Il consultorio ovvero un ferito ai margini della strada
Fonte: Linkiesta
In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è il problema dei tanti bambini e ragazzi destinati a non diventare del tutto uomini o donne, cioè dei tanti bambini nati malformati, sordomuti, ciechi, per colpa di una mancata assistenza pre e post natale alla madre, o dei bambini cosiddetti "istituzionalizzati", cioè privati di quell'affetto necessario alla loro crescita, o ancora dei bambini violentati, non scolarizzati o avviati alla delinquenza e preda delle mafie. Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi, di fatto, "abortiti" per colpa della società e dello stato. A questo proposito, dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.
Il consultorio familiare venne istituito nel 1975 (anche se le prime proposte risalivano al lontano 1949), con la legge 405, grazie al movimento delle donne che lo aveva fortemente voluto, e alla convergenza dei partiti di allora, cattolico, socialista e comunista. Si trattava di un presidio pubblico con la finalità di assicurare informazione, consulenza e assistenza psicologica, sanitaria e sociale su argomenti fondamentali per le coppie e per le famiglie, cioè maternità, paternità, procreazione responsabile e salute sessuale. Con la legge 194 del 1978, poi, le competenze del consultorio inclusero anche l'assistenza all'aborto.
Fino a quel momento, gli unici centri di sostegno per queste problematiche regolarmente funzionanti erano stati solo quelli privati, con forti connotazioni religiose. I primi consultori prematrimoniali esistenti in Italia, infatti, erano sorti per iniziativa di alcuni sacerdoti o laici d'ispirazione cattolica, riuniti nel Ucipem (Unione Consultori Italiani Matrimoniali e Prematrimoniali), a cui erano poi seguiti consultori di gruppi volontari, di indirizzo politico diverso, come quelli dell'Aied (Associazione internazionale Educazione Demografica), del Cemp (Centro per l'Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale), e del Ced (Centro Educazione Demografica), che tendevano, per lo più, a favorire la conoscenza dei mezzi anticoncezionali. Fino a quel momento, le funzioni dei nascenti consultori, soprattutto dopo la soppressione dell'Onmi (Opera Nazionale per protezione Maternità e Infanzia) e dei servizi gestiti dal ministero della Giustizia, erano state delegate alle Regioni, anch'esse peraltro di recente nascita. La difficoltà organizzativa dei consultori si affiancava all'insufficienza delle istituzioni sanitarie del paese e spesso anche alla mancanza di un'adeguata specializzazione dei medici preposti. Sia l'assistenza alla coppia e alla famiglia, quanto le tecniche psicologiche e mediche finalizzate al controllo delle nascite, non potevano essere svolte con coerenza perché demandate a norme legislative regionali diverse.
La legge che faceva nascere il consultorio familiare pubblico metteva di fronte la capacità dello stato di gestire un problema di tale portata e l'attaccamento della Chiesa alla gestione delle problematiche relative alla famiglia, secondo la propria reiterata tradizione secolare. Si trattava, dunque, di un primo importante banco di prova e di un'occasione preziosa per cominciare un discorso di crescita, non solo a livello di organizzazione sociale, ma anche a livello dei rapporti tra società religiosa e società civile.
Quando nacque, il consultorio scontava subito tutta l'inadeguatezza della legge e delle strutture organizzative italiane: finì per essere gestito dai rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, figure, con tutta evidenza, troppo burocratizzate per poter assolvere alla loro funzione specifica, a scapito dunque del diretto coinvolgimento della società, cioè a dire delle famiglie, delle coppie e in particolare della donna. A questi meccanismi si provò ad affiancare, inizialmente, il volontariato, con la presenza, nel consultorio di donne che informavano e discutevano le varie problematiche relative alla vita sessuale della coppia. Ma una soluzione di questo tipo, se pure utile, non poteva che ritenersi provvisoria e monca. Permanevano, inoltre, enormi differenze tra le diverse regioni. In sostanza, si disse molto all'italiana, i consultori sarebbero diventati ciò che la politica e la società li avrebbero fatti diventare.
Vediamo allora, dopo 35 anni, cosa sono diventati. Dalla metà degli anni ottanta, il numero dei consultori familiari pubblici era continuato a crescere, nonostante la mancanza di un miglioramento della funzionalità e del livello del servizio offerto. Nel 1979, cioè un anno dopo l'approvazione della legge sull'aborto, erano circa 600 quelli pubblici e poco più di 200 quelli privati; nel 1981 si era passati ad un rapporto di 1456 contro 167. Nel 2006 il numero dei consultori notificato era pari a 2188 per quelli pubblici, mentre si erano ancora ridotti, a 103, quelli privati. Ma veniamo all'oggi.
