Se la sinistra entra in pista senza automobile
Fonte: Qualcosa di Sinistra
E’ ormai risaputo, del tutto assodato, che l’Italia delle istituzioni pubbliche, così come la sua classe politica, è completamente delegittimata. E allora che si fa? – chiederete voi. Che succederà quando questo governo tecnico terminerà il suo compito e sarà ridata la parola agli elettori?
La soluzione prospettata dai principali partiti, cioè la riforma del meccanismo di elezione che modifica i criteri (mescolando proporzionale e maggioritario a seconda delle convenienze del momento) e mantiene la scelta dei candidati alle segreterie, non ci piace per nulla.
Non ci piace neppure, peraltro, l’idea che passa in molti ambienti della cosiddetta anti-politica, cioè l’eliminazione dei partiti, la partecipazione diretta dei cittadini alla politica non si sa bene poi con quali criteri, il respingimento delle candidature sulla base di fedine penali o esperienze politiche passate, come se bastasse l’aver fatto, anche bene, il consigliere comunale o l’assessore in una giunta per macchiarsi in eterno di una specie di colpa primigenia.
No, la questione posta in questo modo è astratta: in una democrazia parlamentare, sono sempre e comunque le forze politiche, che piaccia o meno, i soggetti che agiscono e prendono le decisioni. Occorre assolutamente riformarli, dunque, anche stravolgerli nella loro struttura, per cambiare le istituzioni nel profondo.
Si illude, infatti, chi ritiene l’attuale Pdl logoro, il Terzo Polo inconsistente, il Pd disorientato. Apparentemente è proprio così, ma in realtà questi partiti hanno dimostrato di avere risorse inesauribili, a volte con accordi sottobanco, altre volte perfino alla luce del sole, per superare indenni qualsiasi crisi. Andreottianamente, verrebbe da dire. Di certo, non sembrano capaci di saper mobilitare gli elettori e di compiere quelle riforme di cui parlano, viene ormai da dubitare quanto sinceramente, da anni. Però, è pur sempre vero che questi partiti, insieme, raggiungono circa la metà dei voti degli elettori, checché ne pensi l’antipolitica.
Il discredito in cui essi versano, oggettivamente, è davvero tanto. Non è, peraltro, una novità. Capitò qualcosa di simile dopo Tangentopoli: Dc, Psi e partiti minori furono spazzati via, l’ex Pci poi Pds si salvò per il rotto della cuffia, ma, timido, informe, indeciso, non seppe mettere in piedi quella alternativa di riformismo militante che sarebbe servita per cambiare fin dalle fondamenta il paese. Poi venne Berlusconi, il resto lo conosciamo.
Che fare, dunque?
Il vero problema della crisi politica italiana (ma anche di quella economica e sociale) è la mancanza di forze politiche nuove. Senza questa condizione, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, non ci sarà alcun reale rinnovamento, lo stato italiano continuerà, più o meno inesorabilmente, il suo declino, fino ad arrivare ai livelli più bassi tra le cosiddette democrazie, non solo europee, su tutti i fronti: Pil, lavoro, ricerca e sviluppo “umano”, diritti.
Ci sovviene in aiuto la storia. Di fronte al sommovimento radicale dovuto a Tangentopoli, non spuntò come un fungo solo Berlusconi, ma ci furono anche altri fenomeni: il tentato rinnovamento del Pri, la nascita della Rete di Orlando, Dalla Chiesa e Novelli, i sindaci della sinistra critica, la stessa Lega Nord, che comunque esprimeva una reale voglia di cambiamento, sebbene eterogenea e ambigua. Proprio come accade oggi, con il movimento Cinque stelle, con Sinistra ecologia e libertà, con la rete dei sindaci Pisapia e De Magistris, e con altri gruppi più o meno visibili.
A questo quadro ricco ma molto vario, vanno aggiunti gruppi di intellettuali, associazioni, riviste, movimenti, una vasta area di operatori e soggetti sociali, per usare un termine per la verità un po’ abusato, la cosiddetta “società civile”, tutta gente non iscritta ad alcun partito, che vorrebbe costituire una nuova politica. Soggetti caratterizzati da un bisogno di rappresentatività in parlamento, che fino ad oggi non si è mai potuto realizzare, sia per colpa delle tradizionali forze politiche, sia per colpa del proprio velleitarismo, della propria conflittualità. Ma anche da un bisogno di moralità, di pulizia, di “buona politica”, che si è espresso in più occasioni, idealmente nei movimenti di piazza, con studenti, lavoratori, pensionati, donne (si pensi alla imponente manifestazione del “Se non ora quando”), e più concretamente, nei referendum autogestiti sui beni pubblici (che non a caso ha ricordato, storicamente, la mobilitazione atipica sul referendum contro il nucleare militare e poi civile degli anni ottanta, con i partiti a ruota della società), con un risultato a tal punto imprevedibile, quasi stupefacente, da rompere completamente i vecchi e usurati schemi politici, anche con l’aiuto di una risorsa nuova, insperata, e quanto mai democratica, come i social network.
Finora i partiti tradizionali hanno dormito sonni abbastanza tranquilli perché queste forze si sono mosse in modo sfilacciato, disarticolato, eterogeneo. Ma l’esistenza di fili conduttori, aspirazioni e ideali che li uniscono, in particolare temi come la critica al neo-liberismo, la lotta alla corruzione, la battaglia contro la criminalità, la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, rappresenta la base per la costruzione di una nuova forza politica capace di interpretare correttamente le richieste e di seguire le dinamiche di una società moderna e globale completamente mutata rispetto al passato.
In una nuova situazione di transizione politica come l’attuale, questi soggetti, che sono la parte indubbiamente più viva e dinamica della società italiana, sottopongono quotidianamente a una critica impietosa la forma-partito, uno strumento giudicato ormai non più intoccabile. In tal senso, l’unico modo che il partito avrebbe per salvarsi dal naufragio e per rimanere in vita, è quello di evitare di chiudersi nella solita funzione decisionale burocratica e di vertice (a questo proposito dovrebbe far pensare il fatto che, nei vari appuntamenti delle primarie, da Vendola a De Magistris da Pisapia a Zedda, fino al recente Doria, venga sempre premiato il candidato che non è espressione diretta del partito), e di aprirsi al microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale, interloquendo con esso a partire dai problemi del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’immigrazione, della pace.
Lo si è visto nella parabola del Pd, che pure inizialmente era stato accolto in modo entusiasta dall’elettorato del centro-sinistra: un patrimonio di speranze è stato sprecato incredibilmente e la colpa ricade, senza scusanti, nell’attuale dirigenza, che dovrebbe quantomeno fare autocritica, cospargersi la testa di cenere, e aprirsi finalmente all’esterno. Anzi, per dirla alla Moretti, dovrebbe aprire le porte a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, e dire “venite, venite nel partito, prendetelo!”.
