Adozione dei minori. Per una legge che rifletta i cambiamenti della società
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Di recente il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha riconosciuto, in Italia, un provvedimento di adozione per un bambino africano di 7 anni (dello Zambia) da parte di una donna siciliana (nubile, di professione medico), che lo aveva avuto in affidamento quando aveva solo pochi mesi. Si tratta di un' adozione "particolare", concessa a un singolo genitore, non coniugato: in questo caso con la motivazione che il piccolo è orfano di entrambi i genitori ed ha avuto un rapporto preesistente stabile e duraturo con la donna. Se un marziano avesse messo piede sul nostro paese proprio subito dopo quel riconoscimento, avrebbe subito pensato di trovarsi in un luogo all'avanguardia in tema di diritti civili e in particolare dei minori. "Visto" , avrebbe detto, "voi italiani state sempre a lamentarvi del profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica, insensibile agli effettivi problemi e ai bisogni della gente, e il mondo vitale della società impegnato nella quotidianità! State sempre lì a dire che il parlamento è indotto a legiferare sulla base solo di spinte corporative e gruppi di pressione, e comunque sempre e solo a seguito dell'esplosione dei problemi, quando si sono incancreniti, e mai prima! E invece avete delle ottime leggi, che noi marziani non possiamo far altro che invidiare." Purtroppo, al di là di questo simpatico siparietto tra il marziano e gli italiani, la questione si pone in termini ben diversi. L'adozione del bimbo africano da parte del medico siciliano è un caso rarissimo. In realtà, anche sotto questo punto di vista, purtroppo, l'Italia appare una nazione del tutto arretrata, bloccata, poco competitiva, rispetto agli altri paesi europei. Scopriamo il motivo, ripercorrendone sinteticamente le tappe storiche.
A dire il vero, all'inizio della storia, le cose erano andate piuttosto bene. Si è quasi corso il rischio, nella seconda metà degli anni sessanta, di essere considerati un paese civile e all'avanguardia. Fu proprio quello della riforma sull'adozione dei minori e l'introduzione dell'adozione "speciale" il primo vero banco di prova che funzionò come apripista per la legislazione sui diritti civili e familiari nel nostro paese, come dimostrarono poi divorzio, obiezione di coscienza e aborto. Prima della nuova legge, approvata nel 1967, non era raro che migliaia di coppie senza figli rinunciassero ad adottare un bambino abbandonato per i ritardi burocratici o per non correre il rischio di vederselo togliere più avanti. Secondo i dati dell'Istat di allora, nel 1964 esistevano circa 150 mila bambini ricoverati in istituti di assistenza. Accadeva spesso che un bambino abbandonato venisse affidato a una coppia senza figli e che, dopo anni, si facesse vivo il genitore naturale a chiedere una cifra mensile "per non creare difficoltà". Poteva accadere perfino che una ragazza incinta invece di lasciare il bambino al brefotrofio in vista dell'adozione, decidesse di contattare, attraverso un intermediario, una coppia senza figli e glielo facesse avere come "legittimo", presentandosi semplicemente in clinica con un padre non tale. Per ovviare a situazioni incresciose come quelle, il parlamento seguì in quel caso un iter legislativo diverso da quello di quasi tutte le altre norme. Quel percorso rappresentava, infatti, un caso raro nella storia parlamentare italiana, perché si verificava una spontanea convergenza tra i partiti, pur partendo da posizioni fortemente distanti di cattolici e laici, nonché il favore della Chiesa, decisa a promuovere un'adeguata legislazione. Dopo vari studi sui casi esteri di Usa, Inghilterra e Olanda, quella legge prendeva il meglio, differenziando il caso dei minori dai maggiorenni, diminuendo il limite di età per poter adottare (da 50 a 35 anni), fissando in 20 anni la differenza di età con l'adottato, stabilendo l'organo competente nel Tribunale per i minori (e non più la Corte d'appello), prevedendo, infine, un periodo pre-adottivo di 2 anni. Dopo i 5 anni di prova, la legge aveva dimostrato di funzionare, ma privilegiava ancora troppo l'interesse degli adulti su quello dei minori. Inoltre, non aveva evitato del tutto la compravendita di bambini che aggirava l'intervento dei tribunali, non rompeva abbastanza il legame tra minore e famiglia di origine, prevedeva ancora formalità burocratiche e lungaggini. Mentre il numero famiglie adottive era indubbiamente cresciuto, facendo diminuire sensibilmente i minori abbandonati o istituzionalizzati, quello delle adozioni era rimasto esiguo rispetto ai minori adottabili di fatto.
