Dai fasci ai forconi, in sicilia la rivoluzione è folklore
Fonte: Linkiesta
Uno dei popoli più ricco di contrasti della terra, tra i più nobili e allo stesso tempo tra i più rozzi, vive in uno dei territori artisticamente più belli del mondo. È il siciliano nella sua Sicilia. Ma, storicamente, il popolo siciliano ha vissuto sempre nelle più difficili, misere e contrastate condizioni che la vita abbia concesso all’uomo, in quella specie di medioevo che, di volta in volta, ha preso il nome di separatismo mafioso, fascismo, strapotere democristiano e, infine, berlusconismo.
Viene da chiedersi, volgendosi indietro e interrogando la storia, per quale strana legge fatale le qualità del siciliano, anche le migliori, finiscano per diventare assolutamente dei difetti: perché la normale cultura si trasformi in pedanteria e nozionismo, la normale prestanza fisica diventi vanto di natura sessuale, la fede religiosa sfiori il bigottismo, l’amore per la terra e per la natura si muti in primitivismo. E così anche il moto rivoluzionario, la protesta di massa finisca per diventare folklore, passatempo, barzelletta.
Una prima, e ovviamente parziale, risposta a ciò può essere la seguente: si tratta di condizioni e situazioni tipiche di un ambiente dove la cultura, l’educazione, non intese in senso generale o scolastico, ma come stimolo che allarga gli orizzonti e le vedute, contaminazione con il resto del mondo, non hanno agito con efficacia nella popolazione, fermandosi al limite della coscienza. Tutto è, da sempre, emozionante, sensazionale ma comunque monco, incosciente, dimezzato, in questa meravigliosa terra di contrasti: la resistenza senza partigiani, il Sessantotto senza sessantottini, il femminismo senza femministe, l’industrialismo senza industrie, e qui mi fermo perché si potrebbe continuare all’infinito.
È probabilmente per questo che, individuato un male, ad esempio il latifondo di una volta, la mafia più di recente, l’evasione – ahinoi – sempre attuale, se l’intervento per risolverlo viene dall’alto (e in questa accezione includo lo Stato, passando per regione, province e comuni) non risolve affatto anzi acuisce il problema. Quel male potrà essere in parte contrastato ma risorgerà dalle radici sotto forme diverse, finché non interverranno due fattori, i più importanti e decisivi: l’autocoscienza del siciliano e la dovuta considerazione dello Stato.
La prima va conquistata, lottando con le unghie e con i denti, attraverso l’educazione, fin dall’infanzia, la diffusione del sapere, della ricerca scientifica, in modo da modificare mentalità erronee consolidate e radicate, agendo sulle nuove generazioni. Su questa strada i siciliani sono andati, per fortuna, ben avanti. La seconda sembra invece essere, allo stato attuale, la condizione più difficile da maturare: la Sicilia e i siciliani sono ancora, purtroppo, per tanti italiani ma soprattutto per lo Stato, una vera e propria incognita. L’isolamento siciliano non è soltanto geografico, economico, ma soprattutto sociale e culturale. I vari governi italiani che si sono succeduti dall’Unità in poi, di qualsiasi tendenza politica, non hanno mai ascoltato la voce di protesta che, di volta in volta, si è levata da parte della popolazione siciliana (o di buona parte di essa). Vero è anche che la diffidenza è stata reciproca.