Nel Pd, infatti, storie troppo diverse, pregiudizi, interessi immediati contrastanti, gruppi di potere non disponibili a lasciarsi liquidare, hanno condizionato e condizionano tuttora fortemente le nuove leve, ed i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti: disorientamento assoluto dell’elettorato abituale, vento dell’antipolitica.
E’ bene anche dire, per correttezza, che il quadro del rinnovamento sarebbe incompleto se non si aggiungesse quella minoritaria parte di mondo racchiuso nei partiti tradizionali, che pure spinge, timidamente, in direzione del cambiamento. Ci sono pezzi e soggetti costruttivi anche dentro ai partiti tradizionali, è evidente. Se anziché parlare di Pdl si parlasse di elettorato di centro-destra, se anziché dire Terzo Polo si dicesse elettore moderato, se anziché scrivere Pd si intendesse centro-sinistra, se invece di Chiesa ci si riferisse al mondo cattolico della base, si capisce bene come in queste realtà esistano forze vere e sincere, schierate contro la degenerazione e la corruzione, con le quali poter costruire una politica nuova.
Va assolutamente evitato di riproporre meccanismi e dinamiche vecchie, destinate alla sconfitta, foriere solamente di illusioni. Il popolo del centro-sinistra ne ha subite fin troppe, fin dal lontano ’48: negli anni sessanta la divisione tra Pci e Psi scavata dal centro-sinistra, negli anni settanta quella dovuta al compromesso storico, negli anni ottanta il craxismo, negli anni novanta i contrasti dell’Ulivo, infine, l’indeterminatezza del Pd.
E’ giunto il momento che le forze vitali della società mettano da parte divisioni e rancori, che i pochi settori vivi dentro i partiti della sinistra si uniscano per dar vita ad una forza politica di sinistra completamente nuova, che selezioni, in modo partecipato e democratico, sulla base delle competenze professionali, la propria giovane classe dirigente, capace di parlare un linguaggio moderno, dinamico ma carico di contenuti e non ignaro del ruolo fondamentale della memoria storica. La storia recente dimostra che costruire un calderone vuoto, un partito liquido senza spina dorsale, senza riferimenti culturali precisi, è stato dannosissimo. Parlare di alleanze, di primarie, di candidato premier e di programma politico, allo stato attuale, è del tutto inutile. Sarebbe, semplicemente, come entrare in pista senza automobile.
Fonte: Qualcosa di Sinistra
Divorzio breve: l'Italia dei diritti si avvicina all'Europa
Fonte: Internet
È ripreso l’iter per il “divorzio breve”. Monti, come fecero già Moro e Andreotti su divorzio e aborto, eviterà di prendere posizione, rendendo possibili maggioranze trasversali. La legge attuale infatti prevede 3 anni di separazione prima della possibilità di divorziare.
La storia delle modifiche non ha avuto vita facile. Nel 2003 la deputata Ds Montecchi firmò la prima proposta, prevedendo una riduzione dei tempi per le coppie senza figli e disposte a presentare una richiesta consensuale. Dopo l’accordo in commissione, tutto finì con un nulla di fatto: la Chiesa e i cattolici intransigenti, nonché gli avvocati, svolsero una efficace azione di contrasto e rimandarono la discussione. In aula fu approvato con voto segreto un emendamento di Lega e Udc che cancellava la sostanza di quel disegno di legge. Rutelli, un tempo sostenitore radicale della legge sul divorzio, dichiarò solennemente: «Nell’agenda delle priorità italiane il divorzio breve è al cinquecentesimo posto». Oggi il Pd vuole abbassare la soglia ad un anno, in tutti i casi. Il Pdl sarebbe d’accordo all’abbassamento ma solo in assenza di figli minorenni. I “guastafeste” i radicali vorrebbero il divorzio “lampo”, cioè senza attese. L’Udc appoggerebbe una riduzione dei tempi ma solo fino a 2 anni, mantenendoli a 3 in presenza di minori.
Il punto è che il “limbo” che passa tra la separazione e il divorzio non serve da pausa di riflessione, come era nelle intenzioni del legislatore più di quarant’anni fa, ma diventa un periodo di alta conflittualità tra i coniugi, nonché di sofferenze per i figli. Molte coppie si rivolgono alla Sacra Rota, il tribunale ecclesiastico che permette di dichiarare “nullo” il matrimonio religioso, con un giro d’affari non indifferente e con cause fuori tariffa. Altre finiscono ad affittare appartamenti all’estero, per avere una residenza momentanea e ottenere così il divorzio (che lo Stato italiano si limita a trascrivere).
Ma in Italia siamo sempre stati un passo indietro. Mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra o in Francia, il divorzio esisteva da secoli, qui da noi, ancora negli anni Cinquanta, si inventava il “piccolo divorzio”: un disegno di legge che limitava la possibilità di divorzio a casi particolarmente drammatici, se uno dei coniugi fosse un serial killer, o un malato di mente, o semplicemente stesse in carcere da decenni per tentato omicidio o, al limite, dopo una separazione per più di quindici anni. Ovviamente non se ne fece nulla, e si dovette aspettare il 1970 con la legge Fortuna-Baslini e il referendum del 1974 per veder sancita una conquista civile che altrove era già data per acquisita.
Si potrebbe ricordare che in Inghilterra, alla metà degli anni Sessanta, si ebbe una svolta nell’opinione pubblica, quando un autorevole commissione creata dall’arcivescovo di Canterbury sostenne, senza alcuno scandalo pubblico, la necessità di riformare radicalmente le leggi esistenti, introducendo il principio del fallimento o del disfacimento della comunione di vita familiare come unica causa del divorzio. In Italia sarebbero parsi dei marziani, e invece, secondo questa commissione, la società non aveva alcun interesse a far sopravvivere l’involucro giuridico del matrimonio, quando al suo interno questa comunione fosse venuta meno. Doveva, invece, fare tutto il possibile perché lo scioglimento di questo vincolo non comportasse alti costi umani, ma avvenisse con il minimo di sacrificio e di tempi. Appunto, di tempi.
In Svezia la richiesta di divorzio viene automaticamente e immediatamente accettata se a presentarla sono entrambi i coniugi; se uno dei due si oppone ci vogliono al massimo 6 mesi. Tempi minori rispetto a noi ci sono un po’ ovunque in Europa (tranne che in Irlanda, in Polonia e in qualche stato minore): da pochi mesi al massimo a 2 anni in Francia, in Svezia, in Olanda, in Inghilterra, in Germania. Il “divorzio espresso” è stato introdotto, nel 2005, in Spagna, con la possibilità di divorziare unilateralmente, senza alcun motivo e in modo immediato. In Brasile, di recente, si può richiedere il divorzio dopo due anni di provata separazione coniugale, senza la necessità di dover passare dal tribunale, e con effetti immediati qualora i coniugi siano in accordo fra loro o non abbiano figli minorenni.