Sedici anni dopo, nel 1983, una speciale sottocommissione senatoriale, dopo aver ascoltato il parere degli operatori del settore, di magistrati, associazioni ed enti che si occupavano da anni dei problemi dell'infanzia e della famiglia, proponeva alcune importanti modifiche alla legge, sulla base dei disegni di legge presentati dai democristiani e dai comunisti, in particolare aumentando la differenza di età tra adottante e adottato e diminuendo i cavilli che davano vita alle lungaggini burocratiche. Nonostante le imperfezioni e le difficoltà sorte nella sua applicazione, la riforma aveva introdotto finalmente il principio del prevalente interesse del minore e invertiva le finalità dell'adozione: dal dare un erede ad adulti che non potevano averne, al dare invece una famiglia ad un bambino che purtroppo ne era privo. Più di un decennio dopo, veniva regolata, anche in Italia, l'adozione internazionale, secondo la Convenzione dell'Aia, e poi con una legge del 1998 che prevedeva l'adottabilità anche per i conviventi, ma solo dopo un certo numero di anni. Nel 2001, però, venivano apportate alcune modifiche alla disciplina dell'adozione nazionale, in particolare l'innalzamento da 40 a 45 anni dell'età che doveva intercorrere tra genitore e minore da adottare e, oltre al matrimonio, una convivenza di almeno 3 anni come criterio di adottabilità, nonché la graduale chiusura degli istituti di ricovero per minori.
La legge italiana perseverava, dunque, nel vietare l'adozione ai semplici conviventi. A differenza di ciò che accade all'estero, in cui si prediligevano le coppie più giovani per l'adozione, e in certi casi anche quelle non sposate. Che la famiglia costituisse ancora negli anni novanta in Italia il luogo privilegiato nel quale emergevano clamorosamente tutte le contraddizioni, gli antagonismi e in conflitti di una società secolarizzata ma ancora alle prese con la forte influenza e il potere della chiesa cattolica, è un elemento di tutta evidenza. Proprio nel campo delle problematiche familiari la chiesa trovava infatti l'elemento cardine su cui costruire la difesa di certi valori tradizionali. Ma questo arretramento legislativo, a fronte delle iniziali aperture dei decenni precedenti, portava, in alcuni casi, anche a conseguenze drammatiche: per esempio, nel giugno del 2000, quando un'ordinanza di un giudice costringeva i carabinieri a effettuare un "blitz" presso un casolare grossetano, allo scopo di sottrarre una bimba alla coppia a cui era stata provvisoriamente affidata per destinarla a una famiglia "in regola". La legge sulle adozioni, infatti, privilegiava ancora come principio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto disagiata essa fosse. Bastavano, inoltre, le sporadiche visite di un parente perché un minore restasse fisso in una casa famiglia, senza che potesse essere dichiarato lo stato di abbandono che portava all’adottabilità.
La legislazione italiana sui criteri necessari all’adozione se da un lato è molto rigorosa e cauta rispetto a quella internazionale, e pone al centro dell'adozione il bene del bambino (e non l'interesse di chi desidera adottarlo), dall'altro, però, rischia di essere superata dai tempi e di non riuscire a far fronte alla richieste di una società sempre più in movimento. I dati parlano chiaro: se nel 1968 ci furono circa 4 mila 400 tra affidamenti e dichiarazioni di adottabilità, nel 1999 le domande di adozione rimanevano altissime, circa 23 mila, ma solo circa 7 mila venivano accolte. Nel 2005 le domande di adozione erano 15 mila e passavano a 20 mila nel 2007, delle quali ancora solamente poco più di 4 mila erano accettate. Nel 2008 ne venivano accolte appena 5 mila, nel 2009 nuovamente in ribasso, circa 4 mila, mentre si registrava, dal 2004 al 2008, un forte aumento dei minori stranieri adottati (67%) contro i minori italiani (32%), mediante l'adozione internazionale, molto più rapida e funzionale: ben 3420 minori stranieri nel 2007. Dal 1995 ad oggi questo tipo di adozione è molto cresciuta, non solo in Italia, ma in particolare in Spagna, Svezia, Norvegia. Anche se i nuovi criteri per l'accreditamento delle agenzie di intermediazione all'adozione introdotti da Russia, Ucraina e India hanno contribuito ad un rallentamento negli ultimi anni.