Di recente il ministero della Salute ha pubblicato il primo rapporto nazionale sui consultori familiari pubblici presenti in Italia. La situazione è a dir poco preoccupante. Solo in poche regioni le Asl prevedono un capitolo di bilancio ad essi adibiti, ma più in generale, non hanno alcun interesse a valorizzare i consultori, come dimostra il mancato adeguamento delle risorse e degli organici. Il numero dei consultori è passato dai 2097 del 2007 ai 1911 del 2009, con un consultorio ogni 31 mila abitanti circa, contro un valore legale stabilito per legge di 1 ogni 20 mila in area urbana e 1 ogni 10 mila in area rurale. Mancherebbero all'appello, dunque, almeno 1000 consultori. Inoltre, la legge prevede un organico multidisciplinare, con figure professionali come ginecologo, pediatra, psicologo, ostetrica, assistente sociale, sanitario, consulente legale, infermieri. Nel rapporto si legge invece che solo nel 4% dei casi è coperto l'organico, in particolare l'andrologo è assente in tutti in consultori pubblici nazionali (ad eccezione che in Valle d'Aosta). La legge prevede che il consultorio disponga di locali per l'accoglienza utenti, la segreteria, la consulenza psicologica e terapeutica, le visite ginecologiche e pediatriche, le riunioni, l'archivio, mentre la realtà dice che il 15% dei consultori ha solo 1-2 stanze, ben 440 consultori non hanno una stanza per gli incontri di gruppo, ed addirittura 634 non possono inviare e ricevere mail. Inoltre il 9% dei consultori è aperto la mattina solo uno o due giorni a settimana e il 7% non risulta mai aperto la mattina, mentre il 14% non è mai aperto neppure il pomeriggio, mentre il sabato mattina è chiuso l'86% dei consultori italiani. Quanto ai contenuti, l'assistenza alla gravidanza è praticamente inesistente mentre il percorso prematriomoniale è fornito solo in tre regioni.
Per completare il quadro è bene ricordare che i consultori matrimoniali familiari fondati sul cosiddetto sul "counselling" (cioè sulla consulenza come relazione di aiuto tra consulente e coppia) risalgono alla fine degli anni Venti negli Stati Uniti, ed hanno avuto, da allora, un considerevole sviluppo in numerosi stati europei, in particolare in Inghilterra (1946), nei paesi scandinavi (1952), poi in altre nazione come Austria, Irlanda, Malta, Francia, Svizzera, Germania etc. Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta i consultori hanno poi avuto ampia diffusione e riconoscimento in quasi tutti gli stati dell'Europa occidentale e infine, anche da noi.
E' evidente che, oltre ad essere arrivati ancora una volta per ultimi a questo servizio di base per la cultura della famiglia e delle coppie, ci troviamo ancora oggi ad un livello di funzionalità e di fruibilità del servizio assolutamente inadeguato, se paragonato a quelli degli altri paesi. Non ci stancheremo mai di ricordare e di ripetere, dunque, che è su questi argomenti che si misura il grado di civiltà di uno stato. Forse, al di là delle fumose affermazioni di principio, è il caso che il governo tecnico di recente formazione inizi proprio col mettere mano a inadempienze e inadeguatezze come questa per meritarsi la nostra stima e la nostra simpatia.
Fonte: Linkiesta
Le ammucchiate trasformistiche cominciarono con Depretis
Fonte: Linkiesta
È mai possibile che in Italia non si possa desiderare che ad opporsi in una sana e competitiva dialettica politica ed elettorale, siano, da un lato, una coalizione di centro-sinistra, laica, socialista e riformista, che eviti magari di inglobare in sé, incredibilmente, i peggiori vizi del centralismo democratico comunista e dell'interclassismo democristiano di un tempo, e, dall'altro, una coalizione di centro-destra, caratterizzata da idee democratico-liberali, e non fondata, invece, solo su posizioni populiste se non addirittura eversive? Come ha sostenuto recentemente su queste pagine, Massimiliano Gallo, nella tragica situazione in cui versiamo, finisce per diventare quasi rivoluzionaria la soluzione da sempre più consolatoria, che diventa la meno traumatica, cioè quella di pensarsi tutti un po' democristiani.