È avvenuta, negli ultimi decenni, una rivoluzione silenziosa nella vita di coppia degli italiani: il numero dei divorzi è cresciuto, quello dei matrimoni è diminuito, determinando grandi cambiamenti sociali: la diffusione delle convivenze prematrimoniali, la moltiplicazione di nuovi tipi di famiglie, nucleari incomplete e ricostituite. Questo processo ha messo in moto dinamiche di mobilità sociale un tempo impensabili, ma ha anche creato nuove povertà. Ci ha avvicinato, in ogni caso, a tutti gli altri paesi industrializzati occidentali.
Secondo i più recenti dati dell’Istat, nel 2009, le separazioni in Italia sono state 86mila e i divorzi 54mila. I due fenomeni sono in costante crescita: se nel 1995, ogni mille matrimoni si sono registrati 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2009 sono passati a 297 separazioni e 181 divorzi. Per dare l’idea dell’aumento, si pensi che, nel 1978 (a 8 anni dalla legge e a 4 dal referendum), i divorzi erano appena 12mila e le separazioni solo 34mila. Sempre nel 2009, inoltre, i matrimoni religiosi sono stati 145 mila, quelli civili 85 mila, cioè il 64% contro il 36%, per un totale di 230 mila. Si ricordi che nel 1972, cioè appena 2 anni dopo la legge, i matrimoni in totale erano 415 mila, di cui solo il 7,3% celebrati con rito civile.
L’età media degli italiani che arrivano alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 per le mogli; in caso di divorzio si passa, rispettivamente, a 47 e 43 anni. Qui le differenze con gli altri paesi si fanno considerevoli: già nel 1977, nei maggiori paesi del Nord-Europa e negli Stati Uniti, l’età media al divorzio era per gli uomini di 35-36 anni, per le donne di 32-33 anni, e nei decenni successivi le medie, in questi paesi, si sono ulteriormente abbassate. Le nostre trasformazioni del diritto di famiglia e delle leggi sul divorzio sono avvenute in un arco di tempo più breve, i cambiamenti maggiori da noi si sono concentrati in un ventennio a fronte di cambiamenti che negli altri paesi sono avvenuti in un secolo circa. Per questo da noi certi comportamenti hanno agito meno in profondità nella popolazione.
In Italia è presente inoltre una peculiarità (comune solo a qualche paese dell’America Latina): esistono sia la separazione che il divorzio. Nel senso che prima ci si separa e poi si divorzia, mentre altrove o la separazione non esiste, come in Finlandia, in Svezia o in Austria, oppure, come accade in Francia, Germania e Spagna, la separazione esiste ma non costituisce condizione essenziale per chiedere il divorzio, per cui è sufficiente la separazione di fatto per un certo periodo di tempo. Questo ha, fondamentalmente, allungato i tempi.
Chi vuole il divorzio deve quindi attendere due sentenze dei tribunali. Per colpa dell’inefficienza dell’apparato della giustizia italiana (secondo un recente rapporto europeo, per le procedure di primo grado da noi occorrono 634 giorni, il doppio di Germania, Francia e anche Portogallo), in particolare nel Sud d’Italia, i tempi si allungano ulteriormente e le spese aumentano. Molti dei coniugi, infatti, si arrestano a questo punto. Chi va avanti, trascorso questo periodo, deve comunque ritornare dall’avvocato e andare ancora in tribunale. Di solito, stando agli studi dei sociologi, va avanti chi occupa una posizione più alta nella piramide sociale: quanto più è alto il titolo di studio o il ruolo sociale, con tutte le sue relazioni e i legami, tanto più breve il periodo che passa tra la richiesta e la sentenza di divorzio. Un altro luogo comune da sfatare è la tesi che il divorzio sia un fattore di ascesa sociale per le donne. Gli studi dimostrano che non è affatto così e che chi diventa più povero, dopo un divorzio, è quasi sempre la donna. Quindi la scelta del divorzio, e la necessità di avere tempi adeguati per sancirlo, è una necessità improrogabile.
Psicologicamente, inoltre, non va sottovalutato un aspetto: il divorzio è un momento di forte difficoltà nella vita di una persona. Uno Stato civile dovrebbe aiutarla e non prolungarne l’agonia. La grande maggioranza dei coniugi che divorziano si sono sposati in Chiesa con una cerimonia solenne. Ma anche quando il matrimonio si è celebrato in comune con rito civile, esso è accompagnato dallo stesso rito sociale: alla presenza di testimoni, ma spesso anche di genitori, parenti, amici, i due sposi si scambiano gli anelli, mentre i fotografi scattano centinaia di foto, e la cerimonia è seguita da feste e pranzi. In modo del tutto diverso ha luogo il divorzio. Pur essendo un passaggio altrettanto cruciale nella vita di una persona, esso non è accompagnato da alcun rito significativo, anzi è un evento “nascosto”, senza parenti, ma davanti a giudice ed avvocati, in una stanza sulla cui porta è appeso l’elenco con i nomi di tutte le ex coppie, per compiere un atto che dura pochi minuti, al termine del quale i protagonisti se ne vanno ognuno per la sua strada.
Negli ultimi tempi le famiglie ricostituite sono cresciute moltissimo anche in Italia. Negli altri paesi non è una novità, basti pensare che in Inghilterra e in Francia, la quota delle seconde nozze raggiunse, già nel Cinquecento e nel Seicento, le punte del 25-30% dei matrimoni. Per non parlare della fitta letteratura straniera sui cosiddetti “matrimoni di prova”, famosi già nel Settecento e Ottocento, basti pensare alle Affinità elettive di Goethe, in cui i protagonisti discutevano amabilmente di prove e di esperimenti coniugali e della necessità di assumere “informazioni reciproche”. Nel Novecento poi ne discussero fior di intellettuali e filosofi, per esempio Bertrand Russell. Si tratta, ovviamente, di situazioni molto diverse dall’oggi, che però danno bene l’idea del dell’apertura mentale presente in altri paesi, anche in epoche remote. Ma non è stata sempre e solo una prerogativa degli stranieri. A proposito della necessità di ricorrere al divorzio, in un libro che risale addirittura ai primi dell’Ottocento, Melchiorre Gioia scrisse che «Mostrare sollecitudine all’amore a chi mortalmente annoja, vivere per molto tempo sotto l’autorità di uno sposo che si disprezza nel fondo dell’animo, è uno stato orribile». E, alla fine dell’Ottocento, Heinrich Heine avanzò qualche dubbio sul matrimonio, rincarando la dose: «Chiunque si sposi è come il Doge che si congiunge in matrimonio con il Mar Adriatico, non sa quel che c’è dentro: tesori, perle, mostri, tempeste sconosciute».