In ogni caso, il rapporto attuale tra richieste e accettazioni di adozione è di cinque a uno: per la maggioranza dei bambini, allora come oggi, ciò che resta è l'attesa. Un alto numero di famiglie o coppie rinunciano, ancora oggi, a seguito di lentezze burocratiche e attese infinite proprio come negli anni sessanta. Eppure in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infanzia abbandonata crescono, e anche in Italia esiste un numero enorme di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che avrebbero bisogno di una famiglia: 26 mila bambini, secondo le recenti statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per non parlare poi delle coppie che preferiscono andare all'estero direttamente, pagando la cifra che serve. Dagli anni sessanta ad oggi, a fronte di un aumento costante delle famiglie adottive, dell'aumento dell'intermediazione con gli enti (ovvero consultori familiari ed enti autorizzati Ai.bi), non aumenta la percentuale media delle accettazioni di adozione, non diminuisce l'età media degli adottanti (39 anni per le donne, 41 per gli uomini), a differenza degli altri paesi. Rimane costante la percentuale dei motivi di adottabilità del minore, cioè a dire l'abbandono per il 41% e la perdita della potestà genitoriale per il 43%, mentre si diversificano gli stati di provenienza dei bambini (oggi soprattutto Russia, Ucraina, Polonia, Brasile, Etiopia, Colombia. Vietnam e India).
Se da un lato dunque è giusto rifarsi a criteri di adottabilità equilibrati e cauti, è necessario, tuttavia, che le leggi riflettano i cambiamenti della società in cui viviamo. Una legge "elastica", che sa distinguere i singoli casi, che crea un’eccezione e riconosce, formalmente, una famiglia atipica, come nel caso della donna medico siciliano e del bimbo africano è di buon auspicio per il futuro. Sarebbe bene che questa eccezione costituisse un precedente importante. Come ha già fatto presente una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, è auspicabile, infatti, un rapido intervento da parte del parlamento italiano in modo da ampliare i casi di adozione non solo da parte delle famiglie formalmente riconosciute, ma anche delle coppie e dei single. Anche se per la verità, l'attuale classe politica italiana sembra presa da altri più stringenti problemi, ad esempio su come riuscire a mantenere intatti i propri privilegi di casta. Staremo a vedere.
Fonte: Linkiesta
Qualche pensiero dalle Oblate
Stamattina ho letto che Asor Rosa sul manifesto sostiene che non c'è più tempo, perché un gruppo di criminali e affaristi ha preso il potere e una maggioranza corrotta e indegna vota qualsiasi cosa. Occorrerebbe, quindi, a suo avviso, un intervento del capo dello Stato che, appoggiato dalle opposizioni e coadiuvato dalle forze dell'ordine, sciolga le camere e sospenda le immunità parlamentari. Parole pesanti, sicuramente estreme, ma che devono far riflettere sulla situazione che stiamo vivendo.
Nel pomeriggio, poi, ho ascoltato Rodotà che ha chiesto alla magistratura di resistere per tenere in piedi quel poco di stato di diritto che è rimasto e che ha smentito la filastrocca ricorrente che vorrebbe maggiori poteri all'esecutivo per fare finalmente le riforme: ha spiegato, lucidamente, che negli anni settanta le riforme più importanti per la storia di questo paese
le ha fatte tranquillamente il parlamento, altro che esecutivo forte.
Asor Rosa e Rodotà non sono due estremisti scalmanati. Uno è stato critico letterario, l'altro un giurista. Entrambi hanno fatto diverse esperienze politiche nella sinistra, conoscono la storia del paese, non sono due sprovveduti.
La situazione, a loro avviso, sta indubbiamente precipitando.
