Se la sinistra entra in pista senza automobile
Fonte: Qualcosa di Sinistra
E’ ormai risaputo, del tutto assodato, che l’Italia delle istituzioni pubbliche, così come la sua classe politica, è completamente delegittimata. E allora che si fa? – chiederete voi. Che succederà quando questo governo tecnico terminerà il suo compito e sarà ridata la parola agli elettori?
La soluzione prospettata dai principali partiti, cioè la riforma del meccanismo di elezione che modifica i criteri (mescolando proporzionale e maggioritario a seconda delle convenienze del momento) e mantiene la scelta dei candidati alle segreterie, non ci piace per nulla.
Non ci piace neppure, peraltro, l’idea che passa in molti ambienti della cosiddetta anti-politica, cioè l’eliminazione dei partiti, la partecipazione diretta dei cittadini alla politica non si sa bene poi con quali criteri, il respingimento delle candidature sulla base di fedine penali o esperienze politiche passate, come se bastasse l’aver fatto, anche bene, il consigliere comunale o l’assessore in una giunta per macchiarsi in eterno di una specie di colpa primigenia.
No, la questione posta in questo modo è astratta: in una democrazia parlamentare, sono sempre e comunque le forze politiche, che piaccia o meno, i soggetti che agiscono e prendono le decisioni. Occorre assolutamente riformarli, dunque, anche stravolgerli nella loro struttura, per cambiare le istituzioni nel profondo.
Si illude, infatti, chi ritiene l’attuale Pdl logoro, il Terzo Polo inconsistente, il Pd disorientato. Apparentemente è proprio così, ma in realtà questi partiti hanno dimostrato di avere risorse inesauribili, a volte con accordi sottobanco, altre volte perfino alla luce del sole, per superare indenni qualsiasi crisi. Andreottianamente, verrebbe da dire. Di certo, non sembrano capaci di saper mobilitare gli elettori e di compiere quelle riforme di cui parlano, viene ormai da dubitare quanto sinceramente, da anni. Però, è pur sempre vero che questi partiti, insieme, raggiungono circa la metà dei voti degli elettori, checché ne pensi l’antipolitica.
Il discredito in cui essi versano, oggettivamente, è davvero tanto. Non è, peraltro, una novità. Capitò qualcosa di simile dopo Tangentopoli: Dc, Psi e partiti minori furono spazzati via, l’ex Pci poi Pds si salvò per il rotto della cuffia, ma, timido, informe, indeciso, non seppe mettere in piedi quella alternativa di riformismo militante che sarebbe servita per cambiare fin dalle fondamenta il paese. Poi venne Berlusconi, il resto lo conosciamo.
Che fare, dunque?
Il vero problema della crisi politica italiana (ma anche di quella economica e sociale) è la mancanza di forze politiche nuove. Senza questa condizione, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, non ci sarà alcun reale rinnovamento, lo stato italiano continuerà, più o meno inesorabilmente, il suo declino, fino ad arrivare ai livelli più bassi tra le cosiddette democrazie, non solo europee, su tutti i fronti: Pil, lavoro, ricerca e sviluppo “umano”, diritti.
Ci sovviene in aiuto la storia. Di fronte al sommovimento radicale dovuto a Tangentopoli, non spuntò come un fungo solo Berlusconi, ma ci furono anche altri fenomeni: il tentato rinnovamento del Pri, la nascita della Rete di Orlando, Dalla Chiesa e Novelli, i sindaci della sinistra critica, la stessa Lega Nord, che comunque esprimeva una reale voglia di cambiamento, sebbene eterogenea e ambigua. Proprio come accade oggi, con il movimento Cinque stelle, con Sinistra ecologia e libertà, con la rete dei sindaci Pisapia e De Magistris, e con altri gruppi più o meno visibili.