Se è vera la vecchia tesi della sociologa Jessie Bernard, secondo cui in ogni unione coniugale ci sarebbero almeno due matrimoni, quello del marito, che influirebbe su di lui sempre positivamente, e quello della moglie, che avrebbe, invece, quasi sempre un’azione negativa e dannosa su di lei, allora l’approvazione del “divorzio breve” permetterebbe, quantomeno all’uomo, di dare un tocco di positività in più alla sua vita, eventualmente, risposandosi con un’altra donna.
Fonte: Linkiesta
Neve, inefficienza e corruzione: è il 1956 o e oggi?
Fonte: Internet
Non c’è troppo da meravigliarsi del malcostume e inefficienza che monopolizzano in questi giorni le cronache italiane. Quando si sente ripetere il solito luogo comune, quella specie di chiacchiera da bar, per cui l’Italia «è sempre stata così», e per cui noi siamo sempre stati «un paese allo sbando», forse chi lo dice non ha poi tutti i torti. Ripensando alla neve di questi giorni, basta andare indietro nel tempo. E così si arriva alla famosa nevicata del ’56. Quella ricordata in una canzone scritta da Califano e cantata al festival di Sanremo da Mia Martini.
Un po’ per curiosità, un po’ per malizia siamo andati avanti a sfogliare i giornali dell’epoca. Era il febbraio del ’56. Fu, per il nostro paese, la più grande nevicata del secolo. Un’ondata di freddo siberiano portò gelo e neve ovunque. Le temperature delle nostre città, dal nord al sud (addirittura fino a Lampedusa e Pantelleria), raggiunsero dai -20 gradi di Bergamo al -1 di Palermo. Piazza San Pietro si trasformò in una pista da sci. Il freddo glaciale durò più di 20 giorni. Per dare meglio l’idea di cosa accadde, basta riportare qualche passo tratto direttamente da un quotidiano:
Masse d’aria glaciale hanno portato la neve nella penisola. Il primato del freddo in Val Venosta con meno 28. Treni bloccati, gravi ritardi e disagi per i passeggeri. Tutti i corsi d’ acqua che scendono dalle vallate sono gelati. A rendere maggiormente fredda la temperatura contribuisce il vento che da oltre 36 ore soffia foltissimo. Lo strato di ghiaccio formatosi sulle strade ha causato incidenti a raffica. A Livorno il freddo intenso ha presso che interrotto l’attività nel porto. Il Vesuvio sino a quota 350 è ammantato di neve. Sono interrotte le comunicazioni stradali sulla Sila. Numerosi canali di bonifica sono gelati. In alcune zone della città si raggiungono i 12 cm di accumulo. Il traffico impazzisce e alla fine della giornata sono tantissimi gli incidenti causati dalla neve. Chiuse le scuole. Si lamentano sei morti per assideramento.
Sulla neve, il paragone oggi è presto fatto, sul resto, invece, che viene il bello. Altro che foto di Vasto, con Di Pietro e Vendola che tirano per la giacca Bersani. Altro che scandalo Lusi che fa tremare l’ex Rutelli e tutto il Pd. Nel ‘56 la sinistra viveva una delle più grandi spaccature della sua storia, a seguito delle denunce di Chruščёv contro lo stalinismo al XX congresso del Partito comunista sovietico e, soprattutto, dopo l’insurrezione degli ungheresi di Nagy contro i sovietici. Mentre i socialisti di Nenni approvavano un documento che definiva l’intervento dell’Urss in Ungheria un atto incompatibile col diritto dei popoli all’indipendenza e 101 intellettuali comunisti firmavano un manifesto che condannava l’intervento e lasciavano il Pci, Togliatti su Nuovi Argomenti rinnovava la fiducia al modello del Pcus, mentre l’Unità e la direzione comunista definivano gli insorti ungheresi come dei controrivoluzionari traditori. Insomma, cambiano i fatti, cambiano i nomi, ma nella sinistra, lo scontro tra riformisti e radicali è sempre stato di moda, ed ha sempre suscitato profonde emozioni nella base del suo elettorato.
Anche la Cina, così come accade oggi sulle questioni economico-finanziarie del mondo globale, pure allora era al centro dei riflettori del mondo: Mao Tse-Tung, proprio in un solenne discorso del 2 maggio del ’56, si lanciava, con la cosiddetta liberalizzazione culturale dei “cento fiori”, alla conquista, si fa per dire, dell’Occidente. Israele, che di recente ha minacciato di voler attaccare l’Iran con le sue testate nucleari, il 29 ottobre del ’56, inviava le sue truppe ad occupare il monte Sinai in Egitto. Ma non a parole, le inviava sul serio, provocando l’intervento dell’Onu (che anche allora, peraltro, servì a poco).
Intanto, sempre nel gelido febbraio del ’56, con l’intento di una campagna moralizzatrice e a difesa della laicità e dei diritti civili di tutti i cittadini italiani, da una costola del partito liberale, nasceva, nel corso di un improvvisato convegno romano, il partito radicale di Ernesto Rossi, Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, Eugenio Scalfari e altri. Da allora seguirono grandi battaglie e ideali. Pinzillacchere, direbbe Totò, a confronto di quelle dei radicali di oggi, che vanno dietro niente meno che al “fumus persecutionis” della magistratura contro il parlamentare del Pdl Alfonso Papa.
Non c’erano i forconi nel lontano ’56, ma la crisi dell’agricoltura si faceva sentire pesantemente anche allora (il miracolo economico non aveva ancora dato i suoi frutti). Infatti, durante una serie di manifestazioni di braccianti agricoli e disoccupati, a Potenza, Comiso, Foggia, Barletta e a Partinico, a cui partecipò anche lo scrittore Danilo Dolci, arrestato durante gli scontri, la polizia sparava sulla folla, facendo centinaia di feriti e addirittura 3 morti. Anche allora, come è accaduto per tassisti, autotrasportatori e agricoltori, tutto finiva “con tanto rumore per nulla”, al massimo con una interrogazione parlamentare, poi riposta nei cassetto di qualche gruppo parlamentare che la esibiva come patentino al momento di chiedere il voto.
La grande industria di stato, però, se la passava decisamente meglio. E non parliamo solamente della Fiat, costretta oggi ad andare a cercare altrove nuovi mercati, con conseguenze preoccupanti per i suoi dipendenti. L’Eni non lamentava alla stampa, nelle parole del suo presidente, possibili interruzioni di forniture del gas da riscaldamento. Nel ‘56 l’Eni accresceva addirittura la sua quota di mercato internazionale e acquistava il 20% di azioni di una compagnia petrolifera egiziana. Quanto all’Iri, lo stesso anno in cui veniva istituito il Ministero delle Partecipazioni sta tali, otteneva dal governo la concessione per la costruzione dell’Autostrada del Sole Milano-Napoli.
