, e mentre in Inghilterra e in Svizzera la psichiatria era comunque considerata una materia di primo ordine e di alto valore sociale, in Italia, come al solito in netto ritardo, doveva arrivare Basaglia, nel 1978, ad aprire alcune prime utili prospettive legislative in un settore totalmente snobbato ed emarginato.
La legge sulla regolamentazione della gravidanza, approvata da noi solo nel 1978, quando nella quasi totalità degli altri paesi del mondo già esisteva (eccetto che nei casi di Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, e di pochi altri paesi africani, asiatici e sudamericani).
Infine la legge contro la violenza sessuale sulle donne, approvata in Italia, pur con molti limiti, nel 1996, con un ritardo a dir poco abissale rispetto ad altre legislazioni di paesi europei e occidentali.
In un contesto di cronica arretratezza, però, il parlamento italiano, pur dominato da posizioni contrapposte tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, e pur segnato da quello che alcuni politologi hanno definito un limite di “decisionismo”, dovuto alla poca forza del potere esecutivo rispetto al legislativo, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta, era riuscito, in qualche maniera, ad allinearsi, in un certo senso, con gli altri paesi “civili”.
Quello che è accaduto successivamente, dagli anni Novanta, dopo la spinta al bipolarismo e la nascita dei “moderni” partiti mediatici, è, in buona sostanza, sotto gli occhi di tutti. Ma forse è bene rinfrescare la memoria a chi tende a dire “tanto è così un po’ dappertutto”, oppure, “è colpa della crisi globale”. Anche in questo caso, riportare qualche esempio, rifacendoci proprio a quei parametri di “sviluppo umano” accennati all’inizio, può essere utile.
A tal proposito ci viene in aiuto una fonte estremamente interessante, ovvero lo Human Development Report 2010 delle Nazioni Unite. Un rapporto fondato sull’analisi di una serie di indicatori raggruppati in alcune aree considerate essenziali allo sviluppo. E’ evidente che solo comprendendo quali siano i veri fattori chiave che alimentano lo sviluppo e la produttività e quali gli ostacoli da rimuovere, si possono mettere in atto riforme capaci non solo di migliorare il reddito pro capite ma soprattutto di dare maggiori opportunità ai propri cittadini.
E’ utile analizzare, a questo proposito, alcune variabili come la possibilità di accesso alle istituzioni e al mondo del lavoro da parte di uomini e donne, la funzionalità delle infrastrutture, l’impatto delle politiche su salute e istruzione (primaria, superiore e universitaria), la disponibilità tecnologica, l’innovazione della ricerca.
Secondo questi parametri l’Italia, con 23 punti, si colloca addirittura intorno alla cinquantesima posizione in termini di livello di competitività (si tenga presente che la Norvegia, ovvero il paese più progredito, ha totalizzato 1 punto, mentre l’ultimo, il Congo, 169 punti) e su almeno 9 dei 12 parametri, è messa molto peggio degli altri paesi sviluppati, e, sembra incredibile, anche di alcuni paesi in via di sviluppo. Solamente tra il 2009 e il 2010 siamo scesi di cinque posizioni in classifica, producendo un impoverimento della popolazione italiana ed allontanandoci sempre più dal benessere, non solo economico ma anche culturale e sociale, degli altri cittadini del mondo. Non solo di quello occidentale ma anche medio-orientale, africano e asiatico.
Scendendo nel merito, si scoprono informazioni interessanti circa i livelli più bassi toccati dal nostro paese. Non molti sanno, infatti, che la quota di popolazione italiana con almeno il livello di istruzione secondaria raggiunge appena il 46,7% contro una media dei paesi sviluppati Oecd del 73,8% (con livelli ben più alti per Norvegia 99, Australia 96, Stati Uniti 94, Germania 91).
Un altro elemento su cui riflettere, a dispetto delle continue richieste di abbassamento dei livelli di spesa pubblica formulate dall’attuale classe politica, sono le spese per la sanità, con un punteggio di 2686, contro una media dei paesi sviluppati Oecd di quasi il doppio (4222), in particolare le spese in letti di ospedale (39 contro la media europea di 63).
Oltre alle note differenze di salario tra uomo e donna, in linea peraltro con i 33 paesi principalmente sviluppati (il 74% circa rispetto a quello degli uomini nel periodo 2003-2006), colpisce il bassissimo dato dei seggi in parlamento occupati dalle donne, per l’Italia appena il 20,2% contro 47% di Svezia, 39 di Olanda, 31 di Germania, 41 di Finlandia, 33 di Spagna, ma soprattutto sorprendono le medie, ben superiori alla nostra, di stati come Singapore, Portogallo, Emirati Arabi, Argentina, Costarica, Sud Africa, Cina, Cuba e perfino Iraq.
Altri dati significativamente bassi sono quelli relativi: al grado di impegno politico della cittadinanza, con i 14 punti dell’Italia (meno di noi solo paesi come Polonia, Romania, Kazakistan, Armenia, Sri Lanka, Bangladesh, Yemen, Myanmar, Nepal e Zimbawe); e al livello di soddisfazione per la libertà di scelta e la rappresentanza politica, in cui il nostro paese si colloca a quota 60 punti (tra tutti gli stati del mondo raggiungono un punteggio inferiore solo Corea, Grecia, Slovacchia, Estonia Ungheria, Bulgaria, Albania, Ucraina, Romania, Algeria, Mongolia, Pakistan, Congo, Madagascar, Togo, Senegal, Etiopia, Zimbawe, Burundi, Cuba e Iraq).
A proposito di libertà intesa in senso più ampio, può essere utile riportare ciò che riferisce Amnesty International sul nostro paese nel Human Rights Report 2011, per confrontarlo col recente passato. Potrebbe apparire paradossale il confronto ma, a ben guardare, non lo è affatto.
Nel Rapporto sulla Tortura negli anni Ottanta (pubblicato da Amnesty), cioè in pieno terrorismo, si può leggere che la tortura ed il maltrattamento di persone nelle carceri non erano una prassi di normale amministrazione in Italia.
Nel recente rapporto relativo agli ultimi anni, invece, si parla di violazione costante dei diritti di Rom e Sinti, sprezzanti commenti discriminatori su lesbiche e gay, formulati da parte di alcuni politici, e violenti attacchi della popolazione contro migranti, che suscitano un clima di intolleranza, impossibilità da parte dei richiedenti asilo politico di accedere alle procedure di protezione internazionale (le domande d’asilo in Italia hanno continuato a diminuire drasticamente), maltrattamenti da parte di agenti delle forze dell’ordine su giovani e su detenuti.
In questo fosco quadro, va ricordato che il governo italiano ha, ancora di recente, respinto 12 delle 92 raccomandazioni complessive ricevute da Comunità europea e Nazioni Unite, e rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale e nel codice penale, nonché di abolire il reato di immigrazione irregolare, soprattutto tenuto conto del cronico sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane.
Alla luce di tutto ciò non pensate si possa tranquillamente concludere, senza timore di smentite, che l’Italia è stato ed è ancora un paese dallo sviluppo troppo poco “umano”.
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Referendum e svolte mancate
Un'analisi comparata sui dati dei 3 referendum
che hanno fatto la storia del nostro paese
Se compariamo questo referendum alle due precedenti storiche tornate referendarie del 1974 e del 1981, scopriamo che esistono molti elementi in comune a spiegare che la società civile è più avanti della politica e della classe dirigente che la governa. Sono i cittadini, i movimenti, le associazioni che, storicamente, danno la svolta. E' accaduto in passato, accade oggi. Il punto è che queste formidabili ondate progressiste la sinistra non è mai riuscita a incanalarle, fornendo risposte concrete su un versante politico.
Il primo referendum abrogativo della storia d'Italia, nel 1974, non fu promosso, come qualcuno potrebbe pensare, dai radicali o da giovani rivoluzionari di sinistra, ma dalla chiesa e dai democristiani, che, dopo l'approvazione della legge Fortuna-Baslini del 1970, diedero seguito all'idea di alto prelato, un monsignore, che aveva avanzato, alcuni anni prima (L'Italia, 17 aprile 1966), la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica cosìdelicata.
Non si creda però che l'esito di quel primo referendum fosse, alla vigilia, così scontato.
(Fonte Internet)
Il governo Rumor era appena caduto, a seguito della crisi economica e delle dimissioni del ministro del tesoro La Malfa. Basta prendere in considerazione i manifesti elettorali dell'epoca (“Pensa a tuo figlio”, “Non mescolare il tuo voto con i fascisti”) o la copertina di un libro uscito proprio in quei giorni (in cui campeggiavano le facce di Gabrio Lombardi e Loris Fortuna), per capire quanto forte fosse la contrapposizione tra i due fronti. favore della riconferma della legge si schierarono, trasversalmente, la lega italiana per il divorzio, il movimento liberazione delle donne, quelli del manifesto, i pidiuppini, la lega degli obiettori di coscienza, i radicali, le comunità di base, i cristiani per il socialismo, i cattolici democratici, gli indipendenti di sinistra, e poi i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri, Pli. Tra i quotidiani e le riviste appoggiarono il divorzio il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Paese Sera, l'Unità, Il Secolo XIX, La Nazione, Il Giorno, Panorama, L'Espresso, L'Europeo, Grand Hotel, Amica e Noi donne. Per l'abrogazione si espressero, dall'altro lato, i missini, la Dc, la Cei, il Papa, con Famiglia cristiana, Avvenire, La Discussione, L'Osservatore Romano, La Civiltà cattolica, Il Popolo, Il Gazzettino, Il Tempo, mentre tutta la Rai, allora l'unico mezzo di informazione veramente capillare, evitava accuratamente di far sentire la voce dei divorzisti.
Alla fine, con una sonora risposta all'alto prelato che l'aveva chiamato in causa, il popolo, dunque, si espresse, dando inizio a quel processo di secolarizzazione che ha avvicinato l'Italia agli altri paesi europei più evoluti sul versante dei diritti civili. L'affluenza fu incredibilmente alta, circa 33 milioni e 29 mila elettori, l'88,1% degli aventi diritto. I “sì” all'abrogazione della legge sul divorzio il 40,9% mentre i “no” superarono il 59%.
La clamorosa novità fu la fortissima tenuta anti-divorzista nelle campagne e nelle province, tra le donne, tra gli operai e tra i cattolici. Una enorme affluenza al voto e le più alte percentuali del “no” furono in Val D'Aosta (75%), Liguria (72%), Emilia Romagna (70%), poi in Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio, mentre tra le città, a Livorno (77%), Torino (76%), Ferrara (74%), Siena (74%), Trieste (73%), ma anche Bologna, Genova, Firenze, Reggio Emilia. Alte percentuali anti-divorziste si raggiunsero, sorprendentemente, anche nelle regioni del Sud, in testa Sardegna e Sicilia (e in particolare le città di Siracusa e Ragusa). Un'affluenza più bassa e le percentuali più alte del “sì” a Benevento, Lecce, Vicenza, Caserta, Avellino, Reggio Calabria, Potenza e Messina.
Il quadro sociologico e regionale emerso fu evidente. Il trend positivo, una sorta di traino, si ripercuoteva direttamente alle successive elezioni amministrative e regionali: rispetto alla disponibilità di voti degli schieramenti, Dc e Msi, uniti al referendum, avevano perso il 6,6%, circa 2 milioni e 700 mila voti, e infatti, nel 1975, la Dc calava e si attestava al 35% (e il Msi al 6%), mentre la sinistra era in crescita, con il Pci che aumentava del 5% e passava al 33,4%, il Psi + 2% e arriva al 12%, e il centro-sinistra insieme raggiungeva quota 45%, circa il 4% sopra il centro-destra. L'incredibile voto referendario e la evidente crescita di consensi elettorali della sinistra non erano però tramutati in un concreto risultato politico.
(Fonte Internet)
Anche nel 1981 la promozione del referendum che intendeva abrogare la legge sull'aborto del 1978 fu monopolizzata dai movimenti cattolici e in particolare da un ex giudice, divenuto presidente del Movimento per la vita. Anche in quell'occasione la contrapposizione nel paese fu fortissima, da un lato i radicali che rivendicavano l'aborto libero, dall'altro gli appelli delle parrocchie, dei parroci durante le omelie, e delle organizzazioni cattoliche, perfino le veglie di preghiera e le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum, mentre in casi estremi anche le statue del santo patrono sfilavano accompagnate dal cartello vota “sì”.
La campagna referendaria fu segnata da una certa sproporzione mediatica delle forze in campo. A favore del referendum anti-aborto o, comunque, per un'astensione diretta contro la riconferma della legge 194, si schierarono in una specie di santa alleanza, la Dc, il Msi, il Papa, la Cei, il Mpv, Comunione e liberazione, La Civiltà cattolica, L'Osservatore Romano, l'Opus Dei, Azione cattolica, le Acli, la Cisl, Il Sabato, il Corriere della Sera, Il Popolo, La Discussione, Il Tempo, mentre la Rai si trovò in evidente imbarazzo a parlare di “194” e di interruzione di gravidanza. Uniti in difesa della legge Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, Sinistra indipendente, Pdup, e poi i movimenti dell'Udi, l'Mld, i gruppi del dissenso cattolico (Cdb e Cps), l'Arci, e i giornali Paese Sera, La Stampa, la Repubblica, l'Unità, il manifesto, Il Messaggero, L'Espresso.
Il risultato fu una sberla contro Chiesa e Dc e la conferma di un paese indirizzato verso una maggiore laicità, quantomeno di principio. Le donne, anche quelle cattoliche, i movimenti e i partiti uniti a difesa della legge, nonché il discutibile referendum radicale pro aborto, furono gli elementi che contribuirono a quell'indimenticabile risultato. L'affluenza fu, anche in quel caso, molto alta, con il 79,6%. Si espresse per il “sì” all'abrogazione della legge sull'aborto il 32,1% mentre per il no ben il 67,9% degli italiani.
Ancora una volta le percentuali più alte a favore della legge furono in regioni come Val D'Aosta (77,3%), Umbria (76,9%), Emilia Romagna (76,8%), Liguria (76,1%), Toscana (75,4%), Piemonte (73,9%), mentre quelle più alte del “sì” si ebbero in Trentino e Alto Adige 50,3%, Veneto 43,4% e Molise 39,7%. Rilevante apparve il fatto che in paesi di montagna e piccole province, dove la Dc aveva ottenuto alle precedenti elezioni anche il 70%, i voti contro la legge furono appena il 50%, mentre al Sud, in particolare in Calabria e in Basilicata, ci fu un'incredibile alta percentuale di astensioni, sommata alle tante schede bianche. Non è un caso dunque che alle successive elezioni politiche, quelle del 1983, la Dc ottenne il 32% dei consensi, cioè a dire il suo minimo storico, con addirittura – 8% rispetto alla precedente tornata elettorale. Anche questa volta però, il senso anti-governativo del voto, verso un partito e un sistema che iniziava a risentire degli scandali della corruzione, non venne affatto concretizzato dalla sinistra, che ottenne sì un discreto risultato elettorale, ma che non fu in grado di fornire una proposta alternativa di governo. Non a caso il Psi abbracciò la Dc per dar vita a quel pentapartito che fece epoca negli anni ottanta.
Infine arriviamo all'oggi.
Stavolta i comitati che hanno promosso i referendum su acqua pubblica, nucleare e giustizia erano espressioni variegate, poco etichettabili, gruppi e movimenti della società orientati tendenzialmente a sinistra (ma non solo), decisi a far conoscere i quesiti referendari alla cittadinanza con ogni mezzo a loro disposizione. E' stata chiara, infatti, fin dall'inizio, la sproporzione mediatica delle forze contrapposte. Per l'astensionismo o per il “no” all'abrogazione delle leggi governative si è dichiarata la presunta maggioranza degli elettori, cioè a dire ilPdl, la Lega, Fli, l'Udc, ma anche la Cisl, la Confindustria, e poi quasi tutta la stampa televisiva, cioè la Rai (Tg1 e Tg2) e Mediaset, quella dei giornali, Il Corriere della Sera, Sole24ore, Giorno/Resto del Carlino/Nazione, Il Giornale di Sicilia, Il Gazzettino, Il Giornale, Il Mattino, Il Tempo, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Padania, Liberoe Panorama. Per i referendum, in modo trasversale, si sono schierati i comitati promotori sull'acqua pubblica e contro il nucleare, movimenti e gruppi come Legambiente, WWF, Italia Nostra, Arci, Protezione Civile, la Rete degli Studenti, Emergency, Donneinmovimento, Libertà e Giustizia, Cultura Sviluppo e Legalità, Medici per l’ambiente, gruppi sindacali come Cgil, Fiom, Cobas, l'Azione cattolica, le Acli, gli scout di Agesci, Pax Christi, poi i partiti Pd, Idv, Sel, FdS, socialisti, tra le tv solo la7, tra i giornali, Avvenire, Il Fatto quotidiano, il manifesto, l'Unità, la Repubblica, La Stampa, Famiglia cristiana, Il Messaggero, L'Espresso.
Un ruolo decisivo è stato giocato dalla rete, attraverso il passaparola, che ha saputo raggiungere luoghi e persone diverse, creando una mobilitazione “alternativa”. Interessante il dato proveniente dall'analisi del “Battiquorum” su facebook che alla mezzanotte del 12 giugno, su un totale di 3 milioni e 635 mila utenti circa, dava il 65% come indifferente, cioè la famosa massa grigia che non vota, il 21,8% formata da attivisti pro referendum, mentre appena il 12,4% addirittura contrario. Morale della favola, il paese reale è risultato ben più avanti rispetto allo stesso popolo di facebook, che pure rappresenta oggi un termometro socio-culturale del quale qualunque nuova forma di politica non potrà non tener conto.
L'affluenza del 57%, circa 29 milioni di elettori, e le percentuali tra il 94% e il 96% dei sì ai quesiti sono già storia. Anche in questo caso la maggiore affluenza è al Nord, con le regioni Trentino (64,6%), Emilia Romagna (64%), Toscana (63,5%), Marche (61%), con le città Firenze (67%), Bologna (66%), Trento e Bolzano (65%), Torino (61%), Venezia, Genova e Ragusa (60%), Roma (59%). Le più basse percentuali invece confermano un Sud più pigro, con la regione Calabria 50% e le città di Crotone (45%), Catania, Reggio Calabria, Foggia (49%), Caserta e Palermo (50%).
Donne, giovani, precari, studenti, credenti e non, Nord più consapevole e Sud critico, tutti protagonisti di un referendum che è in perfetta continuità con i referendum storici e che ha tutto il diritto di entrare nella storia della democrazia partecipativa del nostro paese. Emerge, infatti, ancora una volta, un chiaro dato che è ormai una costante: la richiesta da parte della società di partecipazione e di apertura sul versante dei diritti e della difesa dell'ambiente. Saprà stavolta la sinistra all'opposizione incanalare e dar voce a queste diffuse trasversali spinte progressiste?
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Sui nuovi referendum. Rimaniamo dentro la storia
(Archivio Alinari)
Vorrei condividere con voi un semplice ragionamento sul significato dei referendum abrogativi e sul quorum, partendo dalla storia.
Non tutti sanno che l'istituto del referendum in Italia è stato approvato nel 1970, subito dopo l'entrata in vigore della legge sul divorzio, su spinta della chiesa e della democrazia cristiana proprio in funzione anti-divorzista.