A questo quadro ricco ma molto vario, vanno aggiunti gruppi di intellettuali, associazioni, riviste, movimenti, una vasta area di operatori e soggetti sociali, per usare un termine per la verità un po’ abusato, la cosiddetta “società civile”, tutta gente non iscritta ad alcun partito, che vorrebbe costituire una nuova politica. Soggetti caratterizzati da un bisogno di rappresentatività in parlamento, che fino ad oggi non si è mai potuto realizzare, sia per colpa delle tradizionali forze politiche, sia per colpa del proprio velleitarismo, della propria conflittualità. Ma anche da un bisogno di moralità, di pulizia, di “buona politica”, che si è espresso in più occasioni, idealmente nei movimenti di piazza, con studenti, lavoratori, pensionati, donne (si pensi alla imponente manifestazione del “Se non ora quando”), e più concretamente, nei referendum autogestiti sui beni pubblici (che non a caso ha ricordato, storicamente, la mobilitazione atipica sul referendum contro il nucleare militare e poi civile degli anni ottanta, con i partiti a ruota della società), con un risultato a tal punto imprevedibile, quasi stupefacente, da rompere completamente i vecchi e usurati schemi politici, anche con l’aiuto di una risorsa nuova, insperata, e quanto mai democratica, come i social network.
Finora i partiti tradizionali hanno dormito sonni abbastanza tranquilli perché queste forze si sono mosse in modo sfilacciato, disarticolato, eterogeneo. Ma l’esistenza di fili conduttori, aspirazioni e ideali che li uniscono, in particolare temi come la critica al neo-liberismo, la lotta alla corruzione, la battaglia contro la criminalità, la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, rappresenta la base per la costruzione di una nuova forza politica capace di interpretare correttamente le richieste e di seguire le dinamiche di una società moderna e globale completamente mutata rispetto al passato.
In una nuova situazione di transizione politica come l’attuale, questi soggetti, che sono la parte indubbiamente più viva e dinamica della società italiana, sottopongono quotidianamente a una critica impietosa la forma-partito, uno strumento giudicato ormai non più intoccabile. In tal senso, l’unico modo che il partito avrebbe per salvarsi dal naufragio e per rimanere in vita, è quello di evitare di chiudersi nella solita funzione decisionale burocratica e di vertice (a questo proposito dovrebbe far pensare il fatto che, nei vari appuntamenti delle primarie, da Vendola a De Magistris da Pisapia a Zedda, fino al recente Doria, venga sempre premiato il candidato che non è espressione diretta del partito), e di aprirsi al microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale, interloquendo con esso a partire dai problemi del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’immigrazione, della pace.
Lo si è visto nella parabola del Pd, che pure inizialmente era stato accolto in modo entusiasta dall’elettorato del centro-sinistra: un patrimonio di speranze è stato sprecato incredibilmente e la colpa ricade, senza scusanti, nell’attuale dirigenza, che dovrebbe quantomeno fare autocritica, cospargersi la testa di cenere, e aprirsi finalmente all’esterno. Anzi, per dirla alla Moretti, dovrebbe aprire le porte a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, e dire “venite, venite nel partito, prendetelo!”.
Nel Pd, infatti, storie troppo diverse, pregiudizi, interessi immediati contrastanti, gruppi di potere non disponibili a lasciarsi liquidare, hanno condizionato e condizionano tuttora fortemente le nuove leve, ed i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti: disorientamento assoluto dell’elettorato abituale, vento dell’antipolitica.
E’ bene anche dire, per correttezza, che il quadro del rinnovamento sarebbe incompleto se non si aggiungesse quella minoritaria parte di mondo racchiuso nei partiti tradizionali, che pure spinge, timidamente, in direzione del cambiamento. Ci sono pezzi e soggetti costruttivi anche dentro ai partiti tradizionali, è evidente. Se anziché parlare di Pdl si parlasse di elettorato di centro-destra, se anziché dire Terzo Polo si dicesse elettore moderato, se anziché scrivere Pd si intendesse centro-sinistra, se invece di Chiesa ci si riferisse al mondo cattolico della base, si capisce bene come in queste realtà esistano forze vere e sincere, schierate contro la degenerazione e la corruzione, con le quali poter costruire una politica nuova.
