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Speculazione edilizia: così l'Italia frana

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Fonte: Linkiesta

«Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all'Italia?». Era il novembre del 1994, quando Antonio Cederna, autorevole urbanista e parlamentare indipendente di sinistra, poneva questa domanda dalle colonne di Repubblica. È vero, probabilmente, che l'uomo non può impedire del tutto certi disastri naturali, ma di sicuro può prevederne, in parte, le conseguenze predisponendo adeguate precauzioni, in modo da limitarne così i danni.
In questi giorni, invece, mentre le alluvioni mettono in ginocchio intere citt
à, sindaci e autorità non fanno altro che ripetere «non era prevedibile». Pensiamoci un istante. In Italia, si sa, le responsabilità non esistono. E purtroppo è una storia che si ripete. Torniamo a Cederna.
Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10 mila miliardi in trent'anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata (…) La difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell'industria. Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; condono per le dighe abusive, che sono 700. Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l'urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il 20 per cento (6 milioni di ettari) dell'Italia, riducendo del 30 per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali.

Sono parole che si potrebbero riportare per intero, senza aggiunte, in un articolo di commento alle drammatiche alluvioni di questi giorni. I mancati interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, da sempre sottovalutati in Italia, sono alla base dei più incredibili disastri ambientali: dalle inondazioni in Sicilia, in Calabria e nel Polesine alla tragedia della diga del Vajont, dalla Valtellina e Val d'Ossola alla frana delle case abusive di Agrigento, dalle alluvioni del salernitano, di Firenze e di Genova fino ai terribili crolli dovuti ai terremoti del Belice, dell'Irpinia e del Friuli. E sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 5 mila morti e un costo stratosferico per le casse dello Stato.
L'Italia
è davvero un paese strano. Ma non per ragioni culturali - le solite - quelle formulate dagli osservatori più avvertiti, che parlano di una presunta minorità antropologica degli esseri italici. Più semplicemente, per una questione di senso civico. Siamo un paese che diventa vittima sacrificale per colpa di un po' di pioggia abbondante. Solo da noi eventi climatici considerati naturali in qualsiasi altro luogo del mondo provocano alluvioni, frane, straripamenti. Con conseguenze che, per l'ignavia, l'irresponsabilità e l'arretratezza dei politici che ci governano, annichiliscono le istituzioni e annientano intere popolazioni.
Non
è, ovviamente, solo colpa delle classi dirigenti succedutesi alla guida del Paese. Sarebbe una fin troppo facile consolazione. Di fronte al ripetersi ciclico di eventi di questa portata l'opinione pubblica si ribella per qualche giorno, ma poi non vigila più e torna a subire tutto in silenzio, inesorabilmente. Lo stesso fa il mondo della cultura e dell'informazione, buono a recitare qualche paternale, per poi tornare a sguazzare nell'indifferenza. È a dir poco imbarazzante, decennio dopo decennio, anno dopo anno, dover ripetere sempre le stesse cose, come se le parole dette o scritte rimbalzassero sui muri.
Eppure nel lontano 1909, un sindaco, inglese per nascita, italiano di adozione, per scelta e cultura, il repubblicano Ernesto Nathan, era riuscito a far approvare a Roma un piano regolatore che ridisegnava, sul modello dei pi
ù importanti esempi stranieri, le topografie della città, tenendo in considerazione il bilanciamento tra quartieri residenziali e spazi di verde pubblico. Una regola semplicissima, quasi elementare, che, se applicata correttamente anche altrove, avrebbe evitato il catastrofico sviluppo edilizio e i ripetuti disastri. Ma anche allora gli interessi dei proprietari fondiari e delle imprese edilizie ebbero la meglio, trovando in Italia protettori potenti ed estese complicità politiche, dagli assessorati degli enti locali, ai partiti con le loro varie clientele, fino alla stessa Chiesa, per non parlare poi dei poteri criminali e mafiosi.
Gira e rigira, si torna sempre allo stesso punto nodale. Il profitto economico immediato di imprenditori e classe dirigente ha spinto verso l'aumento vertiginoso delle aree edificabili, senza alcuna attenzione per una pianificazione ambientale razionale, nel completo disprezzo delle regole e delle norme di sicurezza, da quella anti-alluvioni a quelle antisismiche. Non
è azzardato affermare che la speculazione edilizia è stata per decenni il più lucroso affare italiano, una questione di proporzioni immani, che ha pesato e continua a pesare, come è evidente in questi giorni, sulla vita di tutti noi cittadini.
A volte i luoghi comuni albergano anche in chi divulga la storia, per cui parrebbe che i democristiani siano sempre stati solo uomini politici corrotti, reazionari e socialmente arretrati. Non
è affatto così. Nel 1962, per rimanere in tema, fu proprio un ministro democristiano di nome Fiorentino Sullo, a cercare di porre rimedio alle maldestre storture legislative dei decenni precedenti, proponendo un disegno di legge generale sull'urbanistica. La sua bozza, secondo la suggestione dei modelli stranieri, era stata addirittura predisposta da un pool di autorevoli tecnici, tra cui l'architetto Giuseppe Samonà e il sociologo Achille Ardigò.
La principale proposta riguardava la concessione ai comuni del diritto di esproprio preventivo di tutte le aree edificabili incluse nei piani regolatori, tassando dell'8% le enormi speculazioni precedenti. La selvaggia speculazione si sarebbe cos
ì interrotta o, quanto meno, sarebbe diminuita. Ma anche quella volta la riforma incontrò l'opposizione ferma dei poteri forti dell'imprenditoria edile nazionale e di molti settori della stampa conservatrice, nonché le connivenze del mondo politico e religioso
Negli anni Ottanta e Novanta, in pi
ù occasioni, furono i Verdi e gli Indipendenti di Sinistra a sollevare ripetutamente in parlamento la drammaticità della questione ambientale, richiamando alla semplice osservanza delle più avanzate legislazioni europee. Da allora praticamente nulla è stato fatto. La difesa dell'ambiente e la razionalizzazione dello sviluppo del territorio, urbano, costiero e rurale, in Italia continuano a rimanere, in una parola, soltanto un sogno. Basti dire che la legge urbanistica italiana risale all'età fascista, cioè al 1942. Nulla da aggiungere, dunque. Solo due sintetiche riflessioni, che si vanno ad unire, con buona probabilità inutilmente, alle tante altre fatte in questi decenni un po' da ogni parte. Ma tant'è.
La prima. Oggi pi
ù che mai, sanità e salute si trovano sempre più su posizioni paradossalmente contrapposte: l'una, in quanto organizzazione istituzionale e culturale, non riesce a tutelare concretamente l'altra. Non è, con tutta evidenza, solo un problema di mezzi e di efficienza dei servizi, ma di educazione civica e di cultura.
La seconda. Ora come sempre, lavoro e ambiente sono due termini collegati molto pi
ù di quanto, spesso, non si pensi. Storicamente l'ecologia è nata nelle fabbriche, è cominciata proprio dalle lotte dei lavoratori per la difesa dell'ambiente di lavoro, che è strettamente legato all'ambiente naturale e umano esterno. In un libro edito da Feltrinelli nel lontano 1973, scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, drammatico e amaro fin dal titolo, e sconosciuto ai più, c'era scritto “Lavorare fa male alla salute”. Il lavoro è una condizione di crescita e non può essere fonte di morte e di pericolo, come succede oggi in Italia. Tanto meno può esserlo, in un paese civile e degno di questo nome, l'ambiente circostante.

Fonte: Linkiesta

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