Non si immagini, dunque, che a impugnare l'utilizzo di questa nuova arma popolare fosse un giovane rivoluzionario e o un provetto masaniello. Era stato, molto più sommessamente, un alto prelato, un monsignore, per la prima volta ("L'Italia", 17 aprile 1966), ad avanzare la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica così delicata.
Cosa accadde al primo referendum abrogativo della storia d'Italia , nel 1974, (altro conto è quello arci-noto tra monarchia e repubblica) è risaputo: vittoria schiacciante del fronte divorzista, amara sconfitta per democristiani e chiesa, inizio del processo di secolarizzazione anche in Italia. E' interessante sottolineare però, ai fini del nostro discorso, la percentuale dei votanti a quel primo referendum: qualcosa di assolutamente impensabile oggi, cioè a dire votarono in 33 milioni e 29 mila cittadini (su 39 milioni iscritti nelle liste), cifra pari addirittura all'88,1%.
Il secondo importante appuntamento referendario (c'era stato nel frattempo quello del 1978 sul finanziamento pubblico ai partiti, che aveva visto un quorum del 81,2% e la vittoria del "no") fu organizzato e monopolizzato anche stavolta dai movimenti cattolici per tentare di abrogare la legge sull'aborto: ad aizzare le masse, in quel caso, non furono esponenti dei radicali o giovani estremisti, come si potrebbe credere parlando vagamente del tema "referendum popolari", ma fu piuttosto un ex giudice, presidente del Movimento per la vita. Quella volta votarono il 79,6% degli aventi diritto, con un'alta partecipazione di credenti che disattesero le indicazioni delle alte gerarchie ecclesiastiche, un dato in calo rispetto alla tornata precedente, che confermarono la validità della legge, dando un colpo mortale al tentativo di Comunione e Liberazione e Mpv di riaggregare il mondo cattolico intransigente. Già in quell'occasione, dove si erano accorpati al referendum sull'aborto anche altri quesiti (come ordine pubblico ed ergastolo), i più avvertiti tra gli esponenti dei radicali fecero autocritica per un utilizzo dello strumento referendario totalmente travisato rispetto alle origini: la strategia dei pacchetti referendari espressi in modo poco chiaro e difficilmente assimilabile dall'opinione pubblica, gestiti peraltro fuori dalle elezioni politiche, con enorme spreco di denaro pubblico, appariva totalmente errata.
Il calo della percentuale dei votanti al referendum proseguì imperterrita nel 1985 con il referendum sulla scala mobile (77,9%), nel 1987 su responsabilità civile dei giudici e nucleare (65,1%), ma il quorum era stato comunque sempre raggiunto fino a quel momento. Il motivi erano, evidentemente, l'uso di argomenti chiari e la mobilitazione dei partiti e dei movimenti presenti nel paese.
A partire dal 1990 in poi la cosiddetta strategia dei pacchetti referendari, proseguita dai radicali, portò ad un utilizzo smodato e indiscriminato dell'istituto, su problematiche come la caccia, la riduzione dei deputati, le droghe, l'abrogazione di ministeri, le concessioni televisive, gli orari degli esercizi commerciali, l'obiezione di coscienza, le carriere dei magistrati, l'ordine dei giornalisti, etc, tutti argomenti che avrebbero dovuto essere risolti, se il parlamento avesse funzionato regolarmente come in qualunque altro paese civile, attraverso leggi ordinarie.
Il calo dei votanti fu, tornata per tornata, continuo e progressivo: dal 43% del 1990 al 30% del 1997, dal 49% del 1999 al 32,2% del 2000. Fino a toccare il fondo, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita del 2005, quando la chiesa e molti partiti di governo (ma non solo) avevano consigliato l'astensionismo, per cui andavano a votare solamente il 25% degli italiani. E il distacco dalla politica era confermato ancora nel 2009 con un calo ulteriore dei votanti al 23% in occasione dei quesiti tutti tecnici sulle liste elettorali.
Ma veniamo all'oggi. Questo appuntamento referendario, per la tipologia dei quesiti (nucleare, acqua pubblica, giustizia), per il percorso politico che lo ha preceduto, per la mobilitazione che, soprattutto in questi ultimi giorni, ha suscitato nella popolazione, sembra rientrare, di diritto, nella storia originaria e gloriosa dell'istituto del referendum abrogativo. Con la differenza che, stavolta, le forze popolari e anche i partiti, che li hanno promossi, non sono la chiesa e i movimenti cattolici intransigenti, ma piuttosto sono quei movimenti che hanno fatto sentire fortemente la propria voce in occasione, negli ultimi tempi, contro i provvedimenti del governo, contro le "uscite" del premier, e infine, durante la campagna elettorale per le ultime amministrative. Si tratta di un blocco sociale ricomposto, di una spinta popolare proveniente dal basso, con grandi protagonisti i giovani e le donne, che ha costretto, incredibilmente, i partiti di opposizione ad accodarsi, a non bloccare o smorzare come al solito l'entusiasmo, insomma si tratta di una novità per la storia recente del nostro paese. Una novità che però ha almeno tre importantissimi e gloriosi precedenti storici: le vittorie dei movimenti progressisti, laici e cattolici, in occasione dei referendum su divorzio (1974), aborto (1981) e nucleare (1987).
A questo punto è doveroso un appello a tutti. In quelle occasioni storiche il quorum fu, come ho già accennato, rispettivamente, dell'87%, del 79% e del 65%. Facciamo in modo di rimanere dentro la storia e facciamo sì che, anche questa volta, il quorum sia raggiunto e diventi una spinta propulsiva e incontenibile verso il (peraltro già vicino e ormai auspicabile) cambiamento di questo nostro paese.
Il disagio dei cattolici e la miopia della sinistra
(Archivio Alinari)
In questi giorni ricorre il trentennale del referendum del 1981 che sancì la conferma della “194” , la legge che introduceva per la prima volta in Italia, in ritardo rispetto a molti altri paesi europei, la regolamentazione dell'interruzione della gravidanza. Promossa dal deputato socialista Loris Fortuna, dal movimento organizzato delle donne e dai radicali, pur con le varianti limitative introdotte, volute dai comunisti e dai cattolici democratici, la legge era stata votata in Parlamento da Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e Sinistra indipendente, con la contrarietà di Dc (seppure con molte defezioni) ed Msi. Il Parlamento italiano era giunto a quel voto dopo un dibattito lungo ma di alto livello culturale, con un Paese fortemente diviso nelle piazze: non, come si è soliti semplificare, tra abortisti e anti-abortisti, quanto tra sostenitori e oppositori di una legge che voleva limitare al massimo il drammatico fenomeno degli aborti clandestini.
Dopo la promulgazione, la polemica pubblica si indirizzava sul tema dell'obiezione di coscienza all'aborto, prevista dalla legge, ma utilizzata strumentalmente dalle forze intransigenti e, in particolare, dal nascente Movimento per la vita (Mpv), per boicottarne la corretta applicazione. Durante il confronto che precedette il referendum, i fronti contrapposti videro schierate, da un lato, a favore della legge, le forze laiche presenti in Parlamento, dall'altro, le gerarchie ecclesiastiche, la Dc (la cui segreteria, peraltro, decise di non spendersi molto durante la campagna referendaria), alcuni movimenti cattolici come Mpv e Comunione e Liberazione (Cl). Rappresentarono una variante significativa ai fini di spostare il voto di una buona parte dell'elettorato dei credenti a favore della legge, gruppi, riviste, personalità cattoliche che decisero di seguire la propria coscienza e di votare in maniera difforme alle direttive ecclesiastiche e ai richiami di Papa Wojtyla. Oltre alle prese di posizione contrarie al referendum abrogativo manifestate dai Cristiani per il socialismo, dalle Comunità di base, dai candidati cattolici indipendenti, spiccarono, durante il dibattito referendario, le dichiarazioni controcorrente, da un lato, di Pietro Scoppola, che, pur avendo appoggiato in precedenza i gruppi della sinistra cattolica che avevano mediato per l'approdo alla legge, decise di schierarsi a favore; dall'altro, l'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Norberto Bobbio che si espresse,
seppure con motivazioni esclusivamente ideali, contro la legge.
A parte le dichiarazioni di principio dei rappresentanti della Dc, dell'Azione cattolica e della Chiesa , ad un'analisi più attenta, emergeva una posizione del mondo cattolico nient'affatto allineata e tanto meno compatta. Se i documenti episcopali emanati in prossimità del referendum presupponevano una società italiana non ancora secolarizzata, in cui il modello soggettivo di fede era confuso con quello proposto come ufficiale dalla chiesa, in una visione completamente superata dai fatti, l'orientamento di movimenti come Acli e Cisl era stato di distacco, per cui si propendeva per un timido “sì” al referendum ma si dava agli aderenti la possibilità di votare secondo coscienza. Lo stesso atteggiamento aveva assunto, in sostanza, la Dc.
Lo scollamento di un mondo cattolico sempre più inquieto di fronte a problematiche morali di così vasta portata dava un esito referendario sorprendente (segnato anche dall'attentato al Papa), che riportava il 32% per il “sì” contro il 68% di voti che riconfermavano la legge. Colpisce la quasi coincidenza tra la percentuale del “sì” e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale, che dal 69% del 1956 era calata al 30% nei primi anni ottanta (nonostante l'ancora altissima percentuale degli italiani battezzati, circa il 97%). La società appariva largamente secolarizzata e notevolmente autonoma rispetto alle indicazioni dei partiti. Va ricordato, inoltre, il dato di altissima partecipazione da parte del mondo cattolico al Centro e al Nord, fortemente mobilitato dalle sinistre laiche e dai cattolici democratici, contrapposto invece alla forte astensione al Sud, nelle zone rurali ad alto tasso di voto democristiano. La Chiesa appariva la grande sconfitta del referendum: cresceva il numero di coloro che, pur dichiarandosi credenti, non ritenevano di essere obbligati a seguire le sue indicazioni su questioni morali che toccavano da vicino la vita di tutti i cittadini.
A distanza di trent'anni dall'esito di quel referendum, risulta ormai un dato di fatto il significato positivo di quella battaglia: l'Italia ha oggi il tasso di abortività più basso del mondo, cioè a dire 8,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne (e diminuisce ancora tra le minorenni al 4,8), mentre, più in generale, gli aborti sono calati del 50%, passando dai 231 mila del 1982 ai 116 mila del 2009 (di cui ben il 33% è dovuto alle immigrate, quindi la percentuale degli aborti tra le donne italiane è ancora inferiore). Appare più interessante, invece, fare un confronto con il mondo cattolico, la chiesa e le forze di sinistra odierne. Dopo la fine della Dc, le gerarchie ecclesiastiche hanno avuto la possibilità di “fare politica” a tutto campo, rivolgendosi non solo al centro, ma anche a destra e a sinistra indistintamente, nel tentativo di condizionare i programmi e incassare provvedimenti legislativi favorevoli alla chiesa. Questo scenario si è rivelato in tutta la sua portata in occasione della enorme astensione del mondo cattolico al referendum del 2005, quello relativo alle modifiche alla legge “40” sulla fecondazione assistita. Nella stessa direzione - nel senso di ingraziarsi la Chiesa - vanno le più recenti prese di posizione del governo di centro-destra, con l'appoggio trasversale dell'Udc, su alcuni temi: l'opposizione all'utilizzo delle cellule staminali nella ricerca scientifica, in opposizione a quanto indicato da tutta la comunità scientifica internazionale; l'indicazione contraria alle direttive anticipate di trattamento sul testamento biologico, che non devono essere vincolanti per il medico, secondo cui l'idratazione e la nutrizione artificiali non possono essere sospese perché considerate forme di sostegno vitale; il “no” fermo a ogni forma di eutanasia; la contrarietà all'utilizzo e alla diffusione della pillola abortiva Ru486. Le ragioni del favore fatto dal governo alla Chiesa non sono solo di principio e di ordine morale ma anche di business.
A differenza del passato, però, su questi punti è venuta a mancare la compatta e coerente opposizione da parte della maggiore forza dell'opposizione e del centro-sinistra, il Pd, rilevatosi incerto e contraddittorio, per il timore di rompere con il mondo cattolico ad esso più vicino. A questo punto si tratta di analizzare meglio questo rapporto, con un mondo cattolico sempre più inquieto, confuso sulle opzioni politiche proposte, propenso all'astensionismo, diviso tra cattolici progressisti e intransigenti, e con le gerarchie ecclesiastiche, decise invece ad appoggiare un governo con sempre meno appeal, pur di incassare i suoi interessi sui temi cosiddetti non negoziabili. Guardare al mondo cattolico nella sua interezza è un errore grossolano. Lo fa oggi il Pd, così come lo faceva il Pci di Togliatti, quando non distingueva tra questione cattolica e questione democristiana. L'episcopato, ormai dalle vicende del referendum sull'aborto, anche se la scomparsa del partito democristiano lascerebbe ipotizzare il contrario, non rappresenta realmente il portavoce politico di tutti i credenti. Occorre distinguere sempre, infatti, tra credenti intransigenti e credenti che decidono di riservare il primato delle scelte su questi temi alla propria coscienza. E proprio su questo punto il Pd e tutta la sinistra dovrebbe impostare un approccio completamente diverso, intanto mettendo da parte la soggezione e il senso di inferiorità dimostrato nei confronti della chiesa, poi cercando di compattare e unificare le visioni di molti cattolici che, su temi come un testamento biologico ispirato all'autodeterminazione, come la regolamentazione delle coppie di fatto etero e omosessuali, come la difesa della “194”, si trovano sostanzialmente d'accordo.
Un po' quello che accadde, come si è visto, nel caso della battaglia referendaria sull'aborto.
Questo mondo cattolico, indispettito dal silenzio nei confronti del governo e dal conformismo verso la maggioranza imposto dalle gerarchie ecclesiastiche, aspetta un interlocutore politico serio. Si tratta di persone credenti impegnate nel quotidiano, presenti nelle parrocchie, nelle associazioni, nelle scuole, che esprimono un bisogno di moralità, di onestà, di serietà istituzionale, allo stesso modo di tanti altri non credenti. Tutto ciò poco ha a che vedere con la prospettiva di alleanza strategica con il terzo polo, fatta sulla testa degli elettori e della stessa base dei partiti di sinistra. L'esempio della mobilitazione durante il referendum sull'aborto, se letto correttamente, fornisce spunti interessanti per sciogliere il nodo di questo travagliato
e quanto mai decisivo rapporto tra mondo cattolico e forze di sinistra in Italia oggi.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 45)
(Archivio Alinari)
Un ricordo di ieri, la certezza di oggi (ovvero in ricordo di Falcone)
Il 23 maggio del 1992 avevo diciassette anni. Quel giorno, intorno alle 6 di pomeriggio, nell’ora in cui Falcone moriva, ero su una strada anch’io. Scendevamo da Ragusa a Camarina sull’auto di un mio amico, sospesi nella calura del maggio, sfrecciando tra carrubi, ulivi e muretti a secco. Dal picco dove inizia la strada si vedevano, giù in fondo, le casupole di Comiso e Vittoria, poi, lontano all’orizzonte, il mare, infine il sole che in esso calava a picco. Presi nei discorsi, con buona probabilità, si parlava di futuro, di partenze, di esempi eroici: Gobetti, Gramsci, Vittorini, Pasolini, Sciascia. E, certo, di Falcone. In quei giorni quel magistrato era per noi già come una pietra vivente di memoria. Significava stare dentro alle cose, lottarci dentro, non impugnando le armi come durante la guerra e la resistenza al fascismo, ma dandoci dentro con una pala di idee, con documenti, perquisizioni, intercettazioni, e quant’altro. Era un esempio che bastava ad infiammarci, a farci credere che ciò che avevamo sempre letto nei libri, nelle pagine di storia, l’unità, le lotte operaie, il dialogo alla prova, contro lo stragismo, il terrorismo, potevano finalmente essere esempi concreti, vivi nell’oggi. Si può, un tardo pomeriggio di sole, vedere esplodere in mille pezzi, su una strada di Sicilia, le sue idee, senza pensare poi, sconsolati, almeno per un istante, che non rimarrà più nulla di buono al mondo, da pensare, da dire, perfino da fare? Che forse non resterà nulla di vivo, una compagna, un amico, un padre, o anche semplicemente un pensiero, una parola, un libro? Si può, ma solo per un momento della nostra vita. Poi si deve ricominciare a credere.
Ricordo la rabbia della gente, la paura dei politici. Dove stanno oggi? Ricordo qualche intellettuale siciliano indignato, qualche altro scrisse il suo bravo articolo di fondo. Poi il nulla. Sono passati anni: dove è finita la mafia? E’ sempre lì piantata dentro le viscere di questa terra, e anche se ormai tutti parlano di successi, di catture altisonanti, sembra quasi di vedere il suo ghigno sprezzante in ogni gesto, in ogni parola disonesta, ipocrita, opportunista, detta per caso, continuamente, da chiunque. E quel ghigno mi pare di vederlo crescere anche nella campagna elettorale. Da apparenti insospettabili: un politico, un avvocato, un docente, un medico, uno studente, dappertutto. Guardata con questo stato d'animo, oggi, la Sicilia, sembra sempre la stessa: grandi e calorosi sorrisi, atroci omicidi. E il sole, la terra, ne sono muti testimoni ogni giorno. Da secoli è così. E' un emblema di questa Italia di oggi, indifferente, qualunquista, superficiale, senza memoria. La mafia non esiste, disse qualcuno. Già. Eppure se ripasso sul lungomare di Scoglitti, soffocato dalle case quasi fin dentro al mare, o dalle palazzine grigie dei quartieri bassi di Vittoria, o pure da uno dei ponti più alti d’Europa, il ponte di Modica, sembra di sentirne come l’odore, nauseante, che si conficca in fondo al naso, un puzzo che arriva fin dentro lo stomaco e si trasforma in una fitta e un strattone. O ancora nella via principale per il giorno del venerdì santo, in mezzo ai vestiti della festa, sembra di vederne spuntare le sembianze, come l'ombra di un animale feroce impressa sul muro, sempre in attesa di assalire. Dico Vittoria per dire qualsiasi città della Sicilia, dell’Italia, forse del mondo. Se si prova un attimo ad appuntire lo sguardo, se ne vedono le macerie, i calcinacci, le pietre, i rifiuti, tutto il degrado di una terra lasciata a sé stessa. Sono macerie d’idee, d’esempi, di memoria. Dove sono finiti quegli esempi? Ma forse, allora come oggi, la Sicilia era ed è anche altro. Se in Puglia è stato possibile rompere gli schemi, se anche a Milano il vento può cambiare,
forse perfino la Sicilia può e deve essere diversa.
E quel giorno, mentre, ragazzi, sfrecciavamo sulla strada, ci apparivano nomi su cartelli stradali di città ignote ai più ma gigantesche nei ricordi d’infanzia di qualcun altro…Donnafugata…Santa Croce…ma subito sparivano per lasciare il posto ad altri nomi: Piazza Fontana, Via Fani, Punta Raisi, Capaci, morte. Questo è stato sempre. Poi, giunti a casa, mentre attendevamo i risultati delle partite al televideo, squillava il telefono. Non era la voce agognata di ragazza, quella che attendevamo al telefono. Era una voce impastata di stupore e rabbia, una voce di vecchia. Diceva: “E’ morto Falcone. E’ finita”. Quella voce sconosciuta, ogni tanto, mi risuona nella mente. Accade ogni volta che qualcosa va male, ogni volta che si infrange una speranza, per me e per gli altri. Mi è accaduto il pomeriggio dell’11 settembre 2001 a Firenze mentre tornavo a casa in bus e crollavano al suolo le Torri Gemelle a New York, o dopo aver visto dare la morte in un pomeriggio di luglio dello stesso anno, a Genova. E chissà quante altre volte sarà così, sarà come alzarsi un mattino e non immaginare più di poter vedere la sera.