I fatti di questi giorni richiamano alla mente, se pure con enormi differenze (caratteri e proporzioni), fosse anche solo per l’eterogeneità e la spontaneità della protesta, gli storici fasci siciliani del 1892-94. Come dimostra anche una bella inchiesta datata ottobre 1893 del giornalista Adolfo Rossi sul giornale La Tribuna di Roma, quello dei fasci fu un movimento di massa di orientamento socialista, costituito soprattutto da contadini, braccianti, mezzadri, minatori, operai, artigiani, piccoli commercianti e piccoli proprietari, in cui ebbero parte attiva molte donne e bambini, anche se la sua composizione sociale e politica mutava da luogo a luogo. Si caratterizzò per la protesta contro l’eccessivo fiscalismo, contro la burocrazia delle amministrazioni locali e dei galantuomini, la rivendicazione della terra. Se ci addentriamo, per un momento, più nel merito delle proteste, i provvedimenti più odiati e contestati dai fasci furono la tassa comunale sul bestiame che andava in gran parte a pesare sui ceti più umili, poiché l’importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma – che costituivano gli animali da lavoro del contadino – era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi, cioè i ricchi proprietari. Ma anche le imposte indirette sui piccoli proprietari, gli artigiani, i contadini e i lavoratori in genere, tasse che in Sicilia avevano un gettito superiore a quello delle imposte dirette: il dazio consumo, quello cioè che si pagava al momento della vendita al minuto, e che ricadeva esclusivamente sui consumatori; e soprattutto sui ceti più umili, costretti a sopportarne il peso.
Soprattutto nella fase iniziale, quando si cominciò con l’incendiare i registri dei Comuni, saccheggiare gli uffici, liberare i detenuti, i moti rivoluzionari nacquero in modo disordinato, spontaneo, con mezzi assolutamente inadeguati, suscitando in giro per l’isola infiniti e continui incidenti e azioni eversive, episodiche e sporadiche. Si mescolavano alla rinfusa, nelle diverse azioni di protesta e nelle manifestazioni, i ritratti di Garibaldi e Mazzini, quelli di Marx e Louis Blanc, insieme a quelli del re Umberto I e della Santissima Madre di Dio. Una delle accuse più diffuse che venivano mosse ai fasci dalla stampa nazionale conservatrice e dai delegati di pubblica sicurezza, chiaramente finalizzate a procedere al loro scioglimento, era quella di essere delle società di malfattori, in combutta con la mafia. In realtà un’inchiesta promossa da Giolitti, travolto di lì a poco dallo scandalo bancario romano, accertò che non vi erano elementi sufficienti a dimostrarlo.
Dopo che il movimento si diffuse in tutta l’isola, si abbatté la dura repressione del governo Crispi che proclamò lo stato d’assedio e fece intervenire l’esercito. A questo punto, il Partito socialista, che non aveva avuto fino a quel momento una diretta responsabilità organizzativa di ciò che era accaduto in Sicilia, seppure non troppo convintamente (ritenendo che certi metodi facessero parte di una tradizione anarchica a loro avviso ormai superata), alla fine si schierò in sua difesa. Il movimento assunse un più preciso programma di sinistra, schierandosi apertamente contro il potere mafioso dei gabellotti conniventi con i grandi proprietari terrieri e contro i preti che spesso e volentieri li fiancheggiavano. Ma in questa fase il fenomeno perde le sue peculiari caratteristiche isolane e finisce con l’annegare nel mare magnum del socialismo nazionale, per non dire internazionale.
Oggi in Sicilia gruppi di contadini, allevatori, pescatori e autotrasportatori, soprannominatosi “movimento dei forconi” hanno paralizzato nel giro di pochi giorni una intera regione, bloccando le strade, organizzandosi nelle piazze e davanti ai comuni, e creando soprattutto enormi disagi ai loro concittadini. Protestano contro il rincaro della benzina, l’abbassamento a livelli mai toccati prima d’ora del prezzo dei prodotti agricoli, contro le tasse statali, regionali e comunali. A organizzare i presidi sono soprattutto personalità di secondo piano della destra locale, qualcuno mette in guardia da possibili, anzi probabili, infiltrazioni mafiose, ma a seguire e a fiancheggiare le proteste, spinti dalla crisi economica e dalla morsa dell’impoverimento collettivo, sono ceti e categorie sociali indistinte, giovani e meno giovani, donne e bambini, anche di sinistra. Avvertono i “forconi”: guai a portare simboli o bandiere di partito, il movimento di protesta è di tutti i siciliani. A fermare i tir dell’ortofrutta e di gasolio sono pochi esaltati, ma, a dire il vero, a mettere la faccia davanti ai collegamenti tv, dietro ai capi, c’è tanta gente, soprattutto gente impoverita e umile, che, come tale, suscita la simpatia dell’opinione pubblica. Ora, per tutto ciò che si è detto fin qui, l’atavica pigrizia italiota, e in particolar modo quella siciliana, va assolutamente combattuta. Ben venga, dunque, la critica e anche la protesta accesa, se si mantiene nei limiti della civiltà.