In realtà la risposta a questa tragica domanda retorica ce la fornisce, come sempre, la storia.
Trasformismo e grandi ammucchiate politiche sono meccanismi che noi italiani conosciamo bene, anzi si potrebbe quasi dire che li abbiamo inventati. Certo, se è vero che il trasformismo, politicamente parlando, è sempre stato praticato fin dai tempi della nascita del nostro stato, è anche vero che in Italia le grandi coalizioni non sono mai andate troppo di moda. Come dire: i cavalli passano direttamente da una scuderia all'altra.
In tutti i partiti e in tutte le epoche, però, dalla destra storica alla sinistra costituzionale, dai liberali giolittiani ai democristiani, dai socialisti fino ai post-comunisti, il vizio di abbandonare la dialettica vibrante e lo scontro parlamentare su precisi e solidi progetti politici alternativi, per annacquare nel moderatismo e nel conformismo l'attività politica ordinaria, è sempre stato un sport molto praticato.
E non ci si riferisce tanto alle svilenti pratiche di passaggio da un partito o da un gruppo politico all'altro, verificatesi dai tempi dei Minghetti, negli anni ottanta dell'Ottocento, per arrivare fino al trasformista post-moderno Scilipoti. Quanto al continuo e stucchevole richiamo allo spirito di sacrificio durante momenti di emergenza nazionale, che sia economica, sociale o addirittura questione letteralmente di vita o di morte, come ai tempi del terrorismo, poco importa. In realtà, i cambiamenti di linea (e di casacca da parte dei parlamentari) all'interno dei due schieramenti, così come l'allineamento su politiche moderate o di centro, rese simili a prescindere dalle differenze politiche, con lo specchietto per le allodole rappresentato dall'emergenza, sono dettati solo dalla necessità di catturare il consenso di alcune influenti componenti del mondo della finanza e della grande industria, nazionali o internazionali.
Questa convergenza tra posizioni diverse non riguarda, di solito, programmi e progetti politici a lungo termine, ma problemi specifici e circoscritti, ed è raggiunta attraverso accordi e favori elargiti anche a singoli parlamentari, con la scusa che è necessaria l'unità d'intenti e, a parole, il sacrificio di tutti i cittadini. Pur di evitare il confronto aperto, l'alternanza decisa e ruvida tra le due coalizioni, si ricorre alle scuse più incredibili. E non è solo questione di sistema elettorale, con buona pace dei fini politologi, ma di cultura politica. Già un errore di valutazione in questo senso è stato commesso nel 1994, quando il presunto passaggio dal vecchio al nuovo, dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, venne affidato, unanimemente da tutti i soggetti politici, all'idea che una semplice riforma elettorale di tipo maggioritario bastasse a regalare al paese una democrazia dell'alternanza. L'idea alla base era la seguente: con lo stesso meccanismo mentale per cui è possibile esportare la democrazia occidentale in oriente senza corpo ferire, altrettanto si sarebbe potuto trapiantare un sistema elettorale straniero nella nostra vita politica. Questa idea, oggi lo si può dire senza timore di smentita, si è rivelata del tutto illusoria. Gli uomini e i contesti sociali contano molto più dei modelli teorici. Oggi che il rito è stato consumato e il miracolo non è avvenuto, tutti dovrebbero rifletterci su.
Vediamo un po', allora, cosa è successo in Italia, a proposito di trasformismi e larghe intese, nel corso della storia d'Italia. Questo ci permette di capire il vero motivo per cui l'alternanza da noi continua a rimanere un sogno lontano e la dura realtà è invece tutta amaramente democristiana. Realtà simboleggiata, meglio di qualsiasi altra cosa, dalla probabile compresenza dei due Letta, Gianni ed Enrico, nell'esecutivo tecnico in formazione.
Il primo tentativo trasformistico di grande ammucchiata fu quello messo in atto dall'ex mazziniano Agostino Depretis, esponente della Sinistra costituzionale che, nel 1887, incluse nel suo governo esponenti della destra storica. Puntando inizialmente sull'appoggio delle masse popolari scontente dei precedenti governi, Depretis apriva alla borghesia imprenditoriale e agraria, alle grandi industrie, guardando alle nostalgie borboniche dell'elettorato del sud. I provvedimenti presi sull'onda della necessità di fare sacrifici furono niente meno che l'imposta sul macinato, la decisione di non nazionalizzare le ferrovie, per dare un contentino ai gruppi dei costruttori ferroviari, la scelta di ampliare le spese militari per accontentare la monarchia. Si mescolavano a misure come l'allargamento del suffragio elettorale e l'istruzione elementare gratuita, a dimostrazione di un intento altamente demagogico.