Eppure dopo tutto, nonostante l’ingiustizia, l’indifferenza, si ha voglia di pensare che un altro mondo sia possibile. Finché qualcuno ricorda ciò che è stato, quel giorno, quel pomeriggio come un altro, anche ad essere soli in mezzo ad una piazza vuota, seduti al centro, per terra, in una posizione scomoda, difficoltosa, esposti al ludibrio degli altri, emarginati dai soliti ghignanti vincitori, ed esserlo con la forza e la dignità dei leoni, della giustizia, dell'onestà, fino ad apparire, se guardati da lontano, da un colle distante chilometri o anni, come un puntino, ma da vicino come un mattone solido, il primo mattone di una lunga serie, un basamento di idee e pensieri per resistere e per cambiare. Come girare per le strade e convincere la gente che si può cambiare, che non tutti i partiti o i candidati sono uguali, allora sì, ne sono certo, varrà la pena di continuare a lottare insieme per cambiare le cose anche in Sicilia, oggi, come in qualsiasi altro posto. E certo si troverà sempre qualcun altro per farlo, prima uno, due, poi dieci…poi cento e mille, fino ad essere milioni. Partirono in pochissimi e unirono l'Italia, salirono in pochi sui monti e sconfissero il fascisti. Si può scendere in piazza ed essere in quattro gatti, e sconfiggere così la mafia. Si può conquistare una roccaforte politica impensabile, con la forza delle idee. Tutto è possibile. Si può.
(Fonte Internet)
Risorgimento. Gli italiani a tavola
Tra le classi popolari delle campagne, nel Risorgimento, l'alimentazione a base di carne era ancora un'eccezione (tanto che in Italia il suo consumo rimaneva tra i più bassi d'Europa). Continuavano ad avere un ruolo essenziale i cereali, la cui produzione passò da 34 milioni di quintali annui nel 1861 a 40 del 1880, come castagne, patate e legumi. I maggiori progressi nel campo dell'igiene alimentare, in quegli anni, furono fatti dalle classi borghesi nelle città. La cattiva alimentazione, che poteva causare malattie come la pellagra (per l'eccessivo consumo di mais), iniziava ad essere denunciata anche dalla stampa e dalla classe politica. Si diffondeva per la prima volta su tutto il territorio il consumo di pasta e di riso (passato da 2 milioni nel 1861 a 5 nel 1880), così come di vino, olio e formaggi. Questo accadeva soprattutto per le classi medio-alte, mentre per operai e contadini l'alimentazione continuava ad essere scarsa e povera di valori nutritivi, troppo legata alle disponibilità di cibo stagionali e territoriali, salvo che per le feste comandate. Nelle tavole delle famiglie povere, rurali e urbane, infatti, non c'era altro che pane di granoturco, minestre in cui erano mescolate polenta, patate e legumi vari.
Durante il Risorgimento il menù tipico di un pranzo borghese era invece: consommé (un brodo concentrato, a base di carne e ossa di manzo fatti bollire per almeno quattro ore), antipasti, pietanze di carne fredda e calda (spesso con contorno di e, fegatini, cervella o con una elaborata salsa), gelati, creme, zabaione, biscotti, dolci di pasticceria, frutta fresca e sciroppata.
Non va dimenticato però che ogni regione aveva le sue varianti culinarie. Nella tavola piemontese di Vittorio Emanuele II non dovevano mancare mai la bagnacauda, la fonduta e vari tipi di cacciagioni. I piatti preferiti da Garibaldi erano lo stoccafisso, il minestrone alla genovese con il pesto e il “ciurasco” (cosiddetto dai tempi vissuti in America), un pezzo di carne magra arrostita sulla brace. Non si possono non ricordare i barocchi cibi serviti nelle tavole siciliane della nobiltà in decadenza, raccontati nelle pagine del romanzo “Il Gattopardo”, comeil “torreggiante timballo di maccheroni”, destinato agli ospiti borghesi del principe di Salina, che sostituiva il tradizionale potage di apertura, anche questo simbolo di una rivoluzione in campo culinario oltre che politico.
Tramontate, con la crisi dell'ancién regime, le lussuose cene conviviali e di salotto del secolo dei lumi, nell’Ottocento la cucina italiana si caratterizzò sempre più in un ambito di tipo familiare e popolare, dove assumeva un ruolo fondamentale la donna, padrona di casa. Fino ad allora i manuali francesi di cucina, che fornivano ricette per le ricche dimore dei nobili, erano stati scritti soltanto da cuochi uomini. Lentamente però, soprattutto nfamiglie borghesi e popolari, si assisteva ad una sorta di “” del personale di cucina (a Bologna, nel 1850, le “cuciniere” erano il 2%, nel 1857 passarono al 10%, e nel 1899 addirittura al 48%).
Una vera svolta per la gastronomia italiana si ebbe con la pubblicazione nel 1891 del celebre ricettario, scritto da Pellegrino Artusi, dal titolo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. L'autore tentava di emancipare la cucina italiana dalla sudditanza di quella francese, valorizzando alcuni piatti tipici regionali più popolari, nella fattispecie quelli tosco-romagnoli, ed auspicando la nascita di una prima gastronomia nazional-popolare. Il motto scelto da Artusi per la copertina del suo capolavoro era emblematico
(“igiene-economia-buon gusto”), a dimostrazione dell'intento pedagogico del volume.
(Estratto da: “L’Italia unita. Il Risorgimento e le sue storie” (Giunti, Firenze)
(Archivio Giunti)
Fuga dall'Italia
Chiede oggi Crainz al paese, dalle pagine di Repubblica, a proposito dello sciopero della stampa di domani: è possibile continuare in questo modo? La sua risposta è ovviamente "no", e vi argomenta tutta una serie di motivi per cui siamo arrivati oltre il limite di guardia della democrazia, riportando, da fine storico qual è, qualche glorioso esempio di giornalismo del passato che non si piegò al conformismo e che contribuì alla riscossa democratica del paese, svoltasi anche ma non solo nelle piazze (si pensi all'opposizione ferrea in parlamento dei partiti della sinistra laica ma anche delle forze cattoliche democratiche in piena secolarizzazione), per esempio, dopo i danni provocati dal governo di Tambroni del 1960: giornalisti e stampa, partiti antifascisti, forze intellettuali, sindacati, associazioni e gruppi della società civile, tutti uniti. Quello è stato indubbiamente un momento storico difficilissimo, che poteva preludere al peggio, per esempio al "tintinnar di sciabole" del golpe o ad altre soluzioni reazionarie, ma è altrettanto indubbio che quella era tutta un'altra Italia. Era un popolo che seppe reagire, perché, in fondo, si voleva bene, voleva bene al suo paese.
Voler bene all'Italia, oggi, è molto e sempre più difficile per gli italiani. Quando dico oggi non intendo dire negli ultimi decenni o anni, come a volte si dice, individuando nell'annus domini 1994 ovvero nella discesa in campo di Berlusconi con il suo discorso andato in onda a reti unificate, l'esempio di tutti i recenti mali della nazione. Mi riferisco, piuttosto, alle azioni e alla strategia politica di questo ultimo governo in carica (il conto si fa in mesi, dunque). Non si tratta di strategia della tensione ovviamente (di tensione se ne crea eccome nel paese, anche se il precedente storico non è proprio calzante), né tanto meno di strategia dell'attenzione (forse attenzione sì, ma alle classi agiate), ma si potrebbe parlare piuttosto di strategia della distruzione: nel senso di distruggere quasi tutto ciò che di buono il paese aveva fino ad oggi. Non entro nel merito dei provvedimenti che vanno in questa sventurata direzione, lo hanno fatto altri ben più preparati di me nello specifico delle varie leggi (che sarebbero da chiamare non tanto leggi ad personam quanto ad factiones, perché vanno a salvaguardare gli interessi di lobbies e gruppi di potere ben precisi, mentre le masse che hanno votato centro-destra rimangono tuttora a bocca asciutta o quanto meno ad aspettare, illusoriamente, che si vedano i frutti delle tante promesse).
Dico solo che è difficile, per i tanti giovani che vivono qui e che non sono già andati via, voler bene a questo paese. Un paese che non dà più da vivere e da lavorare ai suoi cittadini (il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli drammatici dei primi anni cinquanta, con la differenza però che a quel tempo c'erano state prima il regime fascista e poi la seconda guerra mondiale), che non dà case da acquistare né da affittare a prezzi decenti ai suoi giovani o alle nuove coppie. E' difficile vivere in un paese dove tutto quanto si è sofferto sembra rimanere inutile ed esser tradito (si pensi alle fatiche dei costituenti e dei partiti antifascisti per dar vita ad una costituzione completamente condivisa), la libertà e i diritti per cui si è sempre sperato e ci si è battuti disperdere il loro senso in una politica da troppe parti condotta con ambiguità, intrighi, compromessi di ogni sorta. E vedere che il veleno intossicante che proviene da un certo modo di far politica da anni ormai di moda ha ammorbato anche chi viene da una storia diversa, alta e onesta moralmente, è proprio difficile. E' difficile sentire fiducia in se stessi e per gli altri in un paese dove ben poco va esente dall'egoismo di parte, dall'opportunismo, dal malaffare portato a modello di comportamento per tutti, anzi quasi premiato (si pensi alla nomina dell'ultimo ministro di questo governo, poi costretto alle dimissioni), dove la cronaca è satura di imbrogli, sotterfugi, vizi (non solo sessuali), e dove una smisurata incertezza ostruisce il nostro futuro. Difficile credere nella bontà dell'esistenza quotidiana quando essa, come accade oggi in Italia, non offre quasi più speranze di un miglioramento, non dico solo economico ma quanto meno nei comportamenti, nei rapporti umani. Per questi motivi e per tanti altri che ognuno di voi tutti avrà ben chiari nella sua mente, in molti italiani, oggi, provano un disgusto per il loro paese, un sentimento di ripugnanza e di amara irrisione verso le cose che li circondano, verso le persone che dovrebbero guidarli politicamente, almeno sulla base delle regolari elezioni democratiche, e provano un impulso di levarsele di dosso, di uscire fuori, di andarsene lontani una volta per sempre, per non cadere nella ragnatela di questo meccanismo, di questo sistema di vita e di politica, ma anche per evitare il peggio, di ricadere in reazioni del passato che hanno creato tanto dolore. L'Italia, oggi, è brutto dirlo, per la sua storia, per la sua cultura, senza voler fare la parte dei disfattisti e dei troppo pessimisti, è diventata una specie di macchina in frantumi che non sa più funzionare. E' il caso di lasciarla a se stessa? alle sue macerie? ad un futuro inimmaginabile per le generazioni a venire? Così sentono molti giovani, che pure hanno già lottato affinché certi meccanismi e certe cose cambiassero, o quanto meno non si incancrenissero. Così sentono in tanti italiani, e non solo giovanissimi: al di là delle frontiere, negli Usa come in Inghilterra, in Germania come in Olanda, in Cina come in India, l'estero li attrae, ad esso indirizzano, forse anche sbagliando, ogni loro speranza per l'avvenire. Per tutti loro, o comunque per una gran parte, alla luce degli ultimi due anni di questo governo, e non certo per la solita pregiudiziale anti-berlusconiana che non porta da nessuna parte, ma per fatti e iniziative concrete, non vi sarà stata altra alternativa che andar via. In primis, per i ricercatori, come sottolinea oggi Vaccarino sulla Stampa. A contrastare questo destino, amaro e ingiusto, non rimane che una carta, l'unica possibile, allo stato attuale: che tutta la gente che non avalla questo sistema di governo (non solo gente che ha votato per il centro-sinistra ma anche, ovviamente, gente di centro-destra, per questo sarebbe utile andare a parlare in mezzo a loro, evitando di creare steccati e di parlare sempre e solo ai soliti noti che la pensano come noi), dia mandato a nuove schiere di giovani, uomini e donne, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai avuto condanne penali, ma che hanno invece tante nuove esperienze da proporre, tratte dalla loro vita, dalla loro occupazione e specializzazione, dai loro studi, di formare una nuova opposizione, che si dia un linguaggio politico assolutamente inedito, fatto di azioni concrete, buone pratiche, leggi che stiano al passo con i migliori esempio europei e del mondo, per guidare un nuovo processo democratico, finalmente fondato su valori come il pluralismo, la laicità, l'importanza del ruolo della cultura e dell'istruzione, della ricerca, tenendo conto delle prospettive aperte dal nuovo contesto globale.
Non so se ci vorrebbe un partito completamente nuovo o basterebbe aggiustarne uno vecchio, questo è un problema tecnico o comunque secondario, di sicuro ci vorrebbe una classe dirigente completamente rinnovata e ringiovanita, una suddivisione interna dei compiti e delle mansioni fondata sul valore della competenza e dell'efficienza (non intesa in termini produttivi come un prodotto, ma in termini di qualità culturale in senso lato), e un leader che parli un linguaggio assolutamente diverso da quello espresso in questi ultimi decenni, diciamo dal 1984 in poi, a sinistra come a destra.
Con queste nuove condizioni, cioè a dire con una destra diversa da quella che imperversa oggi, e con una sinistra altrettanto nuova, o almeno con dei leader capaci di esprimere la volontà di due parti del paese opposte, con visioni e idee divergenti, ma civilmente e seriamente disponibili al confronto sulle questioni specifiche, con la condivisione delle regole di base per tutti, solo così molti italiani, soprattutto giovani, potrebbero ritornare indietro dalla loro amara decisione. Se così, invece, non sarà, non rimarrà, per ognuno di noi, che la
fuga dall’Italia.
(Fonte Internet)
Negli anni del boom economico si impostava "al volo"
La fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta furono per il nostro paese un periodo di straordinaria espansione: una crescita non soltanto economica, ma tale da rivoluzionare il costume nazionale. In pochi anni cambiò tutto: abitudini di vita, costume, possibilità di muoversi. Dal paese agricolo che era solo pochi anni prima, l’Italia divenne una moderna nazione industrializzata.
Il mutamento fu rapidissimo, e tale da generare nuove occasioni e anche nuovi squilibri: ma, in generale, uno dei suoi aspetti più rilevanti riguardò la necessità di realizzare un sistema di comunicazioni molto più rapido.
Le Poste non potevano rimanere indifferenti di fronte a un fenomeno simile; e , al di là di una serie di innovazioni che modificavano e miglioravano il servizio tradizionale, si attrezzarono anche per assecondare uno degli aspetti più vistosi del nuovo clima del boom: la velocità.
Siccome tutto diventava più veloce, si dovette andare incontro anche alle necessità di coloro che non avevano il tempo di recarsi in un ufficio postale e nemmeno, si pensava, quello di scendere dall’automobile (simbolo assoluto degli anni del “miracolo economico”, che videro lo sviluppo impetuoso della motorizzazione di massa).
L’introduzione delle cassette per l’impostazione rapida fu una delle novità più curiose e significative, sul piano del costume postale, di quegli anni. Si trovavano soprattutto nelle grandi città, laddove il problema del traffico , della difficoltà di parcheggiare, cominciava proprio allora a farsi sentire; erano collocate a bordo strada, sul limite dei marciapiedi, e consentivano di imbucare la corrispondenza semplicemente aprendo il finestrino della vettura. Nelle immagini dei primi anni sessanta compare una nuova Italia, fatta di gente che aveva bisogno di comunicare e aveva (o faceva mostra di avere) poco tempo a disposizione e molta fretta. Sono immagini metropolitane che riportano a un clima generalizzato di ottimismo e attivismo, lontane da quelle del decennio precedente, contrassegnato invece dalla fatiche e dalla durezze della ricostruzione.
Le cassette per l’impostazione “al volo” non ebbero vita lunghissima: il loro impiego decadde progressivamente, anche perché, col passare degli anni, le abitudini degli italiani si modificarono ulteriormente. Oggi, in tempi in cui la corrispondenza tradizionale è stata ampiamente soppiantata da nuove forme di comunicazione istantanee, appaiono una curiosità d’altri tempi. Una curiosità capace di riportarci a un’epoca che sembrava modernissima ma che appare invece, nei tempi dei telefoni cellulari, della posta elettronica e di internet, come una fotografia ingiallita dei nostri nonni.
(Estratto da: “Poste. Dal cavallo a internet” (Giunti, Firenze)
(Archivio Poste italiane)
La globalizzazione e la guerra
La globalizzazione e la guerra
Una visione di lungo periodo e possibilmente dialettica della globalizzazione trova riscontri anche nell’ambito più propriamente geo-politico. A differenza della lettura «filosofica» della globalizzazione che punta sulla cosiddetta «morte della distanza» e «fine dello stato-nazione», sostituito da un impero globale su scala planetaria, questo genere di analisi mette in evidenza l'aumento progressivo dell’instabilità internazionale, acuita dalla crisi internazionale apertasi col terrorismo internazionale, in particolare con gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma fondata, quotidianamente, su processi ben precedenti e strettamente legati alla fine dei regimi comunisti, al risorgere delle ideologie nazionaliste a sfondo religioso, che animano buona parte di quei paesi.
E' soffiando sul fuoco della polemica che il politologo Huntington fonda la sua tesi sullo «scontro di civiltà» [Huntington 1997] e prospetta un approccio «realista» alla storia delle relazioni internazionali in cui si fronteggiano non più gli stati e i loro interessi nazionali (con le loro alleanze, i loro rapporti di forza) ma indifferenziati blocchi culturali-religiosi, contraddistinti da identità assai più antiche di quelle della guerra fredda e quindi ancora più immobili, monolitiche, non negoziabili.
D’altra parte, gli Stati Uniti, dopo la guerra fredda, manifestano una posizione sempre più unilateralista, pronta a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento, dall’alto della propria indiscussa superiorità economica e militare. Dopo l’11 settembre, infatti, il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato fino a raggiungere, nel 2002, ben 343 miliardi. Dal canto suo, la Russia, la seconda nazione in termini di spese militari, rappresenta meno di un quinto della potenza bellica statunitense
(64 miliardi di dollari), con proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio fa.