C’è da stare molto attenti però che non si tratti della solita storia che c’è dietro la non consapevolezza e la non cultura del siciliano, di cui si parlava all’inizio. Cioè che dietro l’apparente protesta della popolazione e la sommossa popolare non ci sia, in realtà, la richiesta della solita politica clientelare, del voto di scambio, e che a organizzarle siano proprio quegli stessi politici che, vedendosi privati del potere decisionale a livello regionale e nazionale, soffiano sul fuoco dell’animosità siciliana e giocano sulla buonafede dei più ingenui. Come è già accaduto, purtroppo, in tempi più e meno lontani.
Allo stato attuale non è ben chiaro a cosa voglia giungere con esattezza questo nascente movimento, ma appare chiara, quantomeno, la sua origine, ambiguamente reazionaria. E non ci riferiamo certo ai tanti siciliani che la stanno fiancheggiando, ma a quelli che, così baldanzosamente, la stanno cavalcando. I metodi, peraltro, come è accaduto a Roma nel caso delle proteste dei tassisti, parlano chiaro e sembrano averne tutta la logica interna: basti pensare al dogmatismo, alla violenza decisa, alla imposizione antidemocratica di bloccare la vita quotidiana senza alcun riferimento alle leggi dello stato, al fatto che sembrano non avere nessun programma fisso. Tutto questo non vi ricorda forse qualcosa?
Fonte: Linkiesta
Bufalino e il “nascosto” dell’uomo
C’è una letteratura tutta fatta di furore e istinto, che s’impegna direttamente dentro alle cose, che si fa sociale, politica, senza sottintesi. Ce n’è anche un’altra, non affatto disimpegnata, non meno sociale, ma semplicemente nascosta, sfumata, quasi discreta. Bufalino è scrittore di quest’ultima. Non una pressione di realtà, mentre vive, legge, ama, lo tormenta. Non insegue le cose mentre accadono, ma le accarezza mentre le pensa. Per questo molto nella sua opera è frutto di un attento sguardo sulle cose, come in una piacevole e unica visione di film. Non affonda le braccia nel torrente che è la vita, ma fruga tra le proprie piccole felicità e disperazioni per scovare altro, l’altro che è in noi. Come portare fuori dall’acqua pezzi di ignoto, dentro la memoria. Non incrina, non sventra le parole perché siano vita, piuttosto le intreccia tra memoria e presente, ciò che di noi è stato, ciò che di noi è. Tutto si sfuma in una storia che è infanzia, giovinezza e vecchiaia insieme. Viene da dire, leggendolo, che c’è qualcosa di nascosto dentro l’uomo, e così anche dentro il mondo, la sua storia, nel tempo. Questo sconosciuto dell’umanità da portare in superficie è uno degli obiettivi che la cultura deve darsi. E’ questa non conoscenza che, forse, nella storia del mondo e dell’uomo causa disagi, morti, guerre e rivoluzioni. E’ ciò che imbriglia la coscienza della realtà. Eppure un fatto, come pure un libro, conta quando, in qualche modo, è nuovo per la coscienza dell’uomo. Solo in tal caso un fatto è vero: se la coscienza si arricchisce, se alla lunga catena di significati della quale essa è composta, aggiunge qualcosa di nuovo. Una parola può dare a un fatto non nuovo un