Oggi, alla Camera, quantomeno, le opposizioni sono state compatte, il che potrebbe far sperare in un minimo di unità di azione. Voglio ricordare che le piaghe, che oggi si sono incancrenite sui processi, in realtà vengono da lontano: dall'approvazione del decreto Berlusconi bis, a cui il Pci non fece un'opposizione adeguata, al rimando continuo del conflitto di interessi, su cui i governi di centro-sinistra dei vari Pds, Ds, Margherita, etc fino al Pd, hanno enormi responsabilità. Questo va detto semplicemente per dovere di cronaca o di storia che sia.
Che fare dunque? Io credo che l'opposizione debba riflettere su quello che sta succedendo in Italia dal 1984 ad oggi. Non certo fermarsi a contemplare il passato, ma volgersi verso il futuro, e non per lanciarsi in un frenetico attivismo di piazza, ma riconoscendo che si è creata una situazione del tutto nuova, perché si delegittima tutto, la Corte costituzionale, il Csm, il parlamento, la presidenza della Camera, quella della repubblica. E' necessario risolverla con il consenso di una nuova maggioranza. Per esempio, fare un'attenta critica dei propri errori e delle proprie recenti e meno recenti azioni, porterebbe alcune persone a riavvicinarsi alla politica e a questa opposizione. Riconoscere, ad esempio, che il proprio linguaggio politico è ormai inadeguato, è sprofondato per intero nel passato. Non si può sperare neppure nella sola magistratura, né tanto meno nella rivoluzione: gli italiani sono dei rammolliti, non l'hanno mai fatta, figuriamoci se la farebbero oggi.
No, occorre riprendere l'iniziativa a livello locale, riunirsi nelle singole città, mettere alcune regole sull'elezione della nuova classe politica, non solo il divieto di candidatura a seguito di condanne a vario livello, ma anche, a questo punto, il divieto di ricandidatura a chiunque abbia finora svolto incarichi politici ufficiali a tutti i livelli, dai comuni di 2 mila abitanti al parlamento. Mettere un limite di età per candidarsi, tipo 60 anni. Si potrebbe, ad esempio, ricominciare da qui per rinnovare completamente la classe dirigente. Qualcuno dirà che potrebbe anche essere un rimedio inutile. Si, è vero, ma peggio della politica che abbiamo oggi non potrebbe mai essere. E quindi varrebbe comunque la pena di provarci. Sarebbe quanto meno un modo per diminuire il drastico tasso di disoccupazione giovanile di circa mille unità.
Allo stato attuale, non sappiamo cosa diventerà domani questo paese, quali saranno le dimensioni di questa crisi economica, politica, sociale, culturale e adesso anche dello stato di diritto. Manca solamente che l'esercito prenda il potere e non ci saremmo fatti mancare nulla. Ma in Italia l'esercito conta quanto il due di coppe quando la briscola è a spade e poi sarebbe chiedere troppo vivere un vero golpe come nei film.
Qualunque cosa accada bisogna prendere atto che la società italiana, dagli anni ottanta in poi, è molto cambiata, ha allentato i suoi anticorpi democratici, è stata plasmata e indirizzata verso una deriva populista nazional-popolare mediatica plebiscitaria. Purtroppo questo è un dato di fatto. Lo si è visto a partire dai referendum sulla conferma dell'ergastolo, ai mancati quorum per certe leggi sui diritti civili, fino ad alcune votazioni con i vari simboli ad personam, con la sinistra a rincorrere la destra, lo dimostrano perfino i dati dell'audience di raiuno in prima serata, qualsiasi cosa mettano in programmazione, sempre gli stessi. Occorre semplicemente prendere atto di ciò e provare a ricostruire un tessuto connettivo nuovo, partendo da certi capisaldi: i diritti sanciti nella nostra costituzione, una delle migliori del mondo, gli esempi di certe democrazie straniere, sul versante della politica economica, del welfare, del lavoro, il fermento di vita e di speranza proveniente dal sud del mondo. Non rimane che mettersi dunque all'opera, ognuno nel suo orizzonte.