Va assolutamente evitato di riproporre meccanismi e dinamiche vecchie, destinate alla sconfitta, foriere solamente di illusioni. Il popolo del centro-sinistra ne ha subite fin troppe, fin dal lontano ’48: negli anni sessanta la divisione tra Pci e Psi scavata dal centro-sinistra, negli anni settanta quella dovuta al compromesso storico, negli anni ottanta il craxismo, negli anni novanta i contrasti dell’Ulivo, infine, l’indeterminatezza del Pd.
E’ giunto il momento che le forze vitali della società mettano da parte divisioni e rancori, che i pochi settori vivi dentro i partiti della sinistra si uniscano per dar vita ad una forza politica di sinistra completamente nuova, che selezioni, in modo partecipato e democratico, sulla base delle competenze professionali, la propria giovane classe dirigente, capace di parlare un linguaggio moderno, dinamico ma carico di contenuti e non ignaro del ruolo fondamentale della memoria storica. La storia recente dimostra che costruire un calderone vuoto, un partito liquido senza spina dorsale, senza riferimenti culturali precisi, è stato dannosissimo. Parlare di alleanze, di primarie, di candidato premier e di programma politico, allo stato attuale, è del tutto inutile. Sarebbe, semplicemente, come entrare in pista senza automobile.
Fonte: Qualcosa di Sinistra
Global Spring ovvero la Primavera globale
Fonte: Linkiesta
Spring, 春天, ربيع, le printemps, Frühling. Quando la primavera comincia non la si può fermare.
L’inverno in politica sembra ormai passato e per un bel po’ non ritornerà. Fuor di metafora, sembra proprio che stavolta, davvero, sia nata una “primavera globale”. Nord Africa, Spagna, Inghilterra, Grecia, Cile, Israele, Italia, Stati Uniti. Il 15 ottobre 2011 è previsto il primo appuntamento unitario. Ed è già storia.
Se proviamo a interrogare la storia sulle cosiddette "primavere dei popoli", dobbiamo tornare indietro, quantomeno, a due importanti precedenti: il Quarantotto ottocentesco e il Sessantotto del secolo scorso.
Il primo coinvolse soprattutto gli stati europei: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Austria e Italia, e vide il susseguirsi di sommosse, rivolte, ribellioni, proteste da parte di giovani e lavoratori, a seguito della forte crisi economica, dell’aumento dei prezzi, della crescente disoccupazione. Da un lato, videro l’alleanza tra borghesia e proletariato urbano, dall’altro l’irrompere dei primi movimenti socialisti, con richieste spesso un po’ utopiche e, appunto, romantiche, nel tentativo di collegare l’individuo ad una comunità che non aveva ancora alcun tipo di carattere corale.
In particolare, venivano chieste: indipendenza nazionale, maggiore democrazia, libertà sancita dalle costituzioni, migliori condizioni lavorative. I giovani furono, indubbiamente, i protagonisti di quei risorgimenti, con azioni spesso esaltanti, eroiche, plasmate da condotte di vita poco conformiste per l’epoca, quando non proprio coraggiose, o addirittuta trasgressive. Da Palermo, con la velocità della comunicazione telegrafica, la rivolta si spostò lentamente a Parigi, poi Vienna, Berlino, fino in Polonia, in Ungheria e Boemia.
Anche la seconda ondata rivoluzionaria mondiale, la primavera del Sessantotto, pur avendo, sostanzialmente e a conti fatti, fallito, ha di certo contribuito a trasformare il mondo. Si è sviluppata, per lo più, in America, ma anche in Europa, in Francia e in Italia. I suoi caratteri furono, dunque, mondiali, con uno stretto rapporto tra spazialità e tecnologia: in questo caso più veloce del telegrafo, ma non ancora simultanea. Era già iniziata, comunque, l’epoca del “villaggio globale”.
Anche stavolta le proteste videro come protagonisti i giovani, in particolare gli studenti, che si organizzarono in modo spontaneo, improvviso, straordinario quanto a capacità di mobilitazione, al punto da diventare una moda. Assunse caratteri come l’anticapitalismo, il pacifismo, l’anti-razzismo, l’egualitarismo nelle scuole e nelle università, la richiesta di maggiori diritti umani e civili, la secolarizzazione. Allo stesso modo, da New York si spostò, stavolta ben più velocemente, a Bonn e a Parigi, poi Varsavia, Rio de Janeiro, Città del Messico, Roma, Pechino e Praga.