significato nuovo. In questo modo la parola può essere essa stessa fatto. Ecco Bufalino. Si può creare un mondo in un cortile di casa, dentro una angusta stanza, in un paesino sperduto di provincia. E crearlo coi caratteri di tutta una umanità, di popoli diversi, città diverse, con la sola forza della conoscenza. Prendere un libro arabo, cinese, americano non è meno che prendere un treno o una nave, o un aereo per quei posti. E’ portare dentro di noi quell’altro che non è. Così la letteratura è come una unica grande città per tutti. B. ne è stato un rappresentante defilato, quasi nascosto. Ma nel senso che si è detto. La cultura racchiude in sé l’idea di una scelta. E’ ricerca, ma soprattutto scelta. Ambisce ad essere la coscienza dell’uomo per agire nel mondo. Certo, si propone di intervenire nell’indirizzo della realtà, ed in questo modo è azione politica. Ma deve farlo, sa farlo, diversamente da questa, perché coglie il lato umano, universale, di lungo periodo, di un’idea, di un evento. Possono esserci forse rivoluzioni politiche positive per l’umanità senza che ci siano state altrettante rivoluzioni culturali? C’è qualcosa nelle idee dell’uomo che non si realizza direttamente in senso politico nella storia, che si realizza solo parzialmente, o che, per esempio, attende a realizzarsi, che ha bisogno di più tempo per farlo, si prolunga di giorno, mese, anno, e rimane come brace in procinto di ardere dentro l’uomo stesso. Questa è la lettura di B., ad esempio.
Di B. si parla sempre troppo poco. E questo perché, negli anni in cui quest’uomo è stato prelevato come un reperto dal cortile di casa sua da Sciascia, si stimavano grandi scrittori solo gli agitatori sociali, politici e comunque gli urlatori. Molte volte si pensa a B. come un uomo coltissimo ma zitto, chiuso in sé stesso e per la verità da un’immagine del genere non si può recepire chissà quali entusiasmi. Si può star zitti per tanto tempo ma con un silenzio tagliente. E poi B. parlava eccome, dispensava consigli. Parlava coi suoi paesani, non certo nei talk show, o sulla stampa. Mi piace definirlo come il nascosto dell’uomo. Ma sempre, il sommerso, persino il rimosso dell’uomo, è destinato a ritornare. Ecco, ripensando alla letture dei suoi libri, vengono subito in mente alcune parole: paesaggi, città, mondo. E poi altre: barocco, immagini, colori, odori, suoni. Sono termini che mi portano a pensare, a sua volta, a una letteratura non da sola. A una letteratura col cinema, ad esempio. Ad una letteratura con la musica, anche. Mi spiego. E’ forse per conoscere Comiso o Modica che leggiamo B.? Per questo anche, ma non per questo solo. Non è per conoscere un luogo, ma è per conoscere in un luogo; e soprattutto per conoscervi qualcosa del mondo, che sia anche la più piccola, un modo anche minimo del mondo, un aggettivo, un accento, uno sguardo, ma non certo di un solo luogo o di una sola città. Ecco, leggendo B. si è in Sicilia, tutto è Sicilia, ma è anche altro. Sono gli uomini che dicono, amano, piangono in quella Sicilia, a farla come tutto il mondo. In Amaro miele, ad esempio.