Se però mettiamo in atto una comparazione in chiave storica, ad una più attenta analisi è possibile valutare meglio le nuove gerarchie del potere mondiale e scoprire importanti differenze rispetto al passato. Nel 1900, le spese militari britanniche raggiungevano, proporzionalmente, dimensioni non molto diverse da quelle statunitensi attuali, che sembrerebbero ribadire la validità della tesi della continuità di un’economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare. Ma esaminate lungo un arco cronologico più ampio, per esempio partendo dal 1890, le stesse spese militari britanniche appaiono assai meno imponenti di quelle degli Stati Uniti attuali (corrispondevano a circa la metà di quelle russe ed erano più o meno simili a quelle di Francia e Germania), mentre alla vigilia della Grande Guerra, arrivano ad essere paragonabili a quelle francesi, tedesche e russe. Le cifre sulle spese militari britanniche del 1900 non sono dunque così qualificanti e sono destinate, nel giro di qualche decennio ad essere rimesse in discussione da un maggiore equilibrio militare a livello europeo. Inoltre, a differenza di quella statunitense, la supremazia britannica di un secolo fa non si fonda sul controllo esclusivo di tecnologie particolari (si pensi ai cacciabombardieri invisibili statunitensi o alle cosiddette «bombe intelligenti) o di programmi di ricerca scientifica, bensì sull’attuazione sistematica di programmi di riarmo estensivo (flotta navale, corazzate). Il distacco sul piano strategico militare operato dagli Stati Uniti nei confronti di tutte le altre potenze europee ha il suo inizio subito dopo la sconfitta americana in Vietnam ed ha il suo culmine negli anni Ottanta, con la cosiddetta «Strategic Defense Iniziative», meglio nota come «guerre stellari» di Reagan. Va detto che accanto alla supremazia militare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una accentuata instabilità accompagna l’indiscussa leadership del dollaro nelle relazioni commerciali internazionali.
Un'altra importante differenza sta nei diversi equilibri internazionali: se è vero che al posto degli Stati Uniti odierni c'era la Gran Bretagna che alla fine del secolo scorso era capace di esprimere un’egemonia intercontinentale fondata su un impero coloniale senza rivali, non va dimenticato che dai 40 stati del 1900 si è passati ai circa 180 stati attuali.
(Archivio Alinari)
In definitiva dunque la globalizzazione economica si accompagna a una evidente frammentazione del sistema delle relazioni internazionali, con la moltiplicazione delle aree integrate commerciali (come Nafta, Mercosur e Unione Europea), delle medie potenze regionali in grado di mirare a pericolose politiche egemoniche ed espansive (come Iran o Pakistan) che si sono sostituite rapidamente alle identità ideologiche proprie della contrapposizione tra democrazia e comunismo. La situazione internazionale insomma sembra diventare più instabile rispetto al tempo della guerra fredda, semplicemente per effetto di un aumento dei soggetti e delle variabili in gioco.
Appare evidente che in questo contesto così tumultuoso, a parte il caso particolare della guerra del Golfo o delle cosiddette «operazioni di pace» in Africa o nei Balcani, in cui si era affermato un nuovo modello di intervento degli Stati Uniti, fondato sul concordato con altri stati e sulla mediazione dell’Onu o della Nato, l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di queste «nuove guerre» [Kaldor* 1999] si è spostato in direzione di una tendenza sempre più unilateralista. Tale atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti di forme di collaborazione sopranazionale ha avuto modo di manifestarsi pubblicamente in occasione del rifiuto statunitense di sottoscrivere sia il Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti sia l’atto di fondazione del Tribunale penale internazionale [Allegretti 2002]. Rispetto alla complessità crescente delle relazioni internazionali gli Stati Uniti sembrano non voler percorrere la strada del dialogo o della concertazione e le preferiscono quella del decisionismo e della difesa dei propri interessi.
Ad ipotizzare soluzioni alternative per opporsi in qualche maniera, tanto da indicare un preoccupante scenario che poi si sarebbe puntualmente verificato con gli attentati di Al Qaeda, allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti era, prima fra tutte, l'apparato strategico della Cina popolare. Nell’ambiguità tipicamente orientale tra diagnosi e terapia che lo contraddistingue, il pensiero strategico militare cinese è venuto elaborando, tra il 1996 e il 1999, il concetto di «guerra asimmetrica»: una nuova arte della guerra che ricorre ad altri terreni di sfida non tradizionale [Liang e Xiangsui* 2001], come i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico. Appare di un certo interesse il riferimento alla possibilità di usare come vere e proprie «armi» anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile, e la distinzione tra vecchie e nuove guerre, non solo perchè l'accenno proviene da una nazione che impegna in proporzione quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (il 5.3% del Pil) rispetto ad altri importanti nazioni come gli Usa (3%), il Regno Unito (2,4%) e la Russia (5%), ma soprattutto perchè mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate. In tal senso l’unilateralismo messo in atto dagli Stati Uniti non appare in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, mentre espone a sofferenze e rischi migliaia di civili in altre parti del mondo. A ciò si aggiunga il divario nei confronti degli Stati Uniti del peso politico-militare dei paesi che compongono l'Unione Europea (al cui interno spicca il ruolo predominante del Regno Unito, da sempre partner privilegiato degli americani, che destinava ben
36 miliardi di dollari agli armamenti su un totale di circa 174 nel 2000).
Per trovare una soluzione diversa dallo scontro di civiltà e dall'unilateralismo americano, che non passi attraverso l'utopico appello ad una non bene precisata «società civile mondiale», non rimane che sperimentare quella che appare probabilmente l'unica alternativa percorribile: il diritto internazionale, in particolare l’esercizio applicativo dell’articolo 14 della carta delle Nazioni Unite, per l’uso circoscritto della forza militare, e la riforma democratica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in direzione dell’abolizione
del diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Si tratta di una via che peraltro, in passato, ha dato importanti risultati: in occasione dell'Atto finale della conferenza di Helsinki del 1975 che ha conferito sostegno giuridico al processo di sgretolamento dei regimi illiberali dell’est europeo; con l'appoggio internazionale alla causa anti-apartheid in Sudafrica che ha dato avvio, seppure con risultati altalenanti, al processo di democratizzazione di quei paesi; con la risoluzione della crisi balcanica, durante la quale con una multilateralità di interventi si è riusciti a mobilitare contro il premier serbo Milosevic oltre all'opinione pubblica mondiale anche quella interna, che fungendo da interlocutore privilegiato e da soggetto politico ha reso più praticabile la via della rinascita politica ed economica in quei paesi.
Appare chiaro che non in tutti i paesi questo genere di soluzione è praticabile (si pensi ai casi di Iraq, Afghanistan e Somalia), ma in alcuni contesti la crescita delle società civili locali, aiutata da un maggiore peso del ruolo di partner dialogante esercitato dall'Unione Europea, dalla mobilitazione di organizzazioni internazionali e associazioni non governative, diventa un requisito indispensabile
per il loro sviluppo economico e politico. [Sen* 2001].
(Estratto da: “Il mondo globale come problema storico” (Archetipo libri, Bologna)
Ineguaglianza e povertà nella globalizzazione
La globalizzazione contemporanea aumenta o riduce l’ineguaglianza nel mondo?
Ormai da anni politici, economisti, sociologi cercano risposte a questa domanda. Ci sono gli scettici, i radicali, gli indecisi e, come spesso accade quando si tratta di questioni economico-finanziarie e politiche, è difficile che si pervenga a conclusioni pacificamente condivise. Chi sostiene radicalmente che la piena integrazione del commercio mondiale, intesa come leva di sviluppo, sia destinata a far diminuire e, in prospettiva, a cancellare povertà ed emarginazione sociale, si appoggia a dati empirici rilevanti. A partire dalla rinascita dell’economia giapponese nel secondo dopoguerra, infatti, in Asia si è verificato un vero e proprio nuovo «miracolo economico» (diffusosi prima in Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, per poi contagiare Malaysia, Thailandia, Vietnam, fino alla crescita recente e accelerata del gigante cinese). In ciascuno di questi paesi un’espansione economica trainata dalle esportazioni (che incide sostanzialmente su reddito nazionale e variazione dei prezzi dei beni) ha prodotto risultati significativi sul fronte della lotta alla povertà. Anche se va subito messo in evidenza, a questo proposito, che l'aumento del reddito nazionale, a seguito dell'apertura di questi paesi al libero scambio, contribuisce alla diminuzione generale delle sacche di povertà, ma lascia sostanzialmente immutata la distribuzione del reddito. In ogni caso, tra il 1981 e il 2001, le persone che in questa zona del mondo vivono con meno di un dollaro al giorno calano, secondo cifre fornite dalla Banca Mondiale, da un miliardo e 200 milioni (54% sul totale degli abitanti) a 700 milioni (23%). Se si provano a consultare su www.socialanalysis.org i dati forniti dalla Food and Alimentation organization delle Nazioni Unite, la tendenza al ribasso della povertà è confermata, pur se in termini più contenuti: il numero delle persone denutrite sarebbe calato in Asia da 569 a 519 milioni,
e in particolare in Cina, passando da 193 a 142 milioni.
Tuttavia i dati empirici a supporto della tesi opposta non mancano affatto. Il Rapporto sullo sviluppo umano compilato dalle Nazioni Unite nel 1999 sostiene che le differenze tra i popoli e gli stati più ricchi e più poveri hanno continuato ad allargarsi. Nel 1960 il 20% della popolazione mondiale che abitava nei paesi più ricchi aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero.
La proporzione è aumentata a 60 volte nel 1990 e a 74 nel 1997,
mettendo in luce una tendenza di fondo che dura da quasi due secoli.
Andando oltre le statistiche, se è pur vero che è povero non solo chi ha una ridotta disponibilità di risorse, ma anche chi non è in grado di utilizzarle, va sottolineato che povertà e ineguaglianza (oltre a mancanza di libertà) rappresentano due aspetti della realtà che non possono essere confusi né assimilati. Esistono paesi – come per l’appunto l’Italia – con poca ineguaglianza e molta povertà relativa (nel 1998 il rapporto tra reddito della popolazione più ricca e quella più povera era di 4,2, mentre la percentuale di popolazione che viveva con meno della metà del reddito medio era addirittura il 12,8). Non necessariamente però tra i due aspetti sussistono rapporti di proporzione diretta: la povertà può benissimo ridursi mentre contemporaneamente cresce l’ineguaglianza. Proprio la Cina incarna in modo emblematico questa contraddizione. La diminuzione della povertà (da 600 a 200 milioni di persone) si accompagna infatti a una crescita di aree di benessere da cui ha inizio una tendenza, ormai consolidata da decenni, all’aumento dell’ineguaglianza del tutto paradossale per un paese comunista: tra 1980 e 1998 la differenza tra redditi familiari urbani e rurali (da 4,6 a 7,9) si allarga progressivamente fino
a raggiungere livelli non distanti da quelli degli Stati Uniti (8,9).
Al tempo stesso, però, se si esclude la Cina, i poveri della Terra aumentano negli ultimi vent’anni da 845 a 888 milioni, con una crescita significativa nei paesi ex comunisti (da 1 a 18 milioni), in America latina (da 36 a 50) e soprattutto nell’Africa subsahariana (da 164 a 314). Almeno per il momento, dunque, la «miracolosa» ricetta asiatica non sembra convincere del tutto
e non è direttamente esportabile in altre parti del mondo.
(Archivio Giunti)
Si tratta, in primo luogo, di allargare la visione sulla questione più generale della povertà nel mondo almeno alla storia degli ultimi secoli, confrontando, per esempio, l'economia del Settecento con i mercati di oggi. Costretti ad analisi approfondite nel breve periodo, invece, economisti e sociologi finiscono per avere una visione dello sviluppo dei paesi poveri troppo schiacciata sul periodo coloniale e sullo sforzo di modernizzazione successivo. Il problema è che spesso questo approccio si trova di fronte a pregiudizi che risalgono alla storia precedente e finisce per assimilare casi specifici e limitati spazialmente e temporalmente ad una sorta di luogo comune della povertà e dell'arretratezza: si fa così riferimento a presunte identità etniche in conflitto, magari abilmente sfruttate dai regimi coloniali, come nel caso di Hutu e Tutsi nel Congo Belga; a logiche tribali di fazione e clientelismo che aumentano a dismisura i livelli della corruzione della burocrazia pubblica; a inerzie e resistenze delle comunità locali nei confronti dei processi pianificati di industrializzazione e commercializzazione dell’agricoltura; ad appartenenze religiose capaci di condizionare e stravolgere i meccanismi della rappresentanza elettiva; ad una instabilità cronica dei governi e delle istituzioni del luogo. In Asia, Africa, America latina la storia passata e recente è piena di episodi e vicende interpretate secondo questi luoghi comuni. Si rischia, così facendo, di riproporre per i paesi del Terzo mondo, la stessa visione che Hegel aveva dell’Africa come spirito non sviluppato, senza storia, ancora avvolto nelle condizioni naturali.
Eppure la storia recente delle ricette che i paesi ricchi hanno via via elaborato nel corso del XX secolo per risolvere i problemi dei paesi poveri, è anche la storia delle sconfitte di quegli stessi luoghi comuni di cui erano plasmati quasi tutti i progetti di modernizzazione elaborati dall’Occidente. La razionalità dell’homo oeconomicus o politicus occidentale si trova costretta a scendere a patti con logiche, identità e credenze diverse, legate a contesti culturali «altri» e «diversi», dove quei modelli
di comportamento elaborati in Europa o sono assenti o sono presenti in forme minori.
La questione dell’ineguaglianza e del sottosviluppo non è, dunque, solamente una questione che si può interpretare con il solo strumento della storia economica, magari mettendo a confronto lunghi elenchi di dati e statistiche, ma si intreccia con la storia delle scienze sociali. Nello stesso tempo, ineguaglianza e sottosviluppo sono, per definizione, concetti relativi e soggettivi, fondati sul confronto dei giudizi e pregiudizi individuali e collettivi, che insieme formano il modo di guardare alla propria esperienza e a quella degli altri. Di fronte alla scoperta dell’ineguaglianza, la «piccola» storia delle scienze statistiche si intreccia con la «grande» storia
della coscienza europea ed occidentale posta a confronto con gli «altri».
Quando, come e perché il problema dell’ineguaglianza tra paesi poveri e paesi ricchi si pone all’attenzione dei primi e dei secondi? Quale ruolo gioca il colonialismo nell'odierna realtà dei paesi in via di sviluppo? In che misura comportamenti e strategie di sopravvivenza dei poveri di tutto il mondo affondano le proprie radici in tradizioni e consuetudini ancora più antiche dell’arrivo degli occidentali? Quali sono state, nel corso del tempo, le diagnosi e le terapie contro arretratezza socioeconomica?
E come è cambiato l’atteggiamento dei paesi poveri nei confronti dell’Occidente?
Si tratta, con tutta evidenza, di domande complesse, alle quali non è facile dare risposte del tutto coerenti.
(Tratto da: “Globalizzazione” (Giunti, Firenze)
La vita quotidiana alla fine degli anni Venti
Moda e libertà
Alla metà degli anni Venti la donna si muove alla conquista di una nuova immagine di sé e di una maggiore libertà di movimento. Non è raro trovarla in atteggiamenti che in passato le erano vietati perché considerati sconvenienti: può truccarsi e fumare in pubblico, come il caso di queste quattro ragazze in costume da bagno sulla spiaggia di Aldeburgh, a Suffolk, nel 1927. Può trascorrere molto più tempo fuori di casa. La diffusione di nuovi ambiti di socializzazione, come i cafè-concert, le sale da ballo, i teatri, i clubs, i cinema, gli stadi, modifica in maniera radicale le abitudini di aggregazione, permettono la creazione di ulteriori spazi vitali, fuori dal contesto familiare. In questi scenari la donna inizia a muoversi gradualmente, nonostante in molti casi essa resti ancora esclusa e relegata a un ruolo marginale o di abbellimento. L’abbigliamento è improntato a dare un’immagine di grande dinamicità. Dopo il 1925, le gonne si accorciano al ginocchio: portate con disinvoltura, diventano il simbolo dell’aspirazione all’indipendenza. L’Europa, che da un lato guarda al benessere degli Stati Uniti, ha il suo centro in questa rivoluzione estetica in Francia. A Parigi Gabrielle Chanel, detta Coco, che già da anni proponeva l’uso dei maglioni maschili per le donne, lancia con grande scalpore la moda alla garçonne: abiti sciolti e lineari, gonne che iniziano ai fianchi, corte, ondeggianti a metà polpaccio, vita poco pronunciata, adatta a donne magre e giovani, La grande praticità di questo tipo di abbigliamento porta alla diffusione mondiale di questo modello, suggerisce l’idea di una vivace e scanzonata adolescenza, come dimostrano queste giovani donne che calcano un prato inglese quasi fosse il palco di una sfilata. Tipici i copricapi a cloche in feltro, sotto i quali la donna nasconde i capelli tagliati corti. Un autentico oggetto di culto è quello di velluto nero con striscia argentata obliqua in bella vista, ultimo capriccio del nascente cinema hollywodiano: lo Zeppelin Hat, indossato dall’attrice americana Anita Page nel film sulla storia del dirigibile Graf Zeppelin.
La nuova moda mare
Con la diffusione della moda dell’abbronzatura e delle vacanze al mare, i migliori stilisti si lanciano con fantasia nella produzione di tenute balneari originali che riscuotono un grande successo. I tre modelli distesi al sole insieme alle tre modelle portano pantaloncini da bagno firmati Jantzen. Il due pezzi nero, indossato dalla modella Simone De Maria, può essere considerato quasi un’anticipazione del bikini: calzoncini corti e attillati e un top dello stesso colore, con al centro il monogramma personalizzato del famoso Jean Patou, il sarto preferito dalla stella del cinema Louise Brooks. Patou, che ha aperto a Parigi un esclusivo atelier dedicato ai costumi da bagno, risulta un eccezionale creatore di collezioni da mare in cui ha un’importanza centrale il colore, proposto, ogni stagione, in tonalità sempre nuove (ricordiamo il Patou blue e il dark dalia, del 1929). Il costume intero di lana nera della modella con la cuffia chiara, disegnato da Helene Yvande, è invece da considerarsi un classico di questo periodo. Semplice e raffinato, il costume di tricot con strisce bianche di jersey ideato dall’irlandese Molyneux, che alle stravaganze francesi predilige uno stile più sobrio, molto apprezzato dalle donne della buona società, tanto da permettergli, dopo il 1925, l’apertura di più sedi della sua casa di moda parigina. I calzoncini e i top da uomo, i costumi interi con cintura e strisce nella parte inferiori proposti da Lucien Lelong confermano l’uso diffuso del jersey anche nella moda per il mare, nelle mises maschili come in quelle femminili, particolarmente adatto per le sue caratteristiche di praticità e di vestibilità. Sempre nel campo dei tessuti, Sonia Delaunay, moglie del pittore Robert, è la prima a presentare disegni geometrici derivanti dall’astrattismo pittorico. Il costume da bagno della modella a sinistra è confezionato in morbida seta blu, arricchita da ricami in rosso, bianco e verde, in modo da formare una serie continua di rombi colorati.