Prima gli autotrasportatori, per andare da Napoli a Milano, impiegavano due giorni di viaggio. La prima pietra della tratta Milano-Parma fu posta il 19 maggio del ‘56. Non che oggi un automobilista se la passi poi tanto meglio: qualcuno dirà che è colpa dei cantieri, qualcun altro della mafia, qualcun altro ancora della neve, ma, alla fine dei conti, dopo circa 56 anni, quell’autostrada, caso unico al mondo, in molti punti sembra una strada sterrata e in tanti altri deve ancora essere perfino ultimata. E sempre nel ‘56, l’Iri incorporava anche la compagna aerea Alitalia: a quei tempi si trattava di una delle compagnia più all’avanguardia nel panorama europeo, oggi è messa seriamente in crisi dalle compagnie aree dei voli low cost ed è finita tra le ultime posizioni nella classifica internazionale per impatto ambientale.
Se prendiamo in rassegna il mondo del lavoro, nel ’56 proseguiva la morsa delle organizzazioni industriali che tenevano i sindacati fuori dalle fabbriche, ricorrendo alla polizia privata, e che si organizzavano, attraverso i servizi segreti deviati, con le prime schedature politiche dei lavoratori (come risulta dall’inchiesta parlamentare del 1955 intitolata “Condizioni di lavoro nelle fabbriche”). La corruzione e gli scandali nel mondo dell’edilizia non mancano i parallelismi: il ’56 non ha nulla da invidiare alla recente affittopoli, alla P3 o P4, e agli intrecci tra politica, economia nelle inchiesta sulla protezione civile, se è vero che il settimanale “L’Espresso” denunciò con più di un articolo dal titolo Capitale corrotta = Nazione infetta (e chiaramente anche allora senza successo), l’Immobiliare Roma accusata di speculazione edilizia e violazione delle norme urbanistiche comunali.
Chiudiamo, giusto per non farci mancare nulla su questo paradossale ma, purtroppo, illuminante confronto tra l’Italia di oggi e quella del ’56, con l’immancabile razzismo. Più di cinquant’anni fa, come ricordano i nostri nonni, a Torino, in alcune fabbriche, gli operai meridionali, siciliani, calabresi, pugliesi e campani, venivano soprannominati “Napoli” dai settentrionali. A quei tempi, nel capoluogo piemontese si si diffondevano vergognosi cartelli con la scritta "affittasi, esclusi meridionali". Torino era la destinazione ideale dei tanti immigrati del profondo Sud che riempivano i cosiddetti “treni del sole”, quelli notturni, quelli stessi convogli che proprio oggi sono stati dismessi (causando il licenziamento di centinaia di addetti). Oggi, come risulta da una freschissima cronaca, in Veneto (per l’esattezza a Mirano in provincia di Venezia) un meridionale forse potrà affittare (rigorosamente “a nero”) una casa, ma non può assicurare la sua automobile. «Per colpa di disposizioni dell’assicurazione», ha gentilmente fatto presente la titolare dell’agenzia dicendo che non poteva mandare avanti la pratica ad un giovane di 26 anni di origini meridionali, ma residente nel veneziano ormai da tempo. Questo succede nell’Italia di oggi.
Fonte: Linkiesta
La libertà di stampa in Italia: oggi come ieri
Fonte: Cronache laiche
«La stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza. Il tema fu già posto da Einaudi alla Costituente, ma né allora né dopo si è riusciti a risolvere questo enorme problema di libertà e dei diritti umani. Non so come giocherà la nuova legge sulla stampa; ma è certo che la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva [...] Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale».
Diciamo subito che la frase si colloca alla fine degli anni Settanta. Sfidiamo chiunque, a parte qualche illustre storico ferratissimo sull’argomento, a indovinare quando e chi ha scritto queste parole. Proviamo a fare un gioco di ipotesi. Non può essere stato un grande scrittore o un artista dell’epoca, almeno per due ragioni: analizzandola filologicamente si nota che la frase si addentra nel tecnico, non è ad effetto, non è altamente poetica, evocativa, accattivante e neppure un po’ populista; inoltre, morto Pasolini (morto non a caso, ma probabilmente proprio per i suoi modi di esprimersi controcorrente, spesso imbarazzanti), nessun altro, a conti fatti, ha posto la questione della libertà di stampa in Italia in termini così netti, almeno a quei tempi. Altro discorso è poi quando è arrivato il conflitto di interessi di Berlusconi, e tutti gli intellettuali si sono svegliati dal torpore ed hanno cominciato, un giorno sì e l’altro pure, a porre il problema, facendone anzi un cavallo di battaglia buono per aizzare le folle e vendere qualche copia in più dei loro libri o pamphlet. No, non di un grande intellettuale si tratta. Non può essere stato nemmeno un gettonato opinionista o un grande giornalista della carta stampata, perché sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangia. Il coraggio e le belle parole le profondono e le dispensano, ampiamente, su altri temi (cavalcando l’onda dell’emozione e del sensazionalismo, dal caso Tortora a Vanna Marchi, da Moggi al capitan Schettino). Non può essere stato, infine, una personalità politica di primo piano nel culmine delle sue funzioni di potere, né con incarichi al governo, per ovvie ragioni di relazioni e scambi di favore con le stesse grandi testate, né all’opposizione, tenuto conto che, dalla fine degli anni sessanta in poi, il più grande partito di opposizione, cioè a dire il Pci, ha cercato in tutte le maniere di superare quell’isolamento (la cosiddetta convention ad excludendum non era valida solo per l’approdo al governo ma anche per lo spazio su Tv e giornali a grande tiratura) a cui era stato costretto dalla Dc (ma anche poi dal Psi) durante la lunga fase della guerra fredda.
No, nulla di tutto questo. Queste durissime parole, che possiamo riproporre valide e intatte oggi, così come sono, senza modificare una virgola, sono state scritte da un uomo che si trovava stipato in un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, grande quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi, in cui c’erano solo una branda, un water, qualche foglio di carta e una penna. Quell’uomo, tenuto prigioniero dalle Br per ben 55 giorni in quello stato, è colui che più di tutti, più di chiunque altro, più di qualsiasi paladino delle libertà nostrane tanto in voga oggi, ha il diritto ed ha l’autorità morale e intellettuale per darci lezioni, allora come oggi, sulla libertà di opinione e di informazione in Italia. Un uomo costretto, in quei lunghi e drammatici giorni, a scrivere per non morire e, soprattutto, a scrivere per riuscire a sopravvivere idealmente, così come poi è stato, alla propria stessa morte materiale.