La primavera araba, iniziata lo scorso anno e proseguita fino a oggi, ha avuto luogo soprattutto nel Nord Africa e nel cosiddetto Medio Oriente, coinvolgendo paesi come l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, la Libia, la Siria, il Marocco. Ha avuto anch’essa, come protagonisti indiscussi, un’intera generazione di giovani, con forme di resistenza civile di varia natura, scioperi, manifestazioni, marce, cortei, sit-in, collegati attraverso l’uso della tecnologia, in particolare la simultaneità di social network, come Facebook e Twitter. Un modo per poter divulgare e rendere pubblici non solo nei rispettivi paesi ma anche all’opinione pubblica internazionale i tentativi di repressione.
Queste proteste si sono contraddistinte per le richieste di libertà, democrazia, maggiori diritti civili e umani, contro la corruzione delle classi dirigenti e la crisi economica. Uno dei motivi che ha portato all’esasperazione le popolazioni arabe è stato infatti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Da Tunisi sono istantaneamente divampate al Cairo, a Bengasi e Tripoli, e hanno portato, in alcuni casi, anche al crollo dei rispettivi regimi.
In tutti questi modelli c’è in comune, con le dovute differenze di tempi legate alle diverse epoche storiche, la medesima capacità dei giovani di annullare lo spazio, comunicando: quasi per contagio.
Nel primo caso in modo trans-nazionale. Nel secondo, internazionale. Nel terzo, addirittura, globale. Nel primo caso, come imitazione di un gesto lontano sentito per le medesime ragioni civili, nel secondo caso, per identificazione planetaria, nel terzo per simultanea percezione della stessa necessità. Se il Quarantotto aveva affermato il diritto dei popoli a costituirsi in soggetti autonomi e indipendenti dentro un unico spazio europeo di stati, se il Sessantotto poneva l’umanità come soggetto richiedente diritti universali in un contesto mondiale, la primavera araba ha sancito la fine della distanza delle rivendicazioni e la contemporaneità e simultaneità dei suoi eventi.
E siamo all’oggi. La protesta giovanile pare essersi diffusa dappertutto, complice la crisi economica globale. L’enorme ondata di proteste da parte di giovani, lavoratori precari, disoccupati, ricercatori (ma anche pensionati), delusi dai partiti e dalla crisi provocata dalla finanza internazionale, che sta scoppiando nelle piazze di tutto il mondo, da Tunisi al Cairo, da New York ad Atene, da Santiago del Cile a Madrid, da Roma a Londra, da Gerusalemme per arrivare persino a Nuova Delhi, potrebbe dare un colpo mortale alla politica tradizionale. Oggi ce ne sono tantissimi, un po’ dappertutto, anche dove non si sono ancora mobilitati. ll 15 ottobre si riuniscono per il primo appuntamento unitario. Basta dare tempo al tempo. Qualcuno l’ha chiamata anti-politica globale.
Forme di anti-politica, per la verità, ce ne sono state diverse anche in passato. Per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare, a livello internazionale, il popolo dei “no global” di Seattle contro il Wto, mentre per l’Italia si pensi al movimento dei girotondi, o al più recente popolo viola, contro le leggi ad personam. Ma, stavolta, sembra si tratti di qualcosa di diverso, più profondo, più radicato, che potrebbe affondare le sue radici proprio in quei nobili e storici precedenti che richiamavo all’inizio. Proviamo a capire perché.
Le piazze, le strade, i sit-in davanti alle scuole e alle istituzioni, in modo costante, permanente, duraturo, tutto questo sembra tornato di moda, dopo anni, anzi decenni di letargo. I giovani, ma non solo, se ne riappropriano con decisione, e si riscoprono rivoluzionari, ma in un modo nuovo. In Spagna li chiamano “indignados”, in Egitto, in Siria, in Tunisia sono i ragazzi della Primavera araba, in America sono chiamati “millenials”. Se le giovani e i giovani arabi hanno abbattuto dei regimi, i giovani “occidentali” si confrontano contro un altro tipo di tirannia o dittatura: quelle di una classe politica corrotta e abbarbicata al potere e di un’economia neocapitalista e neoliberista incapace di fornire adeguate risposte di crescita e di sviluppo economico per tutti. In una parola, contro la globalizzazione. Ma non nei termini del recente passato.