(Archivio Alinari)
Il modello di donna
Il passaggio a prodotti innovativi dal punto di vista tecnologico finisce per modificare solo in parte lo stile di vita dei ceti medio-bassi, perché trasforma soprattutto aspetti della vita meno necessari. Il consumo tecnologico, fin dagli anni Venti, diventa un esercizio di libertà, che arricchisce e migliora la vita quotidiana; ma non mancano i suoi risvolti negativi, dal momento che non è bilanciato da un’educazione e da una solida cultura. Anche le donne usufruiscono, in prima persona, dei nuovi beni di consumo, come articoli da decorazione, prodotti di bellezza, accessori domestici, ma rimangono indietro sul versante dei diritti essenziali. Nel 1926 una donna può comprare della frutta dal distributore a monete alla Stazione di Paddington a Londra; una ragazza può accendere il primo tostapane elettrico e prepararsi un toast). Una giovane e elegante signora fa una dimostrazione delle capacità della cucina a gas “New world”. Le modifiche introdotte nei consumi individuali, il fascino esercitato da altri stili di vita, come quello diffuso dal cinema americano, ampliano le vedute delle donne. Esse vivono un momento decisivo nel loro percorso di emancipazione. Specialmente nei paesi di tradizione protestante, di maggiore sviluppo capitalista e con sistema parlamentare, come la Finlandia, la Norvegia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, gli Usa, alle precedenti battaglie per il diritto di voto, si iniziano ad affiancare quelle per il divorzio, contro la legalizzazione della prostituzione, per la parità economica nel matrimonio, per l’ingresso nel mondo del lavoro. Alla metà degli anni Venti, in Italia, il fascismo scoraggia l’accesso femminile al mondo del lavoro, in particolare all’istruzione pubblica. Di pari passo vengono create delle scuole per le donne, in cui vengono istruite in tutto ciò che il regime ritiene “femminile”, ponendo le basi di una protezione costante. Nonostante ciò in Italia si riscontra una elevata percentuale (circa il 40%) di donne lavoratrici sposate, più alta di qualsiasi altro paese europeo, ad eccezione della Svezia socialdemocratica, dove però beneficiano di ampie tutele e servizi.
Grandi magazzini e tessuti sintetici
L’avvento dei materiali chimici e dei tessuti sintetici costituisce un caso pressoché unico di intenso sviluppo di un settore produttivo nuovo, ad elevata intensità di capitale e di ricerca tecnico-scientifica. Le innovazioni di prodotto e i continui miglioramenti qualitativi ne agevolano la veloce diffusione. E’ significativo che questa produzione non diminuisca neppure nelle fasi più buie della crisi mondiale, facendo segnare anzi una stabile affermazione. Intorno alla seconda metà degli Venti, calzifici, cotonifici e setifici assorbono poco meno dei due terzi della produzione mondiale di filati artificiali.
I nuovi filati artificiali iniziano ad affiancare e sostituire il cotone per certi impieghi, particolarmente nei tessuti estivi. Anche il mercato delle calzature, accanto alle classiche in cuoio e pelle, destinate ad un pubblico elitario e raffinato, come quelle esposte in una elegante vetrina della Dulcis ed osservate da questa donna, viene invaso, soprattutto negli Usa, da materiali artificiali, sintetici e chimici, come la gomma. Nel 1930 si sviluppa un vero boom delle scarpe sportive di gomma con lacci, prodotte dalla Dunlop. Sempre alla fine degli anni Venti si verifica, anche in Italia, l’influenza dei grandi magazzini nel vasto settore dell’abbigliamento. Si impone la standardizzazione dei prodotti, della qualità e della confezione, si moltiplicano le catene di negozi. La formula del prezzo unico nella vendita al dettaglio, sviluppatasi diversi anni prima negli Usa da grandi magazzini tipo Prisunix, Monoprix e Woolsworths, è principalmente rivolta verso quei clienti per i quali il prezzo rappresenta l’elemento chiave dell’acquisto. In Italia la Rinascente, così battezzata dal poeta Gabriele D’Annunzio, fonda nel 1928 la Società Upim (Unico Prezzo Italiano Milano), che apre il suo primo magazzino a Verona. In Via del Tritone a Roma, durante i lavori di pavimentazione, spicca in primo piano un grande cartellone pubblicitario dei neonati magazzini Upim.
L’automobile accelera la vita
Il più aggressivo simbolo del progresso degli anni Venti è indubbiamente la produzione delle automobili su vasta scala. Nel 1929 in Usa vi sono già 200 automobili ogni 1000 abitanti. L’automobile, per chi se la può permettere, accelera la velocità della vita, offre nuove forme di passatempo, dà libertà alla gioventù, contribuisce allo sviluppo di una moderna industria, procura lavoro a milioni di persone. Dopo aver puntato sull’aumento della velocità di rotazione, salendo al vertice di ben cinque mila giri al minuto, e sul frazionamento della cilindrata a sei e otto cilindri, per ottenere motori più equilibrati, dal 1925 le aziende costruttrici di automobili ricorrono all’arma segreta della sovralimentazione. Innestano un compressore che, comprimendo la miscela di aria e benzina, introduce ad ogni mandata una maggiore quantità di combustibile nel cilindro di quella che entrerebbe per normale aspirazione. In tal modo la potenza che si può ricavare dal motore viene considerevolmente aumentata, dando inizio all’era delle veloci auto da corsa. Mentre sotto la legge ferrea dell’industrializzazione e della concorrenza internazionale si fa più dura l’esistenza delle piccole aziende, si affaccia nel 1926 una nuova macchina da corsa, la Maserati. A Modena si comincia a parlare di Enzo Ferrari, un automobilista di razza, che dopo aver fatto parte della squadra dell’Alfa Romeo, ha lasciato il seggiolino di pilota per dedicarsi alla progettazione di macchine da corsa, con la sua Scuderia Ferrari. Di grande interesse, per le tendenze che si delineano, appare il XVIII Salone italiano del 1925. L’Itala espone il suo capolavoro: il modello 61, una creazione perfetta di raffinatezza tecnica ed estetica. L’Alfa Romeo presenta una sei cilindri 1500, che perfeziona sempre più fino a quando, nel 1930, consacra alla sua guida il pilota Nuvolari, che vince la Mille Miglia, viaggiando a una media di oltre 100 km/h. La Lancia tiene il campo con la sua Lambda. Nel 1930 la nuova automobile, spinta dal carburante miscelato, possiede due larghi cilindri sulla parte anteriore.
La nuova illusoria modernità
Negli metà degli anni Venti si consolida la convinzione che la scienza e la tecnica siano in grado di garantire a tutti sicurezza economica e benessere. Il simbolo del progresso americano è rappresentato dalla produzione su vasta scala e dalla diffusione dell’automobile che, da mezzo d’élite, diventa un bene di prima necessità, basato su un sistema tecnologico orientato alla produzione di massa. Il taylorismo, il fordismo, il sistema manageriale di Sloan, con innovazioni che riguardano il marketing, si diffondono in tutta l’industria americana, con l’espansione della produzione dei beni di consumo. S’inventano soluzioni che rendono più semplice la vita, costretta a ritmi più veloci e stressanti. Nel 1928 alcuni passeggeri salgono per la prima volta su una scala mobile, progettata da Charles Holden, nella Metropolitana di Piccadilly a Londra, da poco aperta. Il 15 ottobre 1929 viene pubblicizzata una nuova linea di rasoi elettrici, che permettono di radersi in metà del tempo impiegato abitualmente e di velocizzare così i tempi d’inizio della giornata. Nel 1930 alcuni impiegati americani pranzano in un fast-food dotato di sifoni per bevande, accanto al luogo di lavoro. L’invenzione di prodotti di consumo su vasta scala provoca però squilibri tra il mondo capitalista, che si arricchisce, e la condizione dei lavoratori nelle aziende, che peggiora. Anche in Italia, insieme alla modernizzazione che provoca un salto di qualità nell’organizzazione del lavoro, si assiste ad una dequalificazione delle mansioni, con perdita dei contenuti professionali. Nonostante l’impegno di giovani esponenti d’avanguardia del ceto imprenditoriale, come i fratelli Olivetti, che nel 1926 fondano l’Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, allo scopo di incentivare la razionalizzazione industriale, l’aumento della produttività non significa sempre ammodernamento e avanzata divisione del lavoro, ma quasi esclusivamente intensificazione del lavoro, accelerazione del ritmo produttivo, a scapito delle condizioni dei lavoratori stessi.
Il crollo di Wall Street
Tra il 24 ottobre e il 29 ottobre 1929 il mercato azionario di New York conosce il più grande crollo della storia. Un’enorme folla di operatori e risparmiatori, esperti e semplici cittadini, ferma davanti al Treasury Building, assiste incredula al crollo della Borsa di Wall Street. In una sola giornata circa 13 milioni di azioni cambiano proprietario, provocando una perdita complessiva, per l’economia americana, di nove miliardi di dollari. È il cosiddetto “Giovedì nero”. A gettare il mondo intero in una devastante fase recessiva è soprattutto il comportamento caotico degli operatori che in precedenza avevano favorito una lunga serie di profitti. Sulla scia di New York avviene il crollo delle borse europee, nonostante le limitazioni tentate dalle banche centrali, con il conseguente calo della produzione, degli investimenti, dei redditi, dei depositi bancari, la caduta dei prezzi dei beni primari, l’aumento delle giacenze nei magazzini e dei debiti. Le tariffe protezioniste soffocano il commercio internazionale. Dagli Usa all’Europa, in particolare in Germania, Austria e Inghilterra, perfino ricchi proprietari come il newyorchese Walther Thorton che vende la sua appariscente automobile per appena 100 dollari, si trovano improvvisamente di fronte ad un futuro incerto. Nel 1930 sono ancora in pochi a intravedere la gravità e la profondità della crisi, ma i 30 milioni di disoccupati degli anni successivi sono una realtà con cui le classi dirigenti occidentali non potranno fare a meno di fare i conti. Gli effetti della “depressione” del 1929 mostrano drammaticamente la vulnerabilità di un’economia di mercato senza controlli, come ammise subito l’economista inglese John Maynard Keynes. L’America mette da parte i miti ultraliberisti e inaugura l’esempio più cospicuo di dirigismo economico. Il nazionalismo economico degli anni della grande crisi apre dunque la strada in Europa, nel decennio successivo, alle esperienze totalitarie e autoritarie.
Lavorare prima e dopo la Grande Depressione
Nel febbraio 1930 le operaie dell’industria conserviera Del Monte dispongono pesche nelle cassette con la stessa cura con cui le lavoratrici di una fabbrica di Birmingham sistemano e allineano i barili di olio nel deposito. Sono due tipici scenari del processo di produzione su vastissima scala, che sta alla base dell’espansione economica degli Usa nella seconda metà degli anni Venti. Gli Usa, in questi anni, vedono crescere il loro prodotto interno lordo del 2% e diminuire l’inflazione (sotto l’1%) e la disoccupazione (3,5%). Aumentano lavoro e salari, beni e servizi, il reddito medio si incrementa del 30%. In particolare, gli immigrati forniscono all’industria la manodopera a buon mercato necessaria per il suo sviluppo, infoltendo però sensibilmente la quota del sottoproletariato urbano. Un “urbanesimo del lavoro” di eccezionale portata continua a svilupparsi a ritmo frenetico. Tutta la costa atlantica, da Boston a Washington, diventa una sola immensa città del lavoro, la cosiddetta “megalopoli”. Educazione, mobilità nel lavoro e consumi sono i pilastri della cosiddetta americanizzazione. La classe media si espande a macchia d’olio, tanto da includere sia professionisti che operai. La cosiddetta opinione pubblica, urbana e bianca, cuore del processo di massificazione dei consumi, si identifica sempre più con essa.
Pur con difficoltà e contraddizioni, anche l’Europa sembra giungere alla fine degli anni Venti in una situazione di maggiore distensione e prosperità rispetto all’inizio del decennio. Il principale problema economico è l’enorme debito creato dalla guerra. I prezzi dei prodotti diminuiscono, per l’aumento della produzione e per le politiche protezioniste, mediamente del 30 % dal 1924 al 1929. La Gran Bretagna è il paese che paga maggiormente il prezzo della competizione internazionale, diminuendo la quota del commercio, della produzione e del consumo nei settori tessile, carbonifero e dell’acciaio. In Francia, invece, la produzione di automobili e di elettricità aumenta sensibilmente dal 1925 al 1929, a dimostrazione di una generale stabilità economica differenziata e ancora precaria.
La vittima più grande della crisi finanziaria del 1929 è certamente il mondo dei lavoratori. Accanto alla disoccupazione, che colpisce indiscriminatamente operai, impiegati, soprattutto giovani, e che si prolunga per anni, cresce la miseria diffusa in città e nelle campagne, diminuisce sostanzialmente dappertutto il livello della vita. Peggiora la salute, aumentano la mortalità e la sottonutrizione infantile. I quattro bambini ossuti che divorano le pannocchie di granturco accovacciati ai piedi di una strada polverosa in periferia non sono che una delle tante scene di ordinaria miseria in cui cade la contraddizione della ricca civiltà occidentale. Negli Usa crescono coloro che perdono la proprietà e l’impiego. Le donne sono le prime ad essere licenziate e a cercare di sbarcare il lunario con improvvisati mezzi, come questa donna e le sue mele. La Germania è, insieme agli Usa, il paese che soffre la maggiore disoccupazione a seguito della crisi, fino a raggiungere il 22% della popolazione attiva nel 1930. Ad essere colpiti in modo massiccio sono gli agricoltori, che riducono di un terzo il reddito medio. Negli Usa i sindacati riuniti nella AFL, American Federation of Labor, erano unioni locali di operai specializzati, la loro era una politica di collaborazione di classe volta ad ottenere dai datori di lavoro paghe decenti. Solo nel 1929, parallelamente al crollo della Borsa, si forma un nuovo gruppo di associazioni sindacali più combattive, la TUUL, Trade Union Unity League, distaccatasi dall’AFL, fondata soprattutto attraverso il volontariato degli iscritti. In Inghilterra, già dopo lo sciopero nazionale del 1926, come negli Usa, in particolare dopo il 1929, nascono uffici di assistenza contro la disoccupazione generalizzata. L’occidentalismo che aveva mostrato la sua incapacità a mantenere politicamente la pace e l’equilibrio in Europa nel primo ventennio del secolo, al termine degli anni Venti si rivela impotente anche nel controllo della crisi economica e finanzaria.
La società del lavoro: il vecchio e il nuovo
Il paradosso americano ed europeo della fine degli anni Venti, che dopo la Grande Crisi si accentua ancora, è che mentre gli aspetti meno essenziali, gli usi e i costumi sono largamente mutati, la struttura della società non è cambiata gran che. Anche se durante il boom economico si dice che le vecchie distinzioni di classe sono ormai scomparse col sorgere di una grande classe media, e che i problemi quotidiani di lavoro e ingiustizia sociale sono dissolti con la diffusione del cinema, degli apparecchi radio, delle automobili, della nuova scienza e tecnica, la povertà non è scomparsa, anzi. Al di là degli ottimismi e delle mitologie psicologiche, i mutamenti veri nelle strutture sociali e lavorative sono del tutto trascurabili. Il mondo del lavoro è composto, in maggioranza, da individui senza alcuna qualifica e in certi settori, come l’edilizia, da immigrati. Aumentano gli impiegati, i cosiddetti colletti bianchi, ma a prezzo di una crescente dequalificazione di massa. I datori di lavoro sono sempre gli stessi, i lavoratori rimangono lavoratori, gli stipendi sono mutati appena, mentre cresce il numero di coloro che vivono non in attesa di una busta paga, ma di lavori saltuari. Le differenze di classe in Usa, ma anche in Europa, in questi anni, non solo rimangono forti, ma si cristallizzano in differenze di casta. I ricchi sono pochi, e quei pochi lo sono così tanto che la loro stessa ricchezza li rende lontani dalla maggioranza, che soffre le conseguenze di una crisi messa in moto dall’essenza stessa del capitalismo. Nel settembre 1930 non è improbabile trovare un assistente di un qualsiasi ufficio di collocamento in Snow Hill a Londra, intento a prestare aiuto a un colletto bianco, o un disoccupato a Los Angeles, in California, che riceve una piatto di zuppa e qualche fetta di pane in un distribuzione all’aperto durante la Grande Depressione. Il nuovo e diverso mondo della fine degli anni Venti non è poi così cambiato.
Al Capone e l’era del proibizionismo
Il proibizionismo in Usa rappresenta uno degli esempi più significativi della contraddizione tra aspettative di libertà e realtà. Il Volstead Act, approvato nel 1920, considera intossicanti le bevande con oltre lo 0.5% di alcool e, nonostante lo sforzo dello Stato che istruisce procedimenti penali, sequestra milioni di bottiglie di birra e whisky, distrugge gli apparecchi di distillazione illegali, alla fine, complice l’inefficenza e la corruzione generalizzata della polizia e dei giudici, riesce essere costantemente aggirato.
Al Capone, figlio di emigranti di origine partenopea, dal 1925 trasforma Chicago nel più noto centro di contrabbando d’alcool e di armi d’America. Giunto ai vertici della criminalità organizzata, tra il 1927 e il 1928, sposta il suo quartier generale all’Hotel Lexington, che diventa sede e motore di una organizzazione illegale che gli frutta oltre 100 milioni di dollari l’anno, con le attività legate alla “protezione”. Guadagni che iniziano ad attirare l’interesse degli uffici dell’FBI che si occupano di frode fiscale. Il 14 febbraio 1929 Capone provoca la nota strage di San Valentino, sbarazzandosi in un sol colpo della banda rivale degli irlandesi, crivellati da centinaia di colpi davanti al muro di un piccolo garage di periferia. Tra le vittime della strage, oltre a Moran e O’Banion, anche uno dei fratelli Gusenberg, la cui bara, di fronte a una folla di “fedelissimi”, viene trasportata dalla cappella al cimitero cittadino. Lo stato americano, fiancheggiato dall’appoggio delle classi legate a valori tradizionali, protestanti-anglosassoni e puritani, finisce per peggiorare i rapporti tra minoranze e maggioranza bianca nella società civile. Il gangster Al Capone, sfruttando una legge sostanzialmente diretta contro gli immigrati e i neri, accusati di favorire la degradazione fisica e morale attraverso l’abuso di alcool, diviene il paladino del libero mercato americano. Il 18 novembre 1930 poveri lavoratori americani usufruiscono di una scodella di zuppa nella cucina di un locale di Al Capone alla 935 State Street.
Tratto da: “La grande storia del Novecento. L’immagine di un secolo” (A. Mondadori, Milano)
Caso Moro. Frammenti di una verità indicibile
Fermarci a capire cosa sta dietro la fine di Aldo Moro può aiutarci a riflettere, come ha ricordato Giovanni Moro, sui cosiddetti “fantasmi” degli anni settanta. Cinque processi e due commissioni parlamentari di inchiesta non sono riusciti a fornire risultati significativi per ricostruire la complessiva dinamica del sequestro e dell’uccisione di Moro. Tuttavia, anche la maniera in cui la storiografia ha affrontato, salvo rari casi, la vicenda, senza riuscire a fornirne una credibile interpretazione politica complessiva che tenga conto del macronodo relativo ai rapporti tra la dimensione nazionale e internazionale, è emblematica della difficoltà nell’affrontare la lunga crisi degli anni settanta e
i veri motivi della fine della prima repubblica.
Se si vuole cominciare a consegnare ai posteri, con un minimo di credibilità, la vicenda di Moro, sicuramente la più drammatica della storia repubblicana, occorre riportare in primo piano il confronto ravvicinato con la documentazione contemporanea all’avvenimento (soprattutto le lettere e i documenti di Moro), intrecciandola con le testimonianze successive dei suoi più importanti protagonisti, in modo da far emergere tutta la complessità della questione.