Per chi non ci credesse, è bene segnalare lo scritto in cui queste parole si trovano: Memoriale, XVI tema – Sulla indipendenza della stampa italiana, in Comm. stragi, II 154-155. Si tratta di quel noto memoriale, ritrovato in più parti e in tempi diversi (1978, 1990), proprio perché in molti, e a vari livelli di potere (politico, economico, editoriale) temettero di renderlo pubblico, appunto, per via dei temi affrontati dal prigioniero. Qui basta ricordarne qualcuno: l’organizzazione della Gladio, i contatti tra le Br e i servizi segreti occidentali, alcuni retroscena della strategia della tensione, le connivenze tra politica, economia, criminalità per far affari sulle spalle dei contribuenti. Insomma ce n’era per far tremare i polsi a chiunque. Ma il passaggio che sottoponiamo all’attenzione dei lettori, quello relativo alla mancanza di libertà di informazione in Italia, è un aspetto che ha influenzato, forse più di ogni altro, l’evoluzione democratica e civile del nostro paese.
Scriviamo questo non in modo estemporaneo, per un tipico vezzo intellettuale (da cui è bene sempre rifuggire), né per dar sfoggio di particolari reminiscenze sulla più recente storia d’Italia, ma perché sollecitato di recente dalle notizie provenienti dal rapporto di Reporters sans frontières, un’organizzazione internazionale, nata in Francia (la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione – è bene ricordarlo di questi tempi), a difesa della libertà di stampa nel mondo. L’Italia, nel quadro comparato con gli altri paesi, si trova addirittura al sessantunesimo posto (per dare un’idea, prime sono Norvegia e Finlandia, la Grecia è al settantesimo, negli ultimi posti Iran, Siria, Eritrea e Corea del Nord). La situazione del nostro paese, nonostante ciò che continuano a ripetere opinionisti e politici invitati nei talk show televisivi o a scrivere dalle prime pagine dei quotidiani nazionali, non è molto diversa, e questo rapporto lo argomenta con chiarezza, da quella di paesi come, ad esempio, quelli balcanici, che vivono enormi deficit democratici oltre che economici.
In particolare, nel rapporto si segnala, anche in Italia, l’utilizzo dei media e dei giornali nazionali a grande tiratura, ma anche dei siti più visitati e quindi più remunerativi dal punto di vista commerciale e pubblicitario, per tutelare interessi privati, si sottolinea la concorrenza sleale su un mercato assai ristretto, e si pone l’accento sulla presenza di giornalisti sottopagati e spesso obbligati all’autocensura.
Non è un caso, dunque, che in Italia molti giornalisti siano ancora costretti a vivere in regime di protezione, e che tanti altri, quelli che vogliono scrivere e riportare la realtà cruda delle cose, senza intermediazioni, compromessi, favoritismi, scambi, vengano isolati e non possano svolgere dignitosamente il proprio lavoro.
Un paese in cui l’informazione indipendente non esiste o è assolutamente minoritaria, usufruisce di pochissimi mezzi, è sempre a rischio di essere strozzata e ridotta al silenzio, nell’indifferenza dei partiti di governo e di opposizione, impegnati a crescere le proprie quote di influenza proprio sui media e sulla stampa nazionale. I tentativi di introdurre leggi bavaglio, di censurare i contenuti della rete da parte del governo precedente, le polemiche furibonde di molte personalità dell’opposizione nei confronti dei giornalisti e della stampa, sono tutti segnali chiari di una forma mentis della politica italiana che, purtroppo, risale a epoche assai remote. Un paese già declassato nel 2009 a “partially free” dall’organizzazione americana sulla libertà nel mondo Freedom House.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: ma è davvero stata solo colpa di Berlusconi e del mai risolto conflitto d’interessi se la libertà di informazione in Italia è giunta ai pericolosi livelli tuttora negati dalla maggioranza degli osservatori italiani? Se ci rifacciamo al drammatico appello di Moro in carcere, che mi sembra un elemento storico molto significativo, credibile, e soprattutto non viziato da possibili forzature interpretative di parte, verrebbe proprio da rispondere di no.
Fonte: Cronache laiche
La dura strada per ottenere leggi in difesa delle donne
Fonte: Linkiesta
Una precisa valutazione delle dimensioni del problema della violenza sessuale sulle donne, nelle varie forme in cui essa si esplica (dalle molestie psicologiche agli abusi sessuali, dall’incesto allo stupro) è pressoché impossibile. Negli ultimi anni, però, da quando le donne sono riuscite ad ottenere anche importanti modifiche alla legislazione, e da quando le vittime hanno trovato voce, sulla stampa e sui media, per raccontare le loro reazioni e i loro stati d’animo alle violenze subite, il fenomeno, rimasto in buona parte ancora sommerso, ha perlomeno cominciato ad emergere nella sua gravità e portata. I dati, ancorché limitati alla superficie del problema, sono già da soli allarmanti e dovrebbero indurre tutti ad amare riflessioni.
Limitandoci all’Italia, si stima, secondo i più recenti dati dell’Istat, che 1 donna su 3 tra i 16 e i 70 anni è stata vittima nella sua vita dell'aggressività di un uomo (in particolare le giovani dai 16 ai 24 anni per il 16,3%). 6 milioni e 743 mila sono, nel complesso, quelle donne che hanno subito violenza fisica e sessuale. Quasi 700 mila donne hanno subito violenze ripetute dal partner e avevano figli al momento della violenza (nel 62,4% dei casi i figli hanno assistito a uno o più episodi di violenza). Nella quasi totalità dei casi le violenze sessuali sulle donne non sono denunciate: circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle dal partner. Risulta considerevole la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite. Inoltre, la violenza psicologica è stata subita da 7 milioni 134 mila donne: le forme più diffuse sono l'isolamento o il tentativo di isolamento (46,7%), il controllo (40,7%), la violenza economica (30,7%) e la svalorizzazione (23,8%), seguono le intimidazioni (7,8%).
Viene da chiedersi come questi dati siano possibili. È evidente che la violenza ai danni delle donne sia una caratteristica che accomuna tutti i paesi del mondo, nessuno escluso. Sono le statistiche a dare la dimensione globale del problema, quando ci dicono che ben oltre il 70% delle donne del mondo ha subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale. Pratica tanto diffusa, dunque, quanto difficile da debellare. È bene però che ognuno guardi attentamente al proprio paese, ai costumi e alla cultura del proprio popolo. La risposta, per quanto riguarda l’Italia, sta dentro il maschilismo, il familismo e il moralismo (in parte di matrice cattolica) della società italiana.
Vediamo un po’, dunque, di fare la storia della legislazione italiana contro la violenza sessuale, partendo dalle sentenze della cassazione, dalle modifiche alle varie proposte di legge, dalle prese di posizione sulla stampa, e, infine, comparandola con quella degli altri paesi.