Poi il paesaggio. Abbiamo tutti bisogno, chi più chi meno, di fare i conti col paesaggio. Se i libri di B. sono compiuti, lo sono certo nel paesaggio. Il paesaggio è quello che avviene nel mondo, non è coreografia. E’ quello che è stato sempre nel mondo alla luce del nostro sguardo di ora. E’, per intenderci, l’umanità sotto forma di immagine. Nelle case, nelle strade, nei discorsi stessi dei personaggi che formano un unico paesaggio si appiccica l’invenzione, la fantasia, il sogno di B., ma si attacca alla realtà, non ha significato senza di essa. Anche immagine è una parola familiare in B. Per lui il cinema è stata una rivelazione. Spesso si trovano nei suoi libri personaggi tratteggiati su personaggi di film che B. ha amato. Ognuno trova dentro di sé lo spunto per dirsi. Lo può trovare nelle cose, nell’azione, e lo può trovare nei pensieri, nei libri, e perché no, nei film. Non è certo indispensabile disporre di una realtà inedita per riuscire a produrre dell’arte nuova. Una realtà che è già stata sfruttata completamente resa arte può servire come se addirittura fosse nuova. Credere di sapere tutto di un’epoca, di una realtà, e pure dimostrare, scrivendo, che non è affatto così. Cavarne sempre qualcosa di nuovo e di sconosciuto. Sono infatti sempre le idee riaffermate nel tempo, sviscerate e riproposte in termini nuovi, a trovare una dimensione giusta e perseguibile. Non si crea dal nulla, piuttosto si riafferma, si sviluppa. Purtroppo accade che le idee che scavano in profondità non vengono subito recepite dall’umanità. Eppure chi pensa è sempre di un passo avanti, nelle idee, rispetto all’epoca e alla società in cui vive. Deve passare del tempo perché le sue idee prendano vita in termini di coscienza nella società e diventino pensiero comune, collettivo, e così facendo, utile.
(Archivio Fondazione Bufalino)
Dicevo del cinema. Per lui ha significato un po’ come quello che per altri autori è stata la scoperta della letteratura americana. Ora, posto che non sia conveniente pensare in un certo modo del passato, anche se giusto, originale, arguto, ma pur sempre già stato, occorre far rivivere in maniera nuova e diversa uno stesso atteggiamento verso la cultura e più in generale verso la vita. Prendere un esempio del passato, eroico, fiero, onesto, per farlo rivivere oggi. Cosa abbiamo noi del passato come loro hanno avuto film, letteratura e quant’altro? Noi ora abbiamo del passato, Vittorini, ad esempio, Pasolini, Sciascia, Bufalino. Ecco, prendere della loro opera ciò che di giusto, onesto, progressivo c’è stato e portarlo dentro all’oggi. Riprodurre anche un atteggiamento del passato ma in termini nuovi, moderni, propri. La memoria contro l’oblio, l’esempio contro l’improvvisazione. B. ebbe certi film. Furono una scintilla per lui. Prese coscienza di una diversità e di una possibilità di vita. Così fecero altri con altri modelli. L’importante è avere un esempio eroico in cui credere. Scoperta e fede in qualcosa. Ecco, nelle pagine di B., ricordo anche suoni, ad esempio. I fatti hanno in sé la propria musica. Tutto il proprio passato e presente di musica da svolgersi. Anche solo questa musica è già narrare. E la musica è di tutti, può esserlo almeno. Ciascuno può leggere le parole con la sua precisa voglia di ascoltarle, col suo modo di sentirle, proprio come una musica. La particolarità e, se si vuole, la bellezza della letteratura sta nella sua complessità concettuale, nella sua varietà come una musica. Nella sua ambiguità, anche. Non finzione, non maschera, ma piuttosto immediatezza, spontaneità di musica. Con le parole si possono dire non una ma tante cose insieme, nello stesso tempo. E’ questo lo stupore musicale della letteratura. Le parole e i significati che assumono risuonano nell’aria, s’infittiscono, e si piantano fin dentro la terra. Ma soprattutto si muovono. Lo scrittore non compone a tavolino. A tavolino lo fa, ma solo perché è costretto a starci, perché non può scrivere in piedi o volando. A dire il vero vorrebbe farlo passeggiando, parlando, saltando da un posto all’altro, anche facendo l’amore, se possibile. E’ in movimento. B. pare immobile ma in realtà si macera, e si muove nel pensiero, ad esempio, della morte. Non è affatto statico.
Per entrare più nell’intimo delle opere di B., io ho amato soprattutto Argo il cieco, l’opera meno bufaliniana. Qui si vede l’ingenuità, la freschezza e allo stesso tempo la profondità, la consapevolezza del destino dell’uomo. Qui c’è un B. voglioso di vita. Anche un po’ goffo, farfallone, ma vivo nell’insicurezza. Eppure c’è sotto, oltre le righe, nascosto, ancora una volta, il desiderio vivo di cultura.