(Archivio Alinari)
Politica e partecipazione. "Fabbriche" di democrazia partecipativa
Non c’è dubbio che i mutamenti nella società e nelle istituzioni siano oggi così forti da imporre revisioni profonde di strumenti e di contenuti. La classe dirigente del Paese è sempre stata troppo impegnata alla conquista del consenso per poter riuscire ad accogliere i messaggi che provengono dalla base di una società in continuo mutamento. La politica si è fatta dunque più complessa e articolata di quanto non prevedessero i partiti. Esiste una società sommersa, sempre più numerosa e, all’interno di questa, un’ampia e variegata sinistra inquieta. In altri termini, è in atto una crisi di rappresentatività della società nel nostro sistema politico, che è l’altra faccia, ben al di là della gravissima questione morale, che è più sintomo che causa del crescente processo di delegittimazione istituzionale che viviamo in questi ultimi mesi.
Va premesso che questa crisi non solo del sistema dei partiti, ma anche della stessa forma partito, non può e non deve portare ad un indifferenziato rifiuto qualunquistico della funzione dei partiti. Occorre invece una più rigorosa analisi critica della sua involuzione e della degenerazione che si è manifestata in rapporto ai processi di secolarizzazione della società e di trasformazione sociale e culturale verificatisi dal ‘68 in poi. Parallelamente è necessaria una ridefinizione dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza politica. A tale proposito può essere interessante guardare alla diffusione sempre più contagiosa delle Fabbriche di Nichi, che sembrano proporre una prima risposta a questi problemi.
Lo spazio nuovo e proficuo del rapporto tra partiti e società civile è da valorizzare proprio sul versante dell’interazione tra processi dell’innovazione sociale e del sistema politico. L’obiettivo di un soggetto mediatore di questo tipo dovrebbe essere quello di riuscire a coinvolgere nell’elaborazione di una progettualità politica alternativa forze che di fatto sono o intendono restare esterne ed autonome rispetto al raggio di azione dei partiti. Insomma un pezzo di società che interagisce direttamente con i gruppi dirigenti, che diventa partecipe di un progetto politico. È dunque necessario individuare e far crescere nuove forme di rappresentanza rispetto a quei movimenti e soggetti sociali, ecologismo, pacifismo, femminismo, diritti civili e umani, che si manifestano nella società, ma che non riescono ancora a realizzare una positiva dialettica col sistema politico-istituzionale.
In questo ambito rientrano anche tutti quei gruppi e movimenti cattolici, una vera riserva di energie, in piena secolarizzazione e nel tempo della onnipotente impotenza della politica, che si richiamano all’esperienza tradita del Concilio Vaticano II, sottolineando la centralità della legalità, di una cultura di solidarietà e di corresponsabilità, dell’attenzione al lavoro. Sono tutti spezzoni di un discorso alternativo che la politica oggi non sa coinvolgere. Ed è necessario che qualcuno si faccia promotore e interlocutore di queste istanze innovative. Occorre liberare le diversità che la politica non sa prendere in considerazione.
(Archivio personale)
Le “Fabbriche”, dalla Puglia, si sono diffuse in tutta Italia. Sono fatte essenzialmente da giovani, molti dei quali non hanno esperienze partitiche alle spalle. Non sono, come molti pensano, un semplice comitato elettorale, né la cinghia di trasmissione di Sinistra e Libertà, ma spazi in cui circolano idee, richieste, appelli, proteste su problemi diversi, ma riconducibili ad un’aspirazione al rigore morale, alla giustizia, all’innovazione, alla sostenibilità ambientale, alla creatività, ad un progetto di alternativa vera alle connivenze dell’attuale classe dirigente del Paese. A parte il riferimento costante alla figura di Vendola, con tutti i rischi del leaderismo, c’è però un elemento di vitalità e di spontaneità, che, se valorizzato, potrebbe fare di esse un canale per ricevere e non solo per trasmettere politica, uno strumento per imparare a capire la nuova cittadinanza. In molti dei partecipanti della Fabbrica è riscontrabile un implicito dissenso critico all’attuale impostazione dei partiti. Per mutare, tuttavia, bisogna introdurre elementi nuovi, non presenti finora. Questo può accadere solo attraverso una ricognizione attiva e ricettiva in tutti i settori nuovi del mondo del lavoro, ma anche in quelli tradizionali dove emergono comunque nuove percezioni, altre culture e stili di vita.