Sembra percepirsi, o quantomeno si intravede, una consapevolezza maggiore, una visione più critica e meno ideologica del processo globale. Non più la visione apocalittica del nuovo “impero”, che riduceva tutto a una concentrazione del potere mondiale nelle mani delle corporation multinazionali, del governo statunitense, delle potenze occidentali europee, in funzione di una cospirazione ai danni dei paesi più poveri e delle categorie sociali meno abbienti. Piuttosto, sulla scia delle analisi della cosiddetta world history, questi giovani considerano il concetto di democrazia occidentale moderna, per varie motivazioni culturali, inadeguato per la comprensione della vita moderna e per capire gli stili di vita di alcuni popoli o paesi orientali, ad esempio come l’India, la Cina o il Nord Africa.
Non si tratta, dunque, di esportare modelli di democrazia laica e democratica di stampo occidentale, possibilmente di stampo liberalista, nei paesi orientali, ma di tradurre certe categorie in contesti molto diversi per cultura e tradizione. Così come si tratta di recepire aspetti e modalità dalle altre culture. Viceversa, l’esercizio del metodo comparativo tra le culture significa far interagire le diversità attive dei comportamenti individuali e collettivi nei diversi contesti, sottolineare e, nello stesso tempo, considerarle come potenziali alternative scartate o sconfitte dalla storia, restituendo piena autonomia e dignità al soggetto umano in quanto tale, alle sue scelte e alle sue battaglie.
Questo confronto costruttivo aumenta le potenzialità della globalizzazione, in particolare sotto l’aspetto della combinazione di nuove tecnologie, culture scientifiche, libertà individuali. Se dunque la globalizzazione (anche sull’onda delle più recenti analisi degli studiosi economici americani) è vista da tutti loro come un completo fallimento (almeno dal punto di vista economico), proprio questa dimensione culturale della globalizzazione, che è evidente nelle critiche rivolte dai giovani indignati alle classi dirigenti che hanno governato questi decenni di transizione, cioè la continua ricerca degli intrecci e degli scambi che nella human community, sembra riuscire a superare i confini e le identità ideologiche del più recente passato.
Questi giovani di diversi continenti sono tutti accomunati da alcuni tratti distintivi: nella maggior parte sotto i trent’anni, con un alto livello di istruzione, usano Internet, l’i-Phone e i portatili, molto spesso sono disoccupati o comunque fanno lavori precari, sono attenti alle tematiche ambientali e dei diritti umani e civili, prendono di mira la classe politica e dirigente dei loro paesi, ma anche le corporations, le multinazionali, le banche.
Una cosa è certa. Rispetto ai predecessori questa generazione ne ha fatta di strada. Lasciamo stare le dirigenze dei partiti, buone solo a strumentalizzare le proteste e a metterci sopra il cappello. Se Facebook, Google, Twitter, You-tube, Wikipedia si mobilitano accanto a loro, questi movimenti potrebbero arrivare lontano e prendersi in mano il proprio futuro. Occorre, però, un progetto più definito, chiaro, una nuova cultura così come una nuova politica. Occorre coordinarsi, darsi obiettivi di rappresentanza politica, acquisire luoghi e spazi fisici oltre che virtuali.
Dalle proteste di questi ultimi tempi viene fuori con chiarezza almeno una richiesta di partecipazione democratica, legalità, giustizia sociale e fiscale, politiche ambientaliste, meno consumismo, lavoro più stabile, istruzione gratuita. Questa generazione indignata, delusa, arrabbiata, poteva essere un bacino fertile per le varie opposizioni di sinistra, ma i leader di questi partiti se li sono persi per strada. Le sinistre non hanno saputo intercettare queste richieste di cambiamento, non hanno saputo canalizzare queste energie disperse, perché non si sono sapute differenziare abbastanza dai vari governi, dalle loro politiche moderate e conservatrici. Non hanno saputo neppure differenziarsi con un riformismo solo vagamente abbozzato. In una parola hanno contribuito ad alimentare una cultura e una politica troppo consolatorie.