B. sa che non esiste desiderio di cultura nel mondo. Non esiste tra i più che non la amano perché non la conoscono e, anche, non la capiscono. Non esiste neppure tra i meno, tra i più potenzialmente entusiasti, perché la vedono isolata, comprendono che non incide affatto nell’ordine reale delle cose. E’ poco utile. Ma B. sa anche che il fatto culturale interessa in quanto porta a una elevazione collettiva dell’uomo. E del resto l’elevazione culturale della vita è necessaria al progresso creativo della cultura. Che fare allora? E’ un problema annoso, che si ripropone da sempre. Una cosa è certa e pare dircela, anzi, bisbigliarcela all’orecchio B. con i suoi scritti. La promozione della cultura è avvenuta e avviene in un modo che risulta, purtroppo, anti-culturale. Non ci si propone affatto, come si dovrebbe, di elevare le idee dell’uomo al nuovo, alla critica, ma solo di soddisfare i gusti già formati, cioè i vizi, le abitudini, le banali esigenze del pubblico. La promozione e la divulgazione della cultura è in genere una attività commerciale né più né meno. Nessuna voglia di trasformare, di cambiare, nessun amore degli uomini, né passione, perciò ci si limita a dare quello che viene richiesto: droghe d’idee, naturalmente, passatempi, rompicapi, superficialità, e luoghi comuni. Del resto anche se si sospettano migliori qualità nel pubblico, si preferisce andare a colpo sicuro, sollazzare gli animi. Certo, la letteratura è anche il suo pubblico. Non è solo chi scrive. Ma essa deve essere guida e così facendo farsi essenza stessa del suo pubblico. Un tempo era più facile l’equazione tra letteratura e pubblico. A ben vedere ce n’è stata una aristocratica, col suo pubblico, una borghese altrettanto, e poi una popolare. La scrittura quindi è stata sempre classe sociale. Oggi tutto si sfuma proprio perché non è facile definire i caratteri della società. E così della letteratura. Eppure anche oggi essa rappresenta il suo pubblico, la sua società. Rappresenta un modo di pensare opportunistico, superficiale, votato all’attivismo da strada, spicciolo, giornalistico. Si rimane freddi, inerti, se le cose non si presentano come eventi a se stanti, non appena richiedono di essere considerate in profondità come vuole B., o chi come lui, dentro il quadro di una concezione della vita. B. è passione, non si dubita mai di lui anche quando mette su un teatrino.
E’ una persona viva, di carne, che soffre, che capisce.
Certo quella di oggi è una sensibilità ricettiva, inglobante, anche viva e dinamica, ma non certo culturale. Pensare e agire nel contingente per il contingente è un modo sveglio, furbo, a volte utile, ma non permette di sollevarsi a guardare l’universale, l’umano in ogni tempo e luogo. Quest’ultima sensibilità presuppone una intelligenza speciale. Non solo creativa ma anche razionale, riflessiva. In una parola culturale. Invece si riduce la curiosità culturale dell’uomo, per presunzione di attivismo, ad una curiosità di giornata, si presenta ogni cosa sotto specie di fatto di cronaca, disabituando la gente ad ogni attività di pensiero, soddisfacendo con frettolosi bocconi una fame che potrebbe invece durare viva per mesi, distogliendoli dall’amore delle letture faticose e appassionanti, tanto meno organiche ad un modo di pensare, al suo modo di pensare, come i libri di B. Così abbiamo i libri di oggi, tutto a danno della cultura, tutto anti-cultura, tutto contro quel desiderio di cultura così vivo in alcune persone purtroppo scomparse, semplici e sbiaditi ricordi del passato per tutti. Una cosa vorrei sempre ricordare. Alle sorti della cultura, che in senso lato è pensiero ma anche azione, è civiltà, è politica, è storia, e quindi anche ai libri di Bufalino,
di Vittorini e di tanti altri, sono legate quelle dell’umanità.
(Tratto da: “Parenklisis”, n. 1)