In breve, le Fabbriche, suscitando partecipazione, promuovendo forme reali di confronto, creando una rete condivisa di informazioni e buone pratiche, rappresentano un modo di fare politica senza divenire schiavi della politica. Il punto è utilizzare nel modo migliore e più virtuoso, anche a livello mediatico e comunicativo, quella posizione di interfaccia di ambienti ed esperienze sociali e culturali per produrre innovazione nelle idee e trasferirle nella dimensione della politica di ogni giorno.
Negli ultimi anni le cose sono molto cambiate per le nuove generazioni: non si tratta di contestare o di voler cambiare il mondo a parole, ma siamo oggi in un fase di formazione di una capacità di governo anche da parte delle forze giovanili. Chi partecipa ai laboratori delle fabbriche rimane stupito dalla eterogeneità e varietà di interessi, storie personali, competenze: il fabbricante è a volte uno studente o un dottorando, altre volte un precario o un normale cittadino incuriosito dal fenomeno della partecipazione diretta nel territorio. Molto spesso è donna. È, in ogni caso, un valore aggiunto, che può portare ad un livello di maggiore elaborazione le richieste della cittadinanza critica e le stesse proposte dei partiti. Ma è anche, seppure spesso inconsapevolmente, un animale politico come gli altri. La sua caratteristica dovrebbe allora essere quella di fare politica senza curarsi delle mediazioni cui è costretto il lavoro quotidiano del partito, di non avere bisogno di mandare segnali alle altre forze politiche. Senza una struttura verticistica, la Fabbrica è un gruppo di volontari che diventa catalizzatore di energie altrimenti disperse.
Una cosa è certa: oggi non siamo più nella stagione della certezza, ma in quella della ricerca. La politica non è più in grado di fornire garanzie ai cittadini, occorre dunque rifondarla. Aggiungo un’avvertenza. Quella giovanile è una risorsa immensa che non va sprecata, né tanto meno strumentalizzata. Sarebbe pericoloso utilizzare queste energie come uno strumento che consente di non affrontare alcune difficoltà che i partiti incontrano nei loro rapporti con determinati ambienti sociali. Al momento, le “Fabbriche” funzionano come fattore di modernizzazione della politica, ma soprattutto sul versante dell’opinione elettorale, della socializzazione politica e dei relativi meccanismi di identificazione ad un leader, ma anche qui in modo insufficiente, e soprattutto casuale, non programmato, anche se vincente. Non funzionano invece, se non indirettamente e per eccezionali coincidenze, come fattore di modernizzazione dei processi decisionali della politica.
La mia tesi è che le “Fabbriche”, e in generale tutti laboratori sociali e culturali, andrebbero valorizzati al massimo come fattori di decisione politica. Acquisire ad una funzione decisionale sedi non burocratiche, darebbe il vantaggio di arricchire di spessore analitico-culturale la scelta politica e di avvicinare all’impegno diretto coloro che ne rimangono volontariamente ai margini. Sottrarrebbe inoltre l’attività dei centri socio-culturali alla tentazione dell’astrattezza inconcludente e del velleitarismo. La riforma moderna della politica infatti non può essere la somma algebrica di esperienze locali, di linguaggi settoriali e specialistici, spesso non comunicanti tra loro. Formalmente i gruppi di questo tipo restano un assemblaggio di individualità, dove la professionalità soggettiva non incide efficacemente sulla società a cui si rivolge. È oggi quantomai necessaria una forma di elaborazione socio-culturale in cui linguaggi ed esperienze si confrontino e si concretizzino in una scelta politica comune, in un progetto di ampio respiro, sia pure senza intaccare la libertà di ciascuno.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 96)
Pensavo, tornando a casa...