A dispetto dei facili slogan, una cosa appare chiara: le Br furono, per loro stessa ammissione, gli esecutori materiali della condanna a morte di Moro, ma non gli unici a provocarla. A suffragare questa affermazione sono giunte, a venti e trenta anni di distanza da quel fatidico 9 maggio 1978, due aperte ammissioni di co-responsabilità: la prima di Francesco Cossiga, allora ministro degli Interni, che in un articolo del 1998 ha affermato di aver “concorso, sul piano dei fatti, alla morte di Moro”; la seconda, avanzata da Steve R. Pieczenik, perito americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, che, in un volume del 2008, ha sostenuto di aver contribuito all’uccisione di Moro. Più nel dettaglio, Pieczenik ha affermato che la sua missione in Italia, durante la vicenda, volta al recupero di eventuali documenti che potessero mettere in pericolo il segreto di Stato in Italia (e lo stretto legame del nostro paese con la Nato), prevedeva il mantenimento in vita dell’ostaggio; tuttavia, dopo le affermazioni di Moro e il tono delle sue lettere dalla prigionia, egli si rese conto che non poteva esserci più alcuna volontà da parte del governo e della Dc di salvargli la vita e quindi fu indotto ad avallarne l’estremo sacrificio.
Detto questo, nonostante le rivelazioni di illustri testimoni e le dichiarazioni dei brigatisti, come si capisce bene, il quadro è apparso sempre molto più complesso e diversificato di quanto non ci inducano a pensare i crudi e singoli fatti appurati. L’immagine più calzante sembra averla data uno dei più stretti collaboratori di Moro, Corrado Guerzoni: “Ė come quando si getta un sasso in un lago. Il sasso va subito a fondo, in superficie si formano dei cerchi concentrici, ognuno dei quali ha un forma e una vita sue proprie”. A rileggere gli eventi, sulla base di documenti, carte, lettere, rivelazioni, audizioni, articoli, emerge tutta la complessità della vicenda, che però si potrebbe sintetizzare (senza voler apparire semplicistici, e a patto di poter argomentare con cura gli intrecci degli eventi) in questi termini: Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Br, ma in accordo, di fatto, con i suoi nemici interni – al governo e non, dentro le istituzioni e non – e con i nemici internazionali della sua politica. Sembra, infatti, alquanto azzeccato per questa tragica storia, il titolo, che fu già di un famoso romanzo, Cronaca di una morte annunciata.
Vediamo allora chi furono, protagonista per protagonista, questi nemici o comunque “finti amici” di Moro, con l’ausilio della documentazione finora in nostro possesso, provando a intrecciare i tanti elementi utili forniti dai volumi pubblicati in questi circa trent’anni, che evidentemente non sono stati finora collegati e letti in maniera tale da poter fornire un’interpretazione unitaria della vicenda o anche solo da riuscire a far emergere tutti gli aspetti più ambigui e, come tali, inquietanti di questa storia. Va tenuto presente infatti che dove i risultati di una commissione di inchiesta e di indagine non potranno mai giungere, per ragioni tecniche ma anche politiche, può invece arrivare l’analisi storiografica e la riflessione intellettuale, quanto più possibile distaccata dai risvolti direttamente ideologici di quei fatti [...]
(Tratto da: “Italia contemporanea”, n. 255)
(Fonte Internet)
Radici storiche della rifondazione comunista
A qualcuno potrà anche sembrare strano ma a parlare per la prima volta di «rifondazione comunista» non fu nè Cossutta, nè Garavini, nè, tanto meno, Bertinotti. E non si era neppure nel famoso 1991, bensì nel lontanissimo 1973. E' la storia che ci viene in soccorso.
«Esistono le condizioni oggettive e le potenzialità soggettive, dentro e fuori le organizzazioni riformiste,
per riproporsi con fiducia l'obiettivo della rifondazione di una forza comunista»
(Il Ponte, 30 giugno 1973, p. 740).
Questa proposta fu avanzata da Luciana Castellina, in un momento molto critico, almeno dal punto di vista elettorale, per i movimenti che dopo la contestazione studentesca, il dissenso religioso e l'autunno operaio, si erano distaccati dal Pci, dando vita prima al Manifesto e poi al Pdup. Se da un lato i risultati elettorali sembravano premiare pragmaticamente, negli anni dal 1972 al 1976, il bipolarismo Dc-Pci, piegando i cosiddetti «opposti estremismi» (almeno se si eccettua il sussulto elettorale del Msi che raggiunse addirittura l'8%, poi però subito ridimensionato), non si può non cogliere tutta la lungimiranza ideale dell'analisi svolta dalla Castellina, in un momento di grave crisi economica internazionale e nazionale, che vedeva, in parallelo, il rilancio della distensione tra Nixon e Breznev, la sbandierata (ma non reale) fine della guerra in Vietnam, la battuta d'arresto della rivoluzione cinese, le difficoltà delle lotte di liberazione nel terzo mondo; e, in ambito italiano, l'acuirsi dell'instabilità politica, della strategia della tensione e le prime avvisaglie delle azioni terroristiche dei brigatisti rossi. La critica della Castellina si incentrava sul mancato radicalismo dell'opposizione svolta dal Pci di Berlinguer ai vari governi democristiani, da Leone ad Andreotti fino a Rumor, che aveva sostanzialmente portato, a suo avviso, alla riorganizzazione intransigente democristiana sotto le bandiere di Fanfani e della battaglia antidivorzista; e poi sulla perenne crisi «attendista» dei socialisti. Si tratta di due elementi che, secondo la Castellina, davanti alle incertezze di un'opposizione così impoverita di contenuti, avrebbero apparecchiato una sostanziale svolta a destra del paese. Per questo motivo, proseguiva, si imponeva l'urgenza di costruire uno schieramento unitario, capace di una «lunga marcia» attraverso la crisi del sistema, di una «nuova opposizione» che doveva comprendere i movimenti che avevano contribuito a porre nuove problematiche, dal Sessantotto in poi, e che si apprestavano a serrare le fila per la battaglia sul divorzio, ma anche «una parte almeno delle forze tuttora interne al quadro riformista». Si trattava di una proposta che andava, almeno nelle intenzioni della Castellina, ben oltre l'unificazione tra il Manifesto e il Pdup, ma che doveva rappresentare la confluenza dei due filoni autentici del movimento operaio italiano, quello marxista ortodosso comunista e quello socialista e libertario, a cui si potevano aggiungere anche quelle forze cattoliche, sostanzialmente antisistema, che si apprestavano a combattere insieme alle forze laiche la battaglia sul divorzio, dopo i primi distacchi da parte delle comunità di base dalle posizioni chiuse e bigotte delle gerarchie ecclesiastiche in materia di autonomia ai laici, di anticoncezionali, di democrazia all'interno della Chiesa, e in contemporanea alla nascita dei Cristiani per il socialismo.
(Archivio Alinari)
Non è casuale, dunque, che ciò accadeva proprio durante la grande crisi dell'Italia repubblicana degli anni Settanta, a cavallo tra le importanti vittorie sui diritti civili, dal divorzio all'aborto, e che la proposta provenisse proprio da una personalità di grande doti intellettuali come la Castellina, che sarebbe stata capace, così come era stata un tempo, di staccarsi dal Pci, anche di ritornarci proprio nel momento apparentemente più difficile, nel 1984, con la morte di Berlinguer (ma anche convinta sostenitrice dell'esperimento dell'apporto originale e «unitario» degli indipendenti di sinistra). Non è un caso, dunque, che quella proposta cadeva in quel cruciale momento storico, in cui si celano le chiavi di lettura più significative per capire molte delle scelte della politica italiana degli anni a venire, e ben prima della fine del comunismo sovietico e della crisi della prima repubblica, con il cambio del nome del Pci in Pds e le successive vicende che diedero vita alla nascita di Rifondazione comunista. Forse la successiva crisi del movimento dei lavoratori negli anni Ottanta, dopo le grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali della società italiana, potrebbe essere imputata proprio alla mancata realizzazione della prospettiva auspicata dalla Castellina, in alternativa a quella che definiva «l’inadeguatezza della strategia del compromesso storico nel garantire un processo di trasformazione dei meccanismi statali e capitalistici». Ogni tanto sarebbe bene dare la parola all'analisi storica per capire il senso e l'ampiezza di prospettive di certe idee che si ripropongono oggi in contesti e in situazioni solo apparentemente diversi.
(Tratto da: “il manifesto”)
Veltroni, la laicità e i santi in paradiso
Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.
(Tratto da: “Diario della settimana”)
Vincono i no sulla 194 e l'ergastolo. Gli italiani chiedono maggiore sicurezza
Dopo l’entrata in vigore della legge, a detta della stampa laica pareva avesse avuto inizio l’era della libera civiltà, mentre da parte cattolica sembrava fosse iniziata l’epoca dell’anarchia più sfrenata. Ma a parte i soliti eccessi verbali, si trattava, piuttosto, di fare in modo che le procedure previste dalla legge venissero applicate, subito e nel migliore dei modi, dagli enti locali e dalle Regioni. In effetti, la legge era stata approvata in un'atmosfera molto tesa, con un Paese che sembrava quasi non accorgersene, preso com’era dal sequestro, dall'uccisione di Moro e dalla crisi economica (che aveva visto, dopo l’instaurazione del doppio sistema del cambio, l’aumento dei prezzi, la svalutazione della lira, la costante crescita dell’inflazione), scosso, di lì a poco, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Leone, e dalla morte di ben due Papi, con l’elezione di Giovanni Paolo II.
Iniziava così, a partire dal 1979, tutta una serie di attacchi alla legge “194”, da parte del mondo cattolico quanto dei radicali, che lasciava presagire che la battaglia sull'aborto si sarebbe rilevata molto più dura e lunga del previsto.
Agli inizi del 1980, alcuni dati, a livello europeo e mondiale, apparivano però incontrovertibili. La Francia, che aveva messo in prova per cinque anni la sua legge del 1974, l'aveva resa definitiva perché l'esperienza passata dimostrava che, con le garanzie sanitarie, il tasso di complicazioni relative agli aborti era diminuito di più del 50%, ed era sparito quasi del tutto quello di mortalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, ben trenta paesi avevano introdotto la legalizzazione dell’aborto: dal Regno Unito (1967) alla Danimarca (giugno 1973), dalla Repubblica Federale tedesca (giugno 1976) all’Italia (giugno 1978). Nella Comunità europea rimanevano ancora legati a leggi restrittive sull’aborto solamente il Belgio e l’Irlanda, mentre perfino le “cattolicissime” nazioni, Spagna e Portogallo, avevano posto la questione all’ordine del giorno. Secondo le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano comunque quasi 50 milioni, ogni anno, gli aborti nel mondo, almeno 20 milioni dei quali clandestini. Malgrado questa cifra impressionante, alla fine del 1979, l’aborto non occupava più il primo posto, ma il terzo, come strumento di controllo delle nascite, dopo la sterilizzazione volontaria e la contraccezione (il problema assumeva però dimensioni catastrofiche in tutti quei paesi dove, per motivi religiosi o legislativi, l’aborto non era sotto controllo medico,
in particolare in America Latina, nel Medio e nell'Estremo Oriente).
Alla fine del 1980, si profilava il successo della raccolta di firme per un referendum contro la legge, messa in atto da parte dell'Mpv, con ben due milioni di consensi, espressione della protesta popolare del mondo cattolico. Il primo referendum dei cattolici intransigenti, quello “massimale”, richiedeva il divieto di aborto in generale, ad eccezione del pericolo di vita per la madre. In questo caso le obiezioni del fronte opposto si incentravano sul rischio del cosiddetto vuoto legislativo. Per questa ragione l'Mpv aveva presentato una seconda proposta di referendum, “minimale”, che proponeva non la soppressione ma la riduzione del diritto d’aborto (art. 4,5 e parzialmente del 6 della legge). Anche in questo modo veniva comunque azzerata la legge “194” nell’autodeterminazione della donna e si ammetteva soltanto l’aborto terapeutico, stabilito dal medico, prevedendo un ritorno alla legislazione precedente. Esisteva però, sul fronte opposto, una richiesta di referendum da parte dei radicali, che mirava a raggiungere la piena liberalizzazione dell’aborto, mentre da parte socialista, il deputato Fortuna segnalava quelle che gli parevano due delle carenze più gravi della legge: il problema delle minorenni che potevano abortire esclusivamente col consenso del padre o del giudice tutelare, e l’esclusione della possibilità di abortire nelle case di cura private.
La questione dell’aborto, che aveva sviluppato un vasto dibattito tra i partiti e nella Chiesa, in prossimità della data del referendum, diventava un tema sempre più appassionato di discussione nella società civile, sentito, per ovvie ragioni, in particolare dal movimento delle donne. Il movimento femminista era andato incontro ad una sostanziale modificazione: dalla prima fase più estremista, era passato, gradualmente, ad una seconda fase, più meditata, di radicamento culturale nella società, deciso a difendere la legge e a migliorarla, senza però farsi intrappolare nello schema riduttivo del “si o no”. Dall'unità di intenti di questi gruppi della società, dei partiti politici della sinistra tradizionale e dei cattolici democratici indipendenti, sarebbe nata la mobilitazione
a favore del mantenimento della legge durante la campagna referendaria.
(Archivio Alinari)
Intanto, dopo la discesa in campo di Papa Wojtyla contro la legge, si incrementavano gli appelli dei vescovi, delle parrocchie (molti parroci tenevano discorsi non solo dai pulpiti, ma addirittura dai palchi predisposti nelle piazze) e delle organizzazioni cattoliche per il “sì”. Nel Sud d'Italia si moltiplicavano le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum proposto dall'Mpv; in qualche caso estremo, anche la statua del santo patrono sfilava incoronata da un cartello con su scritto “Vota sì”.
I risultati del referendum del 17-18 maggio 1981, preceduto dall'attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche), furono netti: il “no” contro la proposta radicale di revisione della legge ottenne l’88,5%,
mentre quello contro la proposta dell'Mpv raggiunse il 67,9%.
I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della secolarizzazione della società italiana. Gli italiani avevano votato contro le tentate imposizioni della Chiesa su un argomento di così rilevante carica morale e civile. Non solo era stata messa in gioco, dopo la precedente sconfitta sul divorzio, l’incidenza politica della Chiesa in Italia, ma la sua stessa influenza culturale. Colpiva, infatti, la quasi coincidenza tra le percentuali provvisorie dei “sì”, intorno al 30%, e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale che, dal 69% del 1950, erano calati al 28% circa del 1980. L’opinione pubblica aveva rivelato, inoltre, una notevole misura di autonomia dai partiti, a fronte di un loro eccessivo coinvolgimento, con forme visibili di politicizzazione, durante la campagna referendaria.
Il voto non era solo la conseguenza di un'affermazione di libertà, pluralismo e autodeterminazione, ma poteva essere letto anche come motivo di preoccupazione per l'indifferenza che toccava non solo la sensibilità religiosa, ma anche quella civile. Una chiara contraddizione era infatti la contemporanea vittoria del “no” all’abrogazione dell’istituto dell’ergastolo. Se davvero il referendum sull’aborto avesse avuto quelle motivazioni culturali e civili che i vincitori gli avevano attribuito, la vittoria avrebbe dovuto essere accompagnata dall’abrogazione dell’ergastolo e non dalla sua conservazione a schiacciante maggioranza. Per la verità, l’appoggio popolare alla possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell’ergastolo contro i delitti più gravi rappresentavano una crescente richiesta di sicurezza da parte degli italiani, che dimostravano il disinteresse verso problemi morali e di principio, e mettevano in evidenza sempre più quel “vuoto etico” verso il quale il recente processo di secolarizzazione, pur benefico e positivo per certi punti di vista, aveva spinto il Paese.
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194
La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceità dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrità e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.
(Archivio Alinari)
La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione più aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.
Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la più autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenità e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era più perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava così il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
La biografia politica di De Gasperi
Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.
- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.
(Archivio Fondazione De Gasperi)
- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilità di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].
- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.
- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).
(Tratto da: “Passato e Presente”, n. 78)
Di Nola, l'antropologia e le religioni
Riproporre le idee di Alfonso Di Nola a dieci anni dalla sua morte, è un modo utile per affrontare seriamente, e in maniera profondamente laica, lo studio del fenomeno religioso, superando due imperdonabili errori in cui troppo spesso si cade: la manipolazione dei dati sul mondo religioso, attuata in primo luogo dalla chiesa cattolica e messa in atto per dimostrare la superiorità del cristianesimo; la scorretta angolatura da cui esso si osserva, ovvero la proliferazione dei pregiudizi sulle altre religioni che si acquisiscono con l'insegnamento nelle scuole italiane e la parallela banalizzazione svolta, molto spesso, da alcuni giornali e dai media. In Italia, ancora oggi, malgrado la grande scuola facente capo (con tutte le differenze del caso) a Raffaele Pettazzoni, Ernesto
De Martino e, appunto, di Di Nola, è sottovalutata,
per non dire ignorata, l'antropologia religiosa.
L'antropologia religiosa è un metodo di studio della religione che tiene conto della sua interazione con il mondo e dei molteplici contesti culturali, quindi anche politici ed economici, in sui essa si manifesta. Secondo Di Nola infatti attraverso la religione «l'uomo esprime e supera la sua fondamentale angoscia esistenziale ed economica attraverso meccanismi che egli stesso crea per sopravvivere e per evitare il crollo nella non-storia» (A. Di Nola, Antropologia religiosa, p. 14). Si tratta, con un contributo di indubbia originalità, di qualcosa di simile a ciò che De Martino chiamava «crisi di presenza», quando cioè tutto avviene come se l'uomo non ci fosse. La religione vista come un modo, messo in atto da parte dell'uomo, per dominare la sua angoscia esistenziale.
In una recensione al libro di Di Nola Antropologia religiosa, Pier Paolo Pasolini scriveva: «L'insegnamento antropologico ha aiutato a vincere e a vanificare la grave tara etnocentrica e culturocentrica e, nella fattispecie, la "violenza immorale" (in Italia) del neo-idealismo e del crocianesimo, che portano alla negazione della comprensione di ogni uomo (non occidentale) come portatore diversità e di alienità» (P. Pasolini, Alfonso Di Nola. Antropologia religiosa, in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, vol. 2, Mondadori, Milano 1999, p. 2135).
Non è un aspetto da sottovalutare e soprattutto, per il periodo in cui veniva individuato, appare davvero lungimirante. L'antropologia culturale e religiosa, secondo l'accezione data da Di Nola, consente dunque di riconoscere il diritto di cittadinanza all'interno della storia a quegli uomini "diversi" dalla cultura occidentale che vivono la propria vita secondo esperienze differenti da quelle nostre. Ogni espressione religiosa, ogni rappresentazione mitica e ogni comportamento rituale si sono presentati come fondati su elementi reali, su quella realtà che una cultura presume come tale: «il che consente di qualificare vere, culturalmente vere, tutte le religioni ed educa ad evitare la costruzione di scale mistificatorie di valori di maggiore o minore verità all'interno di esse» (A. Di Nola, Antropologia religiosa, pp. 16-18). Al fondo di questo ragionamento, decisivo, oggi più che mai, per il dialogo tra le diverse religioni nel mondo, sta l'idea che ogni esperienza religiosa è culturalmente reale, vera, ed ha diritto di pari cittadinanza nel mondo. Prima o poi la cultura italiana italiana dovrà chiarire quanta riconoscenza l'antropologia culturale deve
attribuire ad Alfonso Di Nola [...]