Forse ormai è tardi per arginare o incanalare questa protesta. Non rimane che osservarla, farsene interlocutori, e seguirla, nella speranza che non porti a scosse troppo traumatiche e che trovi la sua dimensione di progetto e costruzione di una realtà politica e sociale veramente alternativa.
Fonte: Linkiesta
Politica e società civile. I cattolici, la sinistra e il berlusconismo
Dopo le esortazioni degli intellettuali durante un recente convegno fiorentino sul berlusconismo (“Società e Stato nell’èra del berlusconismo”), sembra essersi finalmente svegliata quell’opinione pubblica virtuosa finora costretta quasi ad agire nell’ombra, senza alcuna visibilità mediatica. Viene alla luce quella sorta di “piazza pubblica” formata da cittadini critici e vigili sulle regole della democrazia, disposti a impegnarsi attivamente, nei rispettivi ambiti, per assumere comportamenti consapevoli e buone pratiche in una società sempre più globale. Firenze ritorna ad essere, per qualche momento, quel punto di incontro cruciale, culturale e politico, che fu ai tempi del sindaco La Pira. Pochi giorni dopo il convegno si è svolto, infatti, sempre a Firenze, il congresso fondativo di Sel, dove il discorso evocativo di Vendola è emerso come un tentativo di rispondere e reagire alla cultura imperante del berlusconismo.
Dalle riflessioni degli studiosi appare chiaro il significato del berlusconismo. Berlusconi rappresenta l’effetto e non la causa dell’attuale situazione politica. La conseguenza di tre elementi: dal punto di vista istituzionale, la crisi del sistema liberal-democratico; in ambito politico-sociale, il prosieguo del craxismo e dell’affarismo democristiano; culturalmente, la diffusione del consumismo esasperato e la crescita smisurata del ruolo della televisione. Il fenomeno invece è il frutto di un sistema in cui la volontà popolare non è più stata in grado di esprimersi criticamente perché influenzata dal potere televisivo. A far da collante, il rapporto privilegiato con una parte del mondo cattolico. L’interesse della Chiesa è sempre stato la tutela dei suoi privilegi materiali (le finanze, il regime fiscale, l’esercizio di attività nel settore dell’assistenza), con tutte le sue ramificazioni (dalla sanità all’istruzione). Su questi punti l’appoggio del berlusconismo è stato netto: dall’esenzione Ici per gli edifici ecclesiastici, ai finanziamenti alle scuole private, fino al ruolo degli insegnanti di religione. Anche sul fronte del diritto alla vita e della bioetica, le garanzie sono state evidenti. Ad un certo punto però l’idillio sembra essersi interrotto. Come è accaduto altre volte nella storia d’Italia, l’abbandono da parte della Chiesa dell’appoggio a un regime o a un partito è anch’esso più un preannuncio che una causa del suo crollo. Dopo le posizioni prese da Avvenire e da Famiglia Cristiana, è partita dal mondo cattolico, nella sua base ecclesiale, ma anche in quella sociale, una parvenza di sfida al berlusconismo. Si tratta di capire che ruolo e che impegno questa sorta di “galassia cattolica inquieta” sarà in grado di fornire.
Una parte degli italiani è consapevole di questa situazione, dell’indebolimento delle istituzioni dello Stato e delle sue leggi, così come della eccessiva frammentazione dei partiti di opposizione. Al di là dei sondaggi, basta guardarsi intorno per capire come la crisi della politica abbia ormai superato il limite di guardia, giungendo ad un punto tale da rischiare il tracollo, andando oltre il fenomeno dell’anti-politica e dell’astensionismo.