(Archivio Alinari)
Oggi faceva proprio freddo sul viale, al cader della sera, mentre tornavo a casa dall'istituto storico. Strana atmosfera, politicamente. Una banale conversazione tra due uomini carpita nel bus: parlano del premier e lo definiscono un puttaniere e un bastardo. Mi avvicino e gli chiedo sarcasticamente: chi lo ha votato? da chi può essere sostituito? Il discorso allora si fa vago. "Quel Fini lì non mi convince". "Draghi e Montezemolo sono più affidabili"... Ma, in definitiva, non sanno rispondere. Per loro non si tratta neppure tanto di ragionare o di fare ipotesi, quanto di scacciare l'incubo, questo tarlo che ha ormai preso a morsi lo stomaco del paese. Scendo dal bus e trovo alla fermata alcuni mendicanti. La vita materiale è sempre più difficile, per tutti, non solo per le fasce di marginalità sociale. Il paese è soffocato dalla mancanza di una politica economica e di direttive precise sul fronte del lavoro. La protesta degli studenti medi e degli universitari si salderà presto con quella dei licenziati, dei cassintegrati, degli sfruttati. Ma chi avrà la capacità e la lungimiranza di incanalarla? Anche le classi agiate non contengono la loro impazienza, dovuta all'impossibilità di continuare ad arricchirsi sempre di più come un tempo. Le classi medie scivolano sempre più nel pantano della povertà. L'opposizione sembra intorpidita, inerme, sulla difensiva. Da mesi la lotta sociale si è fatta costante. Da un po' di tempo, tutto sembra svolgersi nelle strade e nelle piazze, ma pochi ( a parte i diretti protagonisti) se ne accorgono, visto che la tv e la stampa nazionale vivono una stagione di sempre più grigio conformismo, eccetto rari casi. Tutti sentono che dietro l'agitazione e le rispettive parole d'ordine, il giustizialismo di alcuni, il moderatismo di altri, il populismo di altri ancora, si è instaurata una attesa inquieta. Gli avvenimenti che si preparano sembrano avvolti nel segreto. Solo pochi eletti sanno come andranno a finire le cose. Da ogni parte si preannuncia e si aspetta la caduta di questo governo, ma tutto viene rimandato sempre all'indomani. A poco a poco il sistema politico sembra uscire dalla realtà sociale. La crisi economica è chiaramente giunta ad un punto di rottura. Ciò che mi colpisce di più è la passività del governo anche in questo campo. Nessuno dà spiegazioni: non si prende misura alcuna. Un'analisi dell'economia e della politica economica avrebbe allo stato attuale una enorme importanza, anche soluzioni estreme ma chiare, nette. Un confronto preciso e anche aspro sui contenuti gioverebbe alla chiarezza. Ma nulla di tutto ciò accade. Non è solo economia però, mi sembra altrettanto urgente puntare all'analisi del fatto politico. Il blocco di centro-destra si è spaccato, il governo è in balia dei finiani. I centristi riacquistano un ruolo politico dopo tanto tempo, un peso condizionante. Ma il punto dirimente è altrove. Riconosco un democratico per il semplice fatto che sempre, nel bel mezzo di una conversazione, la sua analisi si arresta, la sua voce cambia, il suo sguardo si fa lontano. Ha spesso avuto riverenza nei confronti della Chiesa e di quel mondo così lontano e sfuocato, al punto da sottomettersi ai suoi ricatti. Ha sempre avuto un senso di inferiorità nei confronti dei conservatori, prima dei democristiani, poi dei centristi cattolici, infine dei finiani. Si può ironizzare su uomini politici che occupano posizioni ufficiali di potere, vivono in belle e comode ville e sognano il cambiamento, per non dire la rivoluzione. Anzi è una parola che non va più di moda: adesso la chiamano riformismo. Chissà se queste contraddizioni un giorno finiranno per esplodere per merito di qualcosa o di qualcuno. La verità è che il paese ha vissuto questo ultimo anno fuori dalla società, non ha più una classe dirigente credibile, e tanto meno un governo, tutto avviene ai vertici. Le nuove generazioni, spesso, si disinteressano di politica, per rigetto, per rifiuto automatico. E tutto rimane in mano a pochi emuli che sono già vecchi a vent'anni. Ho voglia di dire ai democratici: svegliatevi! Se le cose continuano così il partito democratico vedrà una volta di più diminuire la propria capacità di mobilitazione della società, già ridotta al minimo. Ma parlo così forse perché mi innervosisce l'attesa di una schiarita e sono annoiato ormai di vivere alla giornata senza nessuno ( o quasi) che sappia indicare un progetto chiaro e soprattutto sappia perseguirlo.
(Archivio Alinari)