Nel secolo XX, non sono mancati altri esempi di grandi coalizioni in fasi di particolare difficoltà del paese. Dopo la fine del fascismo e della guerra, tra enormi difficoltà psicologiche e materiali, in previsione della nascita della Repubblica italiana, veniva varato il cosiddetto governo di “unità nazionale”. Alla caduta del governo Parri, infatti, nel dicembre 1945, nasceva il primo governo di Alcide De Gasperi, con l'appoggio di comunisti socialisti e democristiani, tutti insieme appassionatamente. A dispetto delle solenni dichiarazioni, nei fatti, la politica economica e fiscale era subito affidata al ministro del Tesoro, il liberale Corbino. I provvedimenti che questa coalizione, seppure tra mugugni e diffidenze, prendeva erano i seguenti. Venivano smantellati i controlli sulle attività finanziarie. Erano abolite le imposte sui redditi da azioni e obbligazioni. Era dimezzata l'imposta sul trasferimento di azioni. Venivano liberalizzati i cambi. Era contenuta la spesa pubblica. Crescevano incontrollati i redditi bancari. Erano sbloccati i licenziamenti. Veniva concessa, infine, agli esportatori la libera disponibilità del 50% della valuta ricavata.
Alla fine degli anni Settanta, in piena fase di esplosione del terrorismo, e in concomitanza con il sequestro Moro, nasceva il cosiddetto “governo di solidarietà nazionale”, detto anche “dell'emergenza”. Era presieduto da Giulio Andreotti e veniva votato da democristiani, socialisti e comunisti, anche stavolta, tutti insieme appassionatamente. Quali provvedimenti varava questo capolavoro di strategia politica e quali risultati portavano? È presto detto. Venivano bloccati i salari, con l'ammorbidimento delle posizioni dei sindacati. Era favorita la mobilità del lavoro. Venivano tagliate fortemente le spese sociali. Venivano fatti accordi sulle nomine dei vertici delle aziende di stato, degli organi direttivi delle più importanti banche, equamente divisi tra i partiti. Lo stesso accadeva per la Rai. Aumentava la pressione fiscale, mentre i prezzi aumentano più del costo del lavoro.
All'inizio degli anni novanta, in concomitanza con Tangentopoli e con la permanenza del nostro paese in Europa, dopo l'accordo di Maastricht, sempre con la solita tiritera dei sacrifici, in una situazione oggettivamente allarmante, dal punto di vista economico e finanziario, per il nostro paese, veniva formato il governo di Giuliano Amato del 1992. Era appoggiato da democristiani, socialisti, liberali, con l'avallo silenzioso degli ex-comunisti. Si dava inizio, così, ad una manovra da 30 mila miliardi di lire, fondata su tagli della spesa e nuove tasse, in particolare con il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, con la patrimoniale, la liberalizzazione degli affitti, la fine dell’equo canone, l’aumento dell’età pensionabile, la detassazione degli utili reinvestiti e un piano di privatizzazioni. Qualcuno disse che in quell'occasione si salvò addirittura il paese. Ma si sa, in Italia, non c'è mai limite al peggio. Per cui, oggi, ci risiamo.
Dopo la (presunta) fine del berlusconismo, in una situazione finanziaria internazionale e italiana di gravissima entità, si preannuncia la formazione di un governo tecnico a guida Mario Monti, o anche, eventualmente, di “larghe intese”, che coinvolgerebbe centro-destra, terzopolisti e centro-sinistra in una grande ammucchiata. Anche in questo caso, le misure annunciate, almeno se ci rifacciamo direttamente gli ultimi interventi pubblici dell'economista sul Corriere, parrebbero preannunciare lacrime e sangue per i cittadini italiani. E cioè ridimensionamento drastico del welfare sul recente modello inglese (31 ottobre 2010). Modello Marchionne nei rapporti tra aziende e lavoratori, nonché conferma della riforma Gelmini su scuola e università (2 gennaio 2011). Liberalizzazioni e modifica dell'art. 41 della Costituzione (6 febbraio). Riduzione della spesa pubblica (3 luglio). Rafforzamento della linea di disciplina fiscale di Tremonti (14 luglio). Poi certo, ci sarebbe da far ripartire la crescita economica, la produzione industriale, da colpire drasticamente le posizioni di privilegio della politica e delle rendite, ma il nucleo fondante sembra già delineato. E purtroppo, si sa, quanto si tratta di far fare sacrifici ai cittadini, le forze politiche trovano sempre subito l'accordo, ad ogni epoca.