(Archivio Fondazione Di Nola)
D'altra parte non è affatto facile raccogliere l'eredità di Di Nola: per lui il confine tra storia delle religioni e antropologia era estremamente labile, il che fa storcere il naso ai seguaci degli specialismi e, più in genrale, al mondo accademico. Lo studioso gragnanese sostiene, infatti, proprio nell'introduzione generale all'Enciclopedia: «Le strutture religiose sono state analizzate nella loro dinamica di rapporto con tutte le componenti umane cui appartengono, al di fuori di ogni schematizzazione precostituita: respingendo la prospettiva che isola la vita religiosa in una sua presunta autonomia assoluta». Si capisce subito quanto sia difficile rinchiudere in uno spazio disciplinare specifico un'opera e una personalità, a dir poco complessa e duttile, tendente all'eclettismo, come quella di Alfonso Maria Di Nola. Approdato dal marxismo critico allo studio della psicanalisi, poi all'illuminismo laico e intransigente, passando per l'incontro con Croce, le lotte sindacali al fianco dei preti operai francesi e la condanna di Pio XII, negli anni Settanta Di Nola divenne Professore di Storia delle Religioni e Antropologia culturale prima all'Università di Arezzo, poi all'Istituto Orientale di Napoli e, infine, all'Università di Roma. Nelle sue opere traspare tutta la sua versatilità di interessi. In La morte trionfata e La Nera Signora tratteggia due grandi affreschi sul lutto; in Lo Specchio e l'olio descrive e analizza le superstizioni degli italiani, con rigore scientifico misto a sferzante ironia, sovvertendo i tradizionali giudizi sulla loro negatività, e da lui definite, piuttosto, "rassicuranti", "innocue" e "positive"; nel saggio Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana ricostruisce, gramscianamente, il rapporto tra cultura cattolica dominante e cultura popolare, scoprendo, per esempio, che in Toscana andavano dalle maghe anche operai di buon reddito, da sempre iscritti al Pci; in L'inchiesta sul diavolo ricostruisce le vicende di Satana e la sua universale e malefica presenza presso tutte le religioni e i popoli dall'antichità ai nostri giorni, come personificazione del Male.
Di Nola fu soprattutto un maestro di laicità, libero pensatore in un paese come l'Italia dove l'egemonismo cattolico più intransigente si sente unico interprete dei problemi religiosi. Viene da chiedersi: per quanto tempo ancora?
(Estratto da: “Il Ponte”, n. 5-6)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)
La democrazia alla prova
Non si tratta di una biografia. È piuttosto la ricostruzione di una vicenda che intreccia mondo cattolico e mondo laico nel secondo dopoguerra. In mezzo a questi due mondi si colloca Gozzini, ma non solo. Personalità politiche, intellettuali, religiose di rilevanza nazionale sono gli indiscussi protagonisti del volume, che intende ripercorrere le tappe cruciali del dialogo tra i settori più avanzati del mondo cattolico, socialista e comunista, nella storia dell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ci si avvale di una documentazione completamente inedita, di lettere di importanti personaggi del Novecento italiano: da Turoldo, Milani e Mazzolari a Balbo, La Pira, Ossicini, Pistelli e Balducci; da Ingrao e Lombardo Radice a Longo e Berlinguer, fino a Parri, Enriques Agnoletti, Anderlini, Antonicelli e tanti altri. Il periodo cruciale della questione del dialogo si colloca nel quinquennio 1963-1967, in cui avvennero alcuni incontri decisivi tra dirigenti politici comunisti e socialisti, intellettuali cattolici e alte cariche religiose, che alimentarono un vasto movimento di idee che ha ben poco a che vedere con il successivo compromesso storico tra DC e PCI, negli anni della “solidarietà nazionale”. Fu piuttosto un vivo confronto tra personalità indipendenti e laiche, ex azionisti, comunisti, cattolici, socialisti e gruppi spontanei, uniti nella critica all’esperienza politica del centro-sinistra. Un dialogo che fu inizialmente segreto ma che divenne pubblico, maturato, culturalmente, nella
vicenda del “dialogo alla prova” e, concretizzatosi politicamente, anche se solo in parte, nella nascita del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente. Una convergenza nata sulle solide e sperimentate basi dell’antifascismo, accantonata dopo il varo della Costituzione della Repubblica e rilanciata circa venti anni dopo, nel 1967.
Tutto sarebbe rimasto nel chiuso dei circoli culturali, delle parole forbite di alcuni intellettuali, apparse su riviste più o meno note, se non fossero intervenuti due fattori determinanti: l’irrompere delle esperienze della contestazione, del dissenso religioso, dell’“autunno caldo”; e l’intervento del maggiore partito della sinistra italiana, il PCI, o almeno di una parte dei suoi vertici dirigenti. Ciò permise di dare concretezza a una non piccola rivoluzione: portare in Parlamento, per la prima volta, grazie alla spinta propulsiva della Sinistra indipendente, problemi
di grande portata culturale e politica che coinvolsero in prima persona tutta la società civile, e non solo, grazie all’istituto referendario sostenuto dalle sinistre radicali.
Questa democratica rivoluzione nella legalità contribuì a rinsaldare, in un difficile momento storico per la società, negli anni dell’eversione nera e del terrorismo brigatista, il vincolo dell’antifascismo culturale tra cattolici, comunisti, socialisti e indipendenti, che, così come aveva permesso di sconfiggere il regime fascista, sancì la fine della strategia della tensione,
mettendo letteralmente alla prova la democrazia italiana.
Pasolini disse che la Resistenza e il movimento studentesco furono «le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto» (Il Caos, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 41). È una valutazione polemica che si può condividere, a patto di non sottovalutare il significato anticipatore delle idee conciliari nel mondo cattolico, il proseguimento della tensione utopica nel mondo
laico, svolto dal “dialogo alla prova”, e la saldatura del legame antifascista, messa in atto dalla nascita della Sinistra indipendente.
(Archivio di “Red” Giorgetti)
Il volume, oltre a chiarire gli episodi che videro protagoniste le maggiori forze politiche e le componenti della società italiana, intende analizzare anche alcune vicende che fanno solo apparentemente da sfondo a decisioni più direttamente politiche: il mondo delle avanguardie cattoliche e laiche, le riviste e i movimenti d’opinione, alcune singole personalità, meno note, che ebbero invece un ruolo
rilevante in occasione di cruciali momenti della storia d’Italia; dalle elezioni del 18 aprile e l’affermarsi, anche in Italia, della guerra fredda, al XX Congresso del PCUS, che riaccese gli entusiasmi per una “via italiana al socialismo”; dalla crisi del centro-
sinistra e dalla rinascita spirituale del Concilio Vaticano II al Sessantotto e al dissenso religioso.
Attraverso l’ausilio delle lettere, dei manoscritti, degli appunti dei protagonisti, uniti all’esame delle più importanti riviste d’avanguardia cattolica, della pubblicistica comunista e socialista, e dei quotidiani più diffusi, ricostruire una vicenda intellettuale
come quella di Gozzini significa ripercorrere più di una stagione del movimento cattolico fiorentino e nazionale, di un cattolicesimo nascosto, non ancora del dissenso (anzi, che da questo tendeva a differenziarsi proprio nel momento in cui si manifestava), ma già cosciente della profonda crisi in atto nella Chiesa e del rischio che implicava per tutta la società, non solo per i credenti, la perdita di credibilità di un
discorso cristiano strumentalizzato dal potere politico. Un cattolicesimo consapevole anche del rischio di integralismo dovuto a quella visione totalizzante che comportava l’obbligatorietà dell’unità politica di tutti i cattolici. Viene fuori con chiarezza il ruolo
decisivo che ebbero alcuni intellettuali cattolici nella proposta di un rapporto tra società e Chiesa che in parte anticipò e che sicuramente contribuì agli sviluppi conciliari, senza nulla togliere al significato innovatore del papato giovanneo.
Ma significa anche entrare dentro il mondo comunista e socialista, nelle sue diverse sfaccettature, per verificarne le basi di pluralismo, di apertura a un discorso volto al superamento di una visione ideologica, spesso integralista e totalizzante; e, specialmente dopo il 1956, chiarire quali furono le sue correnti più movimentiste, i suoi protagonisti più avvertiti, che, in qualche modo, anticiparono certe dinamiche
avanzate e moderne della odierna sinistra progressista. Appare qui evidente l’inconsistenza della tesi che vorrebbe relegare a un ruolo marginale, al rango di «utili idioti», quel gruppo di intellettuali che diede vita alla Sinistra indipendente, il quale ebbe invece una grande rilevanza non solo in molte vicende interne allo stesso PCI ma, soprattutto,
nel dare inizio a un rapporto più aperto e pluralista tra politica e società civile.
Significa infine affrontare il rapporto tra cultura e politica, tra intellettuali e partiti, in particolare attraverso le vicende di quegli indipendenti, provenienti da varie matrici culturali, giellisti, ex azionisti, liberaldemocratici, social-democratici, accomunati dall’esperienza della Resistenza e dell’antifascismo, che aderirono all’appello di Ferruccio Parri. Questi accettarono, nel 1968, la proposta del Partito comunista
italiano di mettere a disposizione le proprie liste per la creazione di una formazione politica completamente indipendente, che rappresentò il primo e unico esperimento politico in Europa di questo tipo (che ha ben poco a che vedere con l’esperienza dei fronti popolari o della federazione unitaria), e che prese il nome, appunto, di Sinistra indipendente. Anche sotto il profilo della storia dei movimenti politici e delle forze intellettuali, oltre che dal punto di vista della storia sociale, il Sessantotto
si conferma ancora una volta un momento essenziale e decisivo di cesura.
È una storia, complessivamente, non unitaria, di difficile ricostruzione, di cui si devono delineare ancora le tappe, fatta di percorsi individuali. Piccoli gruppi e riviste, interessanti non solo come capitolo dell’organizzazione della cultura italiana e per la
riflessione sui rapporti tra fede, Chiesa e società civile che hanno svolto un utilissimo ruolo di “cerniera” con la politica, pur non essendo direttamente legati ad essa, anticipando e portando a maturazione importanti battaglie civili successive.
Il periodo cronologico della ricerca si chiude agli inizi degli anni Settanta, che coincidono, nella trattazione, con la preparazione della prima vera battaglia parlamentare della Sinistra indipendente, che spaccò in due il paese su un tema di grande portata civile: il divorzio. Anni che rappresentano anche l’inizio della tensione civile, del brigatismo e del compromesso storico, tutti eventi che necessitano di
precise ma diverse chiavi di lettura, per una società completamente mutata.
L’idea del volume è nata dallo sfoglio delle carte Gozzini, depositate presso l’Istituto Gramsci toscano a Firenze: un intellettuale a cui è toccato, fin da vivo, ma anche dopo la morte, il singolare destino di essere molto noto a Firenze ma pressoché sconosciuto
a livello nazionale, il cui nome è rimasto limitatamente legato solo a una legge parlamentare sulla riforma carceraria. Eppure le sue carte comprendono centinaia di lettere di vari interlocutori, quasi tutte le copie di quelle da lui spedite, una grande mole di documenti (manoscritti e dattiloscritti), che hanno rappresentato una vera novità storiografica, ricca di risvolti significativi. La storia si fa beffe, così,
della cronaca, e permette di ristabilire la giusta misura della sua opera, ma soprattutto di lanciare nuove e interessanti prospettive di ricerca su alcune vicende della storia dell’Italia repubblicana, a dimostrazione che certe idee, in apparenza sommerse, rimangono depositate sotto le macerie dell’attualità politica, sempre pronte a tornare vive.
(Introduzione tratta da: “La democrazia alla prova.
Cattolici e laici nell’Italia repubblicana degli anni cinquanta e sessanta” (Carocci, Roma)
Unità nella diversità
(Archivio Alinari)
“E’ chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di don Milani per chi (…) sia stato istruito nella contrapposizione tra cattolici e comunisti, tra progressisti e reazionari, fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista (…) Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, non una contrapposizione, ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico, non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perchè non ha riferimenti attuali, non interviene nell’ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva”.
Sono parole di Michele Ranchetti, che chiariscono il motivo per cui Mario Gozzini, citando don Milani, in più di un’occasione, non si conformasse semplicemente a quella che era, ormai, specialmente dopo il Sessantotto, una consuetudine diffusa all’interno del mondo cattolico e di quello laico, anche comunista; ma attingesse direttamente dall’intimo significato dei suoi scritti, attraversandoli con la propria azione intellettuale, e lottando proprio contro quelle contrapposizioni cui accennava Ranchetti. L’incontro tra i due, come si è visto, fu breve e non ebbe seguito, ma diede certamente i suoi frutti successivamente. L’ “Unità nella diversità”- come l’aveva chiamata qualcuno, matura i risultati migliori nel lungo periodo.
Prendendo in esame la vicenda del rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, figure così diverse per linguaggio, formazione culturale, interlocutori, pur operanti, almeno fino a un certo momento, nello stesso terreno d’azione del mondo cattolico, non si può prescindere da un chiarimento riguardante la cosiddetta “unità nella diversità”. Anzi, più corretto sarebbe parlare di due facce diverse ma complementari della volontà riformatrice e rinnovatrice di un preciso, seppur esiguo, cattolicesimo italiano. Una faccia più culturale, equilibrata e poi politica, quella di Gozzini; più colloquiale e direttamente sociale, senza mediazioni di sorta, culturali, storiche, civili, alla verità religiosa,
quella di don Milani.
Può essere utile, a tal fine, tornare indietro di qualche anno, e accennare ad uno scambio d’idee tra Elio Vittorini e Carlo Bo. Alla fine del 1945, Vittorini, dalle colonne de “Il Politecnico”, lanciava un appello per una “nuova cultura” che contribuisse alla ricostruzione politica e sociale del paese. Fra i capisaldi di questa “nuova cultura”, Vittorini inseriva di diritto il nome di Cristo. Bo, dalle pagine di “Costume”, lo invitava a “credere nella vita che è Cristo, fuori da ogni modo di cultura e di società”. In risposta, Vittorini lo chiamava a “far valere il più possibile, nel comune lavoro degli uomini cristiani e non cristiani, (…) la sua effettiva importanza storica, la sua importanza, anche potenzialmente sociale, la sua importanza, in una parola, culturale”. Bo aveva dunque risposto alla sollecitazione di Vittorini con una richiesta di conversione, dimostrando di non aver colto il senso del suo appello. Ma qualcuno avrebbe presto raccolto la “sfida” lanciata dal non cattolico Vittorini, e avrebbe provato a dare una risposta non solo teorica, ma sulla propria pelle, dentro la propria stessa vita quotidiana. “Cristo è o non è, anche, cultura?” E’ una domanda che Gozzini e don Milani, per altri versi, affronteranno durante tutta la loro opera. Don Milani guarderà sempre con sospetto alla cultura, agli intellettuali, e proporrà una cultura “altra”, quella della “sua” scuola. Gozzini, e su questo punto si consumerà, come vedremo, il mancato sviluppo del rapporto tra i due, è ben saldo dentro un tipo di azione culturale, forse più tradizionale nei metodi, ma non per questo meno rivoluzionaria nei contenuti. Entrambi credono sicuramente nell’importanza storica di Cristo e quindi nel suo valore culturale. Ma l’intuizione di Vittorini chiamava in causa un altro tema decisivo per i due nostri autori, quando faceva riferimento alla legittima possibilità di introdurre la democrazia nella chiesa:
“Per gli uni (cattolici, n.d.a.) la chiesa è al di sopra della vita. Per gli altri (non cattolici, n.d.a.) è semplicemente fuori dalla vita. Ed entrambi hanno torto allo stesso modo; entrambi non vedono la grande importanza che essa ha nella vita.”
La grande importanza che la chiesa, una chiesa giusta, onesta, democratica, può avere nella vita, nella realtà, per tutti. Don Milani ha insistito spesso su questo punto. Ma è questo un argomento ricorrente nella storia del cattolicesimo italiano: chi lotta all’interno del mondo cattolico, affinchè si cerchi di introdurre nella chiesa un modo più democratico, magari provando ad iniziare un confronto aperto con il mondo dei non credenti, collaborando con loro, finisce per essere attaccato ed accusato o di essere un ex prete, se parte della chiesa, o di essere “passato ai barbari”, se laico. Don Milani sarà accusato, in vita, di essere un prete rosso, di essersi “venduto” ai comunisti (in particolar modo dalla stampa cattolica o di destra), di essere un “alienato”, da parte della stessa chiesa. La stessa accusa di essersi “venduto” toccherà Gozzini nel ’76, dopo il “dialogo alla prova” e l’impegno da “indipendente” accanto al Pci. Il Concilio Vaticano II c’era stato da un pezzo, ed aveva, in parte, dato alcune risposte alle domande di democrazia che si levavano verso la chiesa. Eppure, come si può ben capire, ancora discriminazione e pregiudizio rimanevano intatte costanti di certi reiterati giudizi.
Questa “resistenza” nella diversità è ripresa con la stessa appassionata volontà riformatrice, sia da don Milani, sia, successivamente, da Gozzini. E’ nota la “resistenza” di don Milani prima nella comunità limitrofa di San Donato, poi dall’eremo di Barbiana. Don Milani sfugge ogni irrigidimento in schemi, ogni etichetta. Non è stato un prete dissidente o un sovversivo, non è stato un “cattolico di sinistra”, non è stato l’anti-intellettuale. Per questo è così difficile parlare di lui, accostarlo ad altri personaggi o vicende, ma è da qui, soprattutto, che nasce il fascino entusiasta di parlarne. Obbediente a Dio, alla chiesa, al primato della coscienza; ma di un’obbedienza che si è manifestata agli atei come prova di rigorosa coerenza, come radice indiscutibile di testimonianza, che si è manifestata a molti preti e cattolici come la via per restare fedeli alla chiesa ma non ai privilegi borghesi, agli ordinamenti “fascisti”. La sua è una resistenza “obbediente” ma, come tale, paradossalmente, è rivoluzionaria.
Gozzini invece è ancora tutto da studiare. Anche se non sfugge, perfino ad uno primo sguardo sulla sua opera, il ruolo di coscienza critica interna, di ricettacolo di confronto, dialogo, pluralismo, prima dentro al mondo cattolico, poi dentro a quello comunista.
In effetti, don Milani e Gozzini si posero, tra i tanti temi affrontati, alcuni problemi analoghi: è possibile una forma di “democrazia” dentro la chiesa? Può la speranza di una salvezza ultraterrena, dare il tempo, segnare il ritmo, all’azione, tutta terrena, dell’uomo? E’ vero che la maggiore forza dello spirito cristiano, ben più della relativa e mutevole ideologia, è rappresentata dalla cosiddetta “riserva critica”, ovvero ciò che non permette di fermarsi mai su nessun assetto storico come qualcosa di immutabile e di assoluto? E se sì, su questa base, si può riuscire ad avviare un confronto critico o anche un dialogo tra due mondi, appunto, “diversi”, per cultura, religione, tradizioni, come quello cristiano e quello comunista?
Eppure il rapporto tra questi due uomini, la loro coerente “diversità”, il recupero di certe istanze e peculiarità nel lungo periodo, vanno studiati per cogliere il significato di quella battaglia comune, non solo per una chiesa più democratica ma per un mondo più giusto, portata avanti, anche in nome di quella stessa diversità. Diversità, non solo di idee (e, a volte, ideologie) ma, più in generale, di religioni, di culture, di popoli, e attraverso la quale, forse, si potrà finalmente risolvere la questione dell’incomunicabilità, della guerra, tra i diversi, e gettare le basi per nuove, più solidali e democratiche, città del mondo.