Rispetto al passato il berlusconismo appare, per certi versi, ripetitivo, ma per altri sembra essersi incattivito. Ha portato alle estreme conseguenze i suoi caratteri: il decisionismo diventato autoritarismo, il culto della personalità e del successo, il populismo, il disprezzo per la carta costituzionale, l’annichilimento del parlamento, l’attacco alla giustizia, il maschilismo, l’incitamento all’odio per il fisco, per la cultura, per la diversità, fino a vere e proprie forme xenofobe, ai limiti del razzismo, nei confronti della popolazione immigrata (fomentato dalla Lega). La crisi della politica tradizionale si è intrecciata con l’affermarsi dei suoi tratti più deleteri: la spettacolarizzazione e la banalizzazione dei contenuti, che hanno avuto come strumento cruciale di propaganda la televisione. A questo si è unita la disgregazione sociale dei ceti medi, dovuta non solo alla globalizzazione ma anche all’incertezza nata dal cambiamento dei rapporti tra lavoratori e imprese. L’appoggio che il berlusconismo ha dato ad una parte dei ceti medi del lavoro autonomo (con agevolazioni fiscali, condoni) a spese del lavoro dipendente e del mondo della cultura ha portato ad un’alta conflittualità sociale. Questa appare anche la logica conseguenza dell’affermarsi dell’individualismo proprietario dei ceti emergenti rampanti, che non ha paragoni in Europa, frutto della squilibrata redistribuzione della ricchezza, con il doppio regime fiscale e la mortificazione economica del lavoro dipendente, e risultato dell’ideale consumistico sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 ed oggi entrato in piena crisi di identità.
Di fronte a tutto ciò, il grave errore commesso dall’opposizione è quello di marciare in ordine sparso: riformisti, radicali e cattolici hanno rivendicato le proprie ragioni di esistere, marcando le proprie differenze, finendo per risultare rissosi e velleitari agli occhi dell’elettorato, lasciando soli i soggetti più deboli, mentre sarebbe più opportuno pensare a un vasto, e non obbligatoriamente omogeneo, movimento di forze reali, partiti e gruppi, una rete di istanze e associazioni collegate dal basso, che facciano però riferimento ad una guida unitaria da eleggersi attraverso il meccanismo delle primarie, che rispetti le specifiche caratteristiche dei diversi partecipanti, ma che non inglobi le diversità e le rivitalizzi in un progetto politico e culturale nuovo, con un programma di governo alternativo ed efficace.
Proprio in contrapposizione a certi metodi di corruzione eletti ormai smaccatamente a sistema, senza più alcuna ipocrisia, sta emergendo nel Paese, seppure ancora in forma minoritaria, una forte percezione della questione morale, un’ansia di pubblica moralità, soprattutto nei giovani, tali da mettere in moto, se guidate e incanalate correttamente, un processo di contrasto alla spregiudicatezza e alla disinvoltura morale di cui fornisce prova il cosiddetto Palazzo. È questo uno dei segni più interessanti dell’azione di lungo periodo iniziata con la storia dei movimenti negli anni ‘70, proseguita durante il processo di secolarizzazione della società italiana (col contributo di una parte considerevole dei cattolici all’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto), nella battaglia di democrazia vinta contro il terrorismo di destra e di sinistra, nella parentesi di Tangentopoli contro la partitocrazia, nella lotta alla mafia e a tutte le forme, vecchie e nuove, di criminalità organizzata. E che è proseguita fino ad oggi, contro le leggi ad personam, il conflitto di interessi, la censura nei servizi di informazione pubblica. Esistono tanti giovani pronti a battersi perché la concezione utilitaristica e opportunistica della politica siano respinte, a partire dalle concrete responsabilità di ognuno nella vita quotidiana; giovani che rifiutano tutti i metodi non trasparenti, clientelari, familistici, tutte le zone grigie che si insinuano tra potere pubblico e poteri privati e che si sforzano, nella loro difficile esistenza, di rispettare le regole. Le virtù critiche e laiche di una parte della società italiana, un tempo maggioritarie, adesso non più perché sopite da anni di grigio conformismo, possono suscitare una reazione capace di incidere sugli orientamenti collettivi e destinata col tempo a crescere e a diventare maggioritaria. È necessario che in questo processo siano protagonisti laici, riformisti, radicali e cattolici