Ora, è evidente che, nel corso degli anni, dall'unità fino ad oggi, questi esempi di grandi coalizioni e di larghe intese hanno rappresentato casi limitati, sia numericamente che cronologicamente. Sia ben chiaro, non è la norma, per fortuna, bensì l'eccezione. Nell'intervallo di tempo intercorso tra questi esperimenti trasformistici, infatti, ci sono stati anche governi più o meno solidi, più o meno compatti, marcatamente di destra storica o di sinistra costituzionale, governi a guida liberale o governi dichiaratamente fascisti, monocolori democristiani o governi di centro-sinistra organici, esecutivi di centro-destra berlusconiani e di centro-sinistra prodiani, o ulivisti che dir si voglia, che si sono combattuti apertamente in parlamento e nel paese. Per questo motivo, è bene tenere alta la guardia della democrazia, contro tutti i trasformismi e tutte le ammucchiate possibili. Ed è bene che la speranza di provare ad essere un paese normale in cui si confrontino progetti e idee sul mondo e sulla società italiana veramente alternative non muoia. Mai.
Fonte: Linkiesta
Speculazione edilizia: così l'Italia frana
Fonte: Linkiesta
«Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all'Italia?». Era il novembre del 1994, quando Antonio Cederna, autorevole urbanista e parlamentare indipendente di sinistra, poneva questa domanda dalle colonne di Repubblica. È vero, probabilmente, che l'uomo non può impedire del tutto certi disastri naturali, ma di sicuro può prevederne, in parte, le conseguenze predisponendo adeguate precauzioni, in modo da limitarne così i danni.
In questi giorni, invece, mentre le alluvioni mettono in ginocchio intere città, sindaci e autorità non fanno altro che ripetere «non era prevedibile». Pensiamoci un istante. In Italia, si sa, le responsabilità non esistono. E purtroppo è una storia che si ripete. Torniamo a Cederna.
Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10 mila miliardi in trent'anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata (…) La difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell'industria. Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; condono per le dighe abusive, che sono 700. Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l'urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il 20 per cento (6 milioni di ettari) dell'Italia, riducendo del 30 per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali.
Sono parole che si potrebbero riportare per intero, senza aggiunte, in un articolo di commento alle drammatiche alluvioni di questi giorni. I mancati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, da sempre sottovalutati in Italia, sono alla base dei più incredibili disastri ambientali: dalle inondazioni in Sicilia, in Calabria e nel Polesine alla tragedia della diga del Vajont, dalla Valtellina e Val d'Ossola alla frana delle case abusive di Agrigento, dalle alluvioni del salernitano, di Firenze e di Genova fino ai terribili crolli dovuti ai terremoti del Belice, dell'Irpinia e del Friuli. E sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 5 mila morti e un costo stratosferico per le casse dello Stato.
L'Italia è davvero un paese strano. Ma non per ragioni culturali - le solite - quelle formulate dagli osservatori più avvertiti, che parlano di una presunta minorità antropologica degli esseri italici. Più semplicemente, per una questione di senso civico. Siamo un paese che diventa vittima sacrificale per colpa di un po' di pioggia abbondante. Solo da noi eventi climatici considerati naturali in qualsiasi altro luogo del mondo provocano alluvioni, frane, straripamenti. Con conseguenze che, per l'ignavia, l'irresponsabilità e l'arretratezza dei politici che ci governano, annichiliscono le istituzioni e annientano intere popolazioni.
Non è, ovviamente, solo colpa delle classi dirigenti succedutesi alla guida del Paese. Sarebbe una fin troppo facile consolazione. Di fronte al ripetersi ciclico di eventi di questa portata l'opinione pubblica si ribella per qualche giorno, ma poi non vigila più e torna a subire tutto in silenzio, inesorabilmente. Lo stesso fa il mondo della cultura e dell'informazione, buono a recitare qualche paternale, per poi tornare a sguazzare nell'indifferenza. È a dir poco imbarazzante, decennio dopo decennio, anno dopo anno, dover ripetere sempre le stesse cose, come se le parole dette o scritte rimbalzassero sui muri.