Per dare l’idea del degrado e dell’arretratezza della giurisprudenza italiana in tema di violenza sessuale basta riportare una sentenza della cassazione del 20 febbraio 1967: “Costituisce violenza qualsiasi impiego di forza fisica esercitata sull’altrui persona, maggiore o minore, a seconda delle circostanze, che abbia posto il soggetto passivo in condizione di non poter opporre tutta la resistenza che avrebbe voluto. Mentre non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile”.
Da quella sentenza veniva legittimata, in giurisprudenza ma soprattutto nell’opinione pubblica, l’assurda idea che alle donne piacesse subdolamente essere violentate.
Come se non bastasse c’era da affrontare, strettamente legato, il tema scottante della violenza sessuale dentro la coppia. Per molti anni, infatti, il matrimonio era stato inteso come un contratto a seguito del quale il marito si impegnava a mantenere la donna, mentre questa in cambio si prendeva cura della casa e gli forniva rapporti sessuali. Il consenso della donna ai rapporti sessuali veniva dato una volta per tutte durante il matrimonio, da qui ne conseguiva che lei fosse tenuta a soddisfare le voglie del marito ogni qualvolta lui volesse. Se la donna si rifiutava di farlo, non solo violava gli obblighi coniugali, ma autorizzava il marito ad ottenere l’atto sessuale con la forza. Solo nel 1976 una sentenza della cassazione stabiliva: “commette il delitto di violenza carnale il coniuge che costringa con violenza o minaccia l’altro coniuge anche non separato, a congiunzione carnale”. Ma appena qualche anno dopo, il Tribunale di Bolzano con sentenza del 30 giugno 1982, sosteneva incredibilmente: “Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata anche in maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo”.
Quella contro la violenza sessuale è stata una tra le leggi che ha avuto l’iter parlamentare più difficile e lungo (quasi 20 anni) della storia d’Italia. La prima proposta di legge fu presentata nel 1977 dal Pci. La riforma delle norme contro la violenza sessuale era stata discussa da anni, ed aveva avuto una forte accelerazione quando, in occasione del processo per i delitti del Circeo, il movimento delle donne aveva dato vita a manifestazioni, tra il 1975 e il 1976, nel tentativo di sollecitare l'opinione pubblica e i partiti ad occuparsi della questione. Nel 1979, infatti, venne preparata una legge di iniziativa popolare, che raccolse oltre trecentomila firme, e che fu presentata in parlamento insieme ad altre 7 proposte di legge presentate dalle diverse forze politiche.
Ancora negli anni Ottanta, a classificare i reati di violenza sessuale era niente di meno che il codice Rocco d'epoca fascista, che li considerava “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, dividendoli in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all'onore sessuale”.
Nel 1982 la commissione giustizia della Camera approvava il testo unificato delle proposte di legge relative alla nuova disciplina penale. Cinque proposte dei vari partiti erano confluite in un unico testo che rispecchiava l'ampio dibattito sviluppatosi negli anni Settanta, soprattutto all'interno del movimento delle donne, sulla necessità di superare una disciplina penale dei delitti contro la libertà sessuale del tutto anacronistica. La violenza sessuale non ledeva più solo la moralità pubblica, ma offendeva innanzitutto la persona, violando il suo diritto fondamentale di decidere liberamente della propria vita sessuale. Era superata la distinzione tra congiunzione carnale e gli atti di libidine, così che le donne non sarebbero più state costrette, almeno teoricamente, a subire l'ulteriore violenza dei minuziosi reiterati interrogatori processuali, comprese le domande sulla vita privata e sulle relazioni sessuali.
Intendeva instaurare la procedura d'ufficio per la persecuzione del reato, anziché la querela di parte, in altre parole, nei casi di violenza, l'iniziativa di perseguire i colpevoli doveva spettare sempre allo stato e non doveva essere, invece, sempre e solo la donna a decidere. Inoltre, spingeva per ammettere la partecipazione al processo, come parte civile, delle associazioni e dei gruppi organizzati delle donne.
Nel 1983 la senatrice indipendente Giancarla Codrignani faceva un atto di pubblica accusa nei confronti di tutti i deputati maschi italiani, accusati di snobbare se non proprio di boicottare la legge:
“Si può uccidere per errore al volante di una macchina, ma lo stupro è tra i delitti quello che certamente non è mai colposo, mai involontario. Allora è bene fare una piccola analisi di merito, quando il legislatore è obbligato a rivedere il codice dalla volontà popolare. Infatti quella che è stata una incomprensibile arretratezza giuridica si svela essere qualcosa di molto più di una cecità storica, di un'ipocrisia tradizionale: è omertà. Questa proposta di legge ha un pregio e un'urgenza che altre leggi non hanno: impone una correzione del costume rispondente a una cultura più seria e responsabile. Per trasformare la società c'è, evidentemente, da impegnarsi. Ce n'è per tutti: per i socialisti e i comunisti che non si sono accorti che il socialismo cominciava a farsi irreale quando l'aspirazione rivoluzionaria “libero amore” voleva dire per le donne “amore nella libertà, nell'autonomia e nella parità”, mentre per gli uomini, la traduzione era in termini di libero consumo di un materiale volgare, certo né storico, né dialettico. E ce n'è anche per i cristiani, che non riescono neppure a rendersi conto che l'aborto, cioè la maternità non voluta, è sempre il risultato di una violenza, anche solo di ignoranza” (Cfr. Gli onorevoli snobbano la legge sullo stupro, “Il Giorno”, 9 febbraio 1983).
Ma le opposizioni manifestate da parte del mondo cattolico bloccavano l’iter della legge e lo vincolavano ad emendamenti restrittivi. Nel 1986, intanto, il parlamento europeo approvava una risoluzione che invitava gli stati membri della comunità ad elaborare una legislazione che cancellasse la distinzione tra stupro e atti di libidine violenta, che qualificasse la violenza sessuale come delitto contro la persona, che riconoscesse come reato la violenza tra marito e moglie, che rendesse la violenza sessuale un reato perseguibile sempre d'ufficio dalle autorità pubbliche.
Ma in Italia le cose procedevano in un’altra direzione. Basti riportare una contemporanea (o quasi) sentenza del Tribunale di Roma del 28 giugno 1985, in cui candidamente si affermava: “Si è da taluno sostenuto che, se il reato viene commesso in danno della moglie, deve essere considerato impossibile, in quanto il debito coniugale va compreso tra i diritti/doveri derivanti dal rapporto matrimoniale. Ad avviso del collegio è da escludere la possibilità di limitazioni in tema di relazioni sessuali tra i coniugi. Il rapporto sessuale tra marito e moglie non può che essere basato sul consenso di entrambi, quali soggetti liberi e compartecipi”.