(Estratto da: “Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2)
Storia di un grande progetto
“Libri, uomini e idee erano, ieri, una miscela importante per costruire il futuro; forse lo sono ancora oggi, per chi voglia costruirlo”. Con queste parole si chiude il libro di Gabriele Turi, Casa Einaudi. Era il 1990. A circa dieci anni di distanza, Pensare i libri di Luisa Mangoni ripercorre le vicende della casa editrice Einaudi dalla fine del fascismo ai primi anni Sessanta, e ci presenta uno sguardo a tutto tondo sulla cultura, e di conseguenza, sulla società di quegli anni.
Le pagine dense di emozioni di questo testo danno un’immagine della casa editrice torinese, alla fine della guerra, come una casa da abitare, con muri spessi, stanze accoglienti di materiale vivo. Sembra quasi di vedere impegnati Ginzburg, Pavese, Balbo, Vittorini, poi Calvino e gli altri, impegnati a produrre materiale (pensieri sui libri). Materiale però che questi speciali “muratori” della cultura spesso producono in proprio, senza mediazioni, senza la minima attenzione l’uno per l’altro, ognuno col suo gusto proprio di colore, peso, spessore. Ed il risultato appare subito straordinariamente creativo, stimolante. Salvo poi crollare alla distanza, ad un certo punto della costruzione, dopo averne con fatica gettato le basi. Non è solo per motivi esterni (ideologici, economici) che dopo la metà degli anni cinquanta la casa crolla, annacquando visibilmente i suoi contenuti, ma anche per questioni personali. Viene a mancare il collante necessario a tenerla in piedi.
Questo libro è la storia di una grande illusione. Ci fa scoprire oggi come certi scrittori abbiano creduto di poter iniziare un dialogo, di poter affrontare argomenti sulla società civile, confrontandosi non con i soliti interlocutori di sempre, i partiti politici, ma con un elemento portatore di cultura “pura”, quale era la casa editrice, e di farlo, anche se non in modo isolato, proprio dal suo interno. Probabilmente si illusero di poterlo fare, dirà qualcuno, guardando pragmaticamente ai risultati conseguiti. Certo è che cercarono di tracciare un ideale percorso culturale, ma ancor più esistenziale. Un percorso in cui è racchiusa, certo solo in nuce, probabilmente in maniera parziale, una risposta più ampia, che va colta individualmente.
E’ emblematico il titolo. Dietro il modo di pensare un libro o una collana tematica c’è il modo stesso di intendere la vita. Pensare un libro significa soprattutto opporsi ad un immobilismo d’idee che riduce ogni cosa a semplice involucro di sé, che uccise un tempo la libertà, la critica, la diversità. Nella casa editrice si confrontano a “colpi di libro” diverse filosofie di vita. Si intrecciano, si compenetrano, si filtrano a vicenda, scontrandosi.
Nelle vicende della casa editrice degli anni che precedono la guerra (almeno fino alla caduta del fascismo) si confrontano, mescolandosi, due di queste filosofie. Sono rappresentate dall’opera e dalla personalità stessa di Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Grazie a loro si possono individuare le caratteristiche peculiari della mentalità che avrebbe assunto la casa editrice a partire dagli anni trenta, con elementi comuni ma anche profonde differenze. Due aspetti mettiamo qui in luce. In Ginzburg ritroviamo “quel retroterra comune dell’antifascismo ma ancora di più una sorta di familiarità percepibile nei modi di essere prima che di pensare, in un tessuto connettivo di atteggiamenti e di cultura” (p. 5). Nel percorso di Pavese è più evidente il richiamo ai libri, alla storia pensata. Scriveva nel 1926: “Non vivo solo dei libri e per i libri, ma alla fin fine, a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri” (C. Pavese, Lettere 1924-44, Einaudi, Torino, p. 25). Per Pavese, scrivere, come anche tradurre, è qualcosa che si impara, “attraverso uno scavo capace di portare alla luce il sé e il fuori di sé” ( p. 15). Siamo nel decennio 1935-45. Nascono in quegli anni idee nuove, intuizioni, per collane editoriali che si diversificano. Si delinea così una struttura ben definita della casa editrice con un carattere dinamico e innovativo. E’ una prova di eclettismo che combina e intreccia interessi e sollecitazioni diversi, espressi dentro e fuori la casa editrice.
“Essere nel proprio tempo, guardare al proprio tempo” : è questa la parola d’ordine in cui si colloca la costruzione delle collane. Si nota però che, pur all’interno di una tendenza d’apertura ad un mercato più vasto, la programmazione manca sostanzialmente della cultura espressione del Novecento. Non che non percepisca le inquietudini manifestate dai giovani della “generazione perduta” (G. Pintor, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1965, p.186) che in quel momento trovano l’esplicitazione in memorie e autobiografie. A far proprie certe motivazioni esistenziali è la personalità di Giaime Pintor. Il “gioco dei progetti” – così lo chiama in una lettera del 1941 (G. Pintor, Doppio diario, Torino, Einaudi, 1968, p. 155). Sarebbe diventata poi una prassi delle discussioni collegiali in quel laboratorio intellettuale che fu la Einaudi di allora. Si inizia a delineare quel gruppo di intellettuali che darà inizio, negli anni quaranta, alla “scuola delle invenzioni” (Doppio diario, cit., p. 156). Gli intellettuali, nascosti durante le ultime fasi della Liberazione, dopo la guerra provano a conoscersi per poi definire la linea della casa editrice. Quello della conoscenza è un aspetto non marginale, insieme alle difficoltà nel riconnettere frammenti di storie individuali, il crearsi di solidarietà esclusive. “Come cani di razza questi intellettuali davano la sensazione di annusarsi a vicenda” per provare dal confronto a superare o comunque almeno a chiarire contrasti su idee, diffidenze non sempre reali ma semplicemente pregiudiziali. All’interno di questa nuova mentalità di elaborazione, intervenendo direttamente nel vuoto della società civile che il fascismo e la guerra avevano lasciato, si possono distinguere altri due modi diversi di concepire la vita: uno quello che fa capo a Elio Vittorini e al suo attivismo da rivista ( “Una rivista se ha il diritto di vivere è perché esprime un modo di pensare”: cfr. p. 222), calata direttamente nella realtà; l’altro quello di Pavese (“Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio”: cfr. p. 246), il quale dimostra un risentimento verso il “nuovo” indiscriminato caldeggiato da Vittorini, accusando la troppa fretta di dimenticare il passato. In realtà Vittorini metteva in rilievo le cesure tra passato e presente mentre Pavese tendeva a valorizzare gli elementi di continuità. Sono due elementi che si intrecciano costantemente nella storia della casa editrice. Giulio Einaudi, in questi momenti caldi del dopoguerra, sposa la linea di innovazione e dinamismo rampante rappresentata da Vittorini, concedendo maggiori poteri alla redazione milanese. Cerca però di mediare le due tendenze, provando a tirare fuori il meglio da entrambe. Ad assumersi il ruolo di mediatore è Felice Balbo, l’unico personaggio della “vecchia guardia” aperto ai nuovi spunti vittoriniani.
Un altro elemento che caratterizza la linea editoriale di Einaudi, negli anni della ricostruzione nazionale, è dato dalle motivazioni direttamente politiche che la casa editrice si assume, in un rapporto privilegiato con il Partito Comunista Italiano che non intende tuttavia essere di identificazione alla sua politica culturale. Compito della casa editrice non è certo quello di una direzione sul piano ideologico, ma di orientamento culturale attraverso la ricerca, la discussione, la prova e la riprova. Una cosa è garantire l’unità ideologica dei lettori, un’altra quella di elaborare linee di ricerca critica. In questo contesto si colloca il difficile e delicato rapporto tra la Einaudi e il Pci. Il partito sembra guardare ad essa come a uno spazio di interesse non strettamente partitico. Anche se, nel corso della vicenda editoriale di quegli anni, non mancano esempi di attacchi diretti da parte della sua dirigenza del partito o di intellettuali ad esso organici nei confronti della casa editrice.
Alla fine, stando ai fatti, chiusa la rivista “Politecnico”, ridimensionati i ruoli della sede di Milano e di Vittorini, si potrebbe credere che sia la linea di Pavese ad avere la meglio. Ciò è vero ma solo in parte. Senza “Politecnico” la Einaudi non avrebbe il carattere assunto negli anni Cinquanta. E’ stata proprio la cosiddetta “volgarizzazione politecnica” (p. 246) a giovarle visibilmente.
A partire dal 1949 la casa editrice torinese sembra tornare su posizioni tradizionali di lunga durata, tenendo certamente in conto gli elementi nuovi che sono approdati. Non un ripiegamento, dunque, ma la presa d’atto che non è lo spazio immediatamente politico bensì l’incidenza culturale di più lunga durata, quello che la Einaudi deve far suo.
(Archivio Alinari)
Nei primi anni cinquanta entrano nella casa editrice nuove figure intellettuali. I modi di intendere la realizzazione dei libri si diversificano. Al pensiero di Leone Ginzburg, Pavese, Vittorini si aggiunge quello di Natalia Ginzburg e quello di Calvino. E’ una caratteristica peculiare che appare nei giudizi editoriali della Ginzburg, diretti, acerbi, quella di non considerare un’opera come rappresentante di un genere letterario o di una corrente, ma di concepirla in sé. Calvino segue questa linea innervandola di contenuti suoi propri, pacati ma decisivi, definiti in uno stile che farà scuola per le nuove generazioni di scrittori. Entrambi questi modi di intendere il pensiero sui libri contrastano decisamente con l’idea vittoriniana. Ci sono scritti che “pur non facendo ancora libro” – secondo un’espressione che usavano spesso Pavese e Vittorini nel loro lavoro editoriale, di cui si trovano molte tracce nelle lettere e negli incartamenti dell’archivio Einaudi - hanno la dignità per diventare pubblicazioni. Questo tipo di scritti Vittorini invitava a sperimentare: “O libri che si impongono per la loro forza poetica o intellettuale, o libri che riescano ad essere almeno innocenti e cioè ad avere una validità documentaria” (p. 661).
Siamo giunti intorno agli anni 1950-55. In questo periodo si notano i primi segni di uno sbandamento, di una incertezza reale nel giudizio da dare sui libri; ognuno cerca per suo conto, valuta e affronta possibili prospettive diverse. Le tensioni crescenti tra le varie anime della casa editrice, ormai da tempo percepibili in una serie di incomprensioni, portano alla sempre più pressante richiesta dell’avvio di una riflessione, non tanto sulle collane della Einaudi, quanto sul suo progetto complessivo. Si aggiungono reazioni istintive come segnali di una progressiva personalizzazione delle posizioni. Pure tra dissensi, tensioni, differenze d’ottica, si può cogliere qualcosa che va in una direzione diversa: i segni, dopo una lunga crisi, del progressivo cementarsi di un gruppo, alle soglie del 1956 (in concomitanza con il XX congresso del Pcus e dei fatti ungheresi pare che la cellula aziendale della Einaudi inizi a muoversi all’unanimità, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del Pci e dei suoi intellettuali). Non si può capire il significato del comportamento collettivo della redazione Einaudi se non si tiene conto di quanto sia costato lo scontro del 1951 (quando Vittorini aveva denunciato certe divergenze e si era allontanato dal partito) e delle conseguenze che esso aveva avuto negli animi degli intellettuali einaudiani. Sempre più ragioni politiche, morali e umane si sovrappongono rimettendo tutto in discussione.
Sono anni questi in cui si assiste ad una specie di ritorno al passato. Tempi nuovi, tempi di tornare alla politica, di abbandonare il disimpegno letterario, lo sguardo asettico ma di lunga durata sulla realtà. Vengono così tagliati anche i residui fili che collegano la casa editrice al Pci. Sono anche gli anni dei nuovi arrivi. In un consiglio editoriale, Norberto Bobbio si ripromette di fare qualcosa in più, di riprendere il ritmo di un tempo, ricordando agli altri l’importanza dell’innesto di giovani intellettuali vivi all’interno della casa editrice, di cui lui stesso confessa di essere un attento osservatore durante le “riunioni del mercoledì” (p. 877). Si prospetta l’ipotesi del formarsi di una nuova cultura, orientata a sinistra ma non più direttamente legata al Pci, di cui Fortini, e successivamente Solmi e Panzieri, giovani intellettuali emergenti, si fanno, in modo diverso, portatori. Sono iniziative e idee che vengono a poco a poco emarginate, fino ad esaurirsi da sole. A questo punto non rimane che una letteratura di ambienti circoscritti, sul filo della memoria, esemplare ma rivolta al passato. E’ il campanello d’allarme della fine di un stagione di ricerca letteraria viva ed entusiasta, che aveva visto la Einaudi sempre impegnata dentro la società, al passo coi cambiamenti
culturali e sociali della realtà.
Un bel libro di storia delle idee o di storia della letteratura non è affatto completo se non sa suscitare in noi interrogativi sugli eventi sociali e politici che percorrono gli anni presi in esame. Infatti la storia della letteratura ha implicita in sé la storia politica degli eventi che vi si narrano, cosa che viceversa non vale. Studiando la storia di quegli anni, abbiamo creato dentro di noi infinite immagini di quei protagonisti. Ma “vederli” adesso insieme, riuniti in un luogo, che ci simboleggia l’empireo di un certo tipo di cultura, “vederli” discutere animatamente sulle storie raccontate da altri, sul significato di proporre una di esse anziché un’altra, non può rimanere semplicemente una sensazione allo stato di foto mentale suscitata dentro di noi. Dalle immagini regalateci da questo bel testo ci pare che si debba trarre spunto per pensare i libri noi stessi, pensarli scegliendoli, facendoli così rivivere, suscitando dubbi e riflessioni. Come auspicava la frase che chiudeva Casa Einaudi, con questo nuovo testo troviamo uno spunto decisivo e anche un punto di riferimento per un esempio reale, concreto e definito di un modo di fare cultura.
Colpisce soprattutto il fatto che nel libro, intessuto di rigorose citazioni (da lettere, verbali di riunioni, incartamenti vari consultati in casa editrice) si respiri liberamente l’atmosfera di quegli anni. Scavando più a fondo si può perfino individuare, nascosta dietro le scelte editoriali, la personalità dei protagonisti, evidente soprattutto dai dibattiti in casa editrice. Potrebbe apparire ad una prima occhiata, con le sue mille pagine fitte di citazioni, note, rimandi bibliografici, passi interi di autori, il classico studio monografico di tipo accademico. Invece non lo è affatto. E’ un’autobiografia collettiva, una sorta di diario comune, nelle parole dei più grandi scrittori del nostro tempo che collaborarono attivamente alla vicenda editoriale. Seguendone le vicende, i contrasti, i dialoghi, si finisce per parteggiare con questo o con quell’altro. “Storie individuali e storie collettive si mescolano, ma naturalmente, storie di libri: quelli pubblicati ma soprattutto quelli solamente pensati” – scrive l’autrice nella premessa (p. IX).
Pensare i libri è dunque una storia di letteratura, ma più ancora di uomini. E’ nel momento progettuale che si colgono più chiaramente la sintonia o la dissonanza con la cultura del tempo, la capacità di incidere su di essa o di farsene trascinare. L’autrice sa mettere bene in luce, ancora prima della reale consistenza del lavoro pubblicato da quelle eminenti personalità della letteratura nel dopoguerra (Pavese, Balbo, Vittorini, Calvino e altri) il pensiero che sta alla base anche di quei testi che finiscono per non essere pubblicati, di quelle collane abortite per motivi ideologici, economici, personali.
L’analisi dei rapporti tra gli intellettuali in quel sodalizio, in quella casa “comune”, quale è stata per anni la Einaudi, ci permette di riflettere sul significato del pensiero individuale sui libri che si confronta con l’altro da sé, fino a diventare collettivo. La scelta o meno di un testo significa direttamente la possibilità che sia letto da un più o meno vasto numero di persone. Il valore di un pensiero originale, nella fattispecie sulla scelta di un libro, quando si confronta con un altro pensiero sullo stesso argomento di altrettanta rilevanza critica, seppure a volte di contenuto opposto, aumenta moltissimo. E’ da questo confronto continuo che emergono le idee più nuove e originali di un testo. Solo così esso acquista il grado massimo di elevazione morale per tutti o comunque, per più persone, divenendo collettivo. Un percorso del genere è stato la prassi che ha sancito i meccanismi di scelta e di verifica dei libri, all’interno della casa editrice. Scrittori rinomati colgono l’occasione per migliorarsi, ritrovarsi, nel confronto e nello scontro serrato, spesso scherzoso, con gli altri. Gli individui pensano da soli ma si propongono sempre agli altri. L’altezza di un pensiero individuale conta come possibilità che venga raggiunto da tutti.
Certo va anche detto che nel libro, se lo confrontiamo al già citato testo Casa Einaudi, manca un’analisi coerente su un aspetto che per Turi è decisivo nel ruolo che la casa editrice ha svolto in quegli anni: lo sviluppo della collana di testi storiografici. Luisa Mangoni minimizza, parlando di difficoltà di comprendere la realtà, evidente proprio nell’incerto modo di procedere nello sviluppo del settore storiografico. Gabriele Turi, aprendo una parentesi sulla situazione attuale dell’editoria riguardo alla pubblicazione di testi storiografici (tanti libri di tante case editrici ma pochi contenuti ed una carica ideologica minore) sottolinea che il peso della disciplina della storia nella formazione dell’uomo di cultura e nell’educazione civile e politica si è intensificato proprio in quegli anni del secondo dopoguerra grazie al ruolo svolto dalla casa editrice torinese, per poi avere il suo culmine nel 1968, fino ad andare incontro ad una crisi netta durante gli anni successivi. Turi evidenzia, riportando esempi di collane e autori, il modo in cui l’Einaudi, in quegli anni, ha costituito, nel settore storiografico, proprio una supplenza al ruolo dell’Università stessa. Si tratta di un’analisi sull’orientamento ideologico di questo ruolo in perfetta sintonia con quanto sostiene l’autrice: ci sono discussioni e contrasti tra i vari orientamenti culturali (tra cui ovviamente il marxismo), si registrano inflessioni diverse.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad un modello di cultura e progettualità editoriale complesso, mai univoco o artefatto, ma legato alle vicende della società intera. Intellettuali diversi diedero vita ad un prodotto culturale complesso, multanime e originale, anche se un po’ illusorio. “C’era un elemento che accomunava Ginzburg, Pavese, Pintor, Bobbio, Alicata, Vittorini e altri” – scrive Balbo subito dopo la fine del rapporto di lavoro alla Einaudi – “Non era il laicismo della cultura, non era il razionalismo, non era il comunismo come tale, neppure per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la causa rivoluzionaria. Ma l’incontro di tutti questi soggetti intellettuali era soggetto al fallimento per due motivi: la sollecitazione interna della crescita organizzativa e quella esterna della situazione storico-politica generale” (G. Turi, Casa Einaudi, cit., 263-264). Viene da chiedersi se sia possibile proporre un modello di cultura del genere oggigiorno. Mancano i referenti intellettuali, manca perfino la casa comune. Non manca però l’elemento più importante: i pensieri e le idee dell’uomo, tutto un mondo sommerso di libri da pensare.
(Tratto da: “Italia contemporanea”, n. 225)
(Fonte Internet)