Eppure nel lontano 1909, un sindaco, inglese per nascita, italiano di adozione, per scelta e cultura, il repubblicano Ernesto Nathan, era riuscito a far approvare a Roma un piano regolatore che ridisegnava, sul modello dei più importanti esempi stranieri, le topografie della città, tenendo in considerazione il bilanciamento tra quartieri residenziali e spazi di verde pubblico. Una regola semplicissima, quasi elementare, che, se applicata correttamente anche altrove, avrebbe evitato il catastrofico sviluppo edilizio e i ripetuti disastri. Ma anche allora gli interessi dei proprietari fondiari e delle imprese edilizie ebbero la meglio, trovando in Italia protettori potenti ed estese complicità politiche, dagli assessorati degli enti locali, ai partiti con le loro varie clientele, fino alla stessa Chiesa, per non parlare poi dei poteri criminali e mafiosi.
Gira e rigira, si torna sempre allo stesso punto nodale. Il profitto economico immediato di imprenditori e classe dirigente ha spinto verso l'aumento vertiginoso delle aree edificabili, senza alcuna attenzione per una pianificazione ambientale razionale, nel completo disprezzo delle regole e delle norme di sicurezza, da quella anti-alluvioni a quelle antisismiche. Non è azzardato affermare che la speculazione edilizia è stata per decenni il più lucroso affare italiano, una questione di proporzioni immani, che ha pesato e continua a pesare, come è evidente in questi giorni, sulla vita di tutti noi cittadini.
A volte i luoghi comuni albergano anche in chi divulga la storia, per cui parrebbe che i democristiani siano sempre stati solo uomini politici corrotti, reazionari e socialmente arretrati. Non è affatto così. Nel 1962, per rimanere in tema, fu proprio un ministro democristiano di nome Fiorentino Sullo, a cercare di porre rimedio alle maldestre storture legislative dei decenni precedenti, proponendo un disegno di legge generale sull'urbanistica. La sua bozza, secondo la suggestione dei modelli stranieri, era stata addirittura predisposta da un pool di autorevoli tecnici, tra cui l'architetto Giuseppe Samonà e il sociologo Achille Ardigò.
La principale proposta riguardava la concessione ai comuni del diritto di esproprio preventivo di tutte le aree edificabili incluse nei piani regolatori, tassando dell'8% le enormi speculazioni precedenti. La selvaggia speculazione si sarebbe così interrotta o, quanto meno, sarebbe diminuita. Ma anche quella volta la riforma incontrò l'opposizione ferma dei poteri forti dell'imprenditoria edile nazionale e di molti settori della stampa conservatrice, nonché le connivenze del mondo politico e religioso
Negli anni Ottanta e Novanta, in più occasioni, furono i Verdi e gli Indipendenti di Sinistra a sollevare ripetutamente in parlamento la drammaticità della questione ambientale, richiamando alla semplice osservanza delle più avanzate legislazioni europee. Da allora praticamente nulla è stato fatto. La difesa dell'ambiente e la razionalizzazione dello sviluppo del territorio, urbano, costiero e rurale, in Italia continuano a rimanere, in una parola, soltanto un sogno. Basti dire che la legge urbanistica italiana risale all'età fascista, cioè al 1942. Nulla da aggiungere, dunque. Solo due sintetiche riflessioni, che si vanno ad unire, con buona probabilità inutilmente, alle tante altre fatte in questi decenni un po' da ogni parte. Ma tant'è.
La prima. Oggi più che mai, sanità e salute si trovano sempre più su posizioni paradossalmente contrapposte: l'una, in quanto organizzazione istituzionale e culturale, non riesce a tutelare concretamente l'altra. Non è, con tutta evidenza, solo un problema di mezzi e di efficienza dei servizi, ma di educazione civica e di cultura.
La seconda. Ora come sempre, lavoro e ambiente sono due termini collegati molto più di quanto, spesso, non si pensi. Storicamente l'ecologia è nata nelle fabbriche, è cominciata proprio dalle lotte dei lavoratori per la difesa dell'ambiente di lavoro, che è strettamente legato all'ambiente naturale e umano esterno. In un libro edito da Feltrinelli nel lontano 1973, scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, drammatico e amaro fin dal titolo, e sconosciuto ai più, c'era scritto “Lavorare fa male alla salute”. Il lavoro è una condizione di crescita e non può essere fonte di morte e di pericolo, come succede oggi in Italia. Tanto meno può esserlo, in un paese civile e degno di questo nome, l'ambiente circostante.
Fonte: Linkiesta