La Dc, fomentata dalla Chiesa che intendeva arroccarsi sempre più a difesa della cosiddetta famiglia tradizionale (come se il fronte laico, pretendendo una legge decente contro la violenza sessuale, attentasse mai alla sacralità della famiglia!), e confortata dalle sentenze dei tribunali italiani, continuava a non riconoscersi nel testo rispetto alla questione della procedibilità d’ufficio (proposta fin dall'inizio da socialisti e movimento delle donne), distinguendo atti gravi e meno gravi, rispetto alla querela all’interno della coppia e alla questione dei minori cui era vietata ogni forma di effusione anche se consenzienti. In parlamento, in questo caso, non esisteva affatto il fronte laico ma solo quello “governativo”: Pli, Pri e Psdi avevano infatti votato compatti con la Dc.
Tutto ciò, unito all’incertezza dei partiti storici della sinistra e alla cautela con cui la stampa nazionale affrontava l’argomento, narcotizzando in qualche modo le giuste pulsioni progressiste dell’opinione pubblica, aveva l’effetto di far posticipare la questione all’infinito, per più legislature.
Solo nel 1995, dopo anni di nulla di fatto, mentre nel frattempo molti dei partiti storici avevano cambiato nome e struttura, alcune deputate donne decisero di superare l’ostacolo e si riunirono, senza distinzioni ideologiche, ed insieme esaminarono le successive 14 proposte di legge preparando un testo unico. Ci fu una accesissima discussione tra forze politiche in parlamento e sulla stampa e, alla fine, la legge venne approvata nel 1996 con 339 voti favorevoli, 39 contrari e 15 astenuti.
La legge italiana contro la violenza sessuale classifica come crimine contro la persona il reato di violenza sessuale. Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringa qualcuno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni (da 6 a 12 se su un minore). La stessa pena è inflitta a chi induce altri a compiere o subire atti sessuali (la struttura di quell’impianto è stata perfezionata con altre leggi parallele, sul reato di sfruttamento della prostituzione, sul turismo sessuale, etc., nel 1998 e nel 2001).
A livello internazionale, la dichiarazione sull'eliminazione della violenza contro le donne era redatta dall'Onu nel 1993 ed era frutto di una forte pressione dei movimenti a difesa dei diritti femminili, culminata nella conferenza di Vienna sui diritti umani. Si indicava, per la prima volta, una definizione ampia di questo tipo di violenza: "qualunque atto che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata". Poi l’Assemblea del Millennio dell'Onu del 2000, nella sua Dichiarazione finale, poneva la lotta alla violenza contro le donne come uno degli obiettivi centrali delle Nazioni Unite.
In realtà il problema del miglioramento delle leggi contro la violenza sessuale è da tempo all’ordine del giorno di tutti i parlamenti dei più importanti stati europei, ma non per questo tutti i paesi sono riusciti ad adottare le normative più idonee ed efficaci alla trasformazione culturale e sociale avvenuta in questi ultimi anni.
In Francia la legge sulla violenza sessuale è stata modificata nel 1990: è perseguito come tale ogni atto di penetrazione sessuale di qualsiasi natura, commesso o tentato sulla persona altrui con violenza, costrizione, minaccia o sorpresa. La pena prevista va da un minimo di 10 anni ad un massimo di 20, con la possibilità della reclusione a vita in caso di aggravanti o stupri di gruppo. In Belgio la legge, votata all’unanimità nel 1982, definisce lo stupro come un atto commesso su una persona in qualunque modo non consenziente. Non vi è l’obbligo della vittima di dimostrare che vi sono state minacce di morte e che si è opposta fortemente alla violenza, basta che dimostri che non vi era il consenso. La vittima ha il diritto all’anonimato e all’assistenza da parte dello stato. In Spagna nel 1989 la legge sulla violenza sessuale inseriva quel tipo di reati tra i delitti contro la libertà sessuale e non, come in precedenza, contro l’onestà. Punisce il reato con una pena che va da un minimo di 12 ad un massimo di 30 anni. Per poter iniziare l’azione penale è sufficiente la denuncia della persona lesa oppure di un suo ascendente diretto, di un rappresentante legale o custode di fatto. Il successivo perdono della parte lesa non estingue l’azione penale. Chi viene riconosciuto colpevole deve anche risarcire le vittime. In Lussemburgo la legge distingue gli atti atti di libidine violenta dallo stupro e prevede condanne fino a 15 anni di reclusione, mentre in Irlanda, per questo genere di reato, è previsto l’ergastolo.
Alla luce di questo quadro storico e comparativo, appare evidente che la legge italiana debba e possa essere ancora migliorata, ma per far ciò occorrono almeno due fattori concomitanti: l’attenzione costante dell’opinione pubblica sul problema, raggiunta mediante una informazione capillare e diffusa da parte della stampa, e la sensibilità al tema delle diverse forze politiche presenti in parlamento.
Una legge può cambiare (o meno) il costume generale di un paese se di essa si parla, si discute, se viene fatta conoscere, se non resta un fatto privato degli addetti ai lavori o delle associazione delle sole vittime di violenza sessuale. Le leggi che hanno riguardato e coinvolto le donne, hanno sempre avuto questo carattere sociale, pubblico, diffuso: ciò è valso per il divorzio, per l’aborto, e così ci pare debba essere anche per la violenza sessuale. I pregiudizi che si annidano e prolificano nella comune opinione circa la sessualità e la liceità o meno dei relativi atti sessuali (più o meno violenti) sono davvero tanti. Predomina una mentalità sessuale maschilista, confusa e inquieta, turbata da antiche superstizioni e da incontrollate passioni, viziata da correnti, banali e pigramente accettate opinioni, spesso avallate e incentivate da comportamenti di singoli parlamentari cosiddetti “machi” o “celoduristi”.
Lo scandalo dell’uguaglianza, affermata dalla Costituzione e negata nella pratica, offende principalmente le donne che sono le principali destinatarie (ma non le uniche) della violenza sessuale. L’uguaglianza non esiste nei fatti a causa, soprattutto, della mentalità distorta, spesso anche torbida, che in maggiore o minore misura sopravvive in noi tutti, anche a volte nelle stesse vittime, anche nelle donne che pure, lucidamente e coraggiosamente, la combattono. Poiché questa distorta mentalità sopravvive, tutti dobbiamo vigilare con un’attenzione critica e autocritica continua, affinché non riaffiorino pregiudizi ancestrali molto pericolosi. Questo perché proprio i tanti tabù che avvolgono il sesso e che sono gli stessi che purtroppo incoraggiano gli inclini alla violenza, dissuadono le stesse vittime dall’esigere giustizia. E questo, in un paese civile, non è bene che accada.
Fonte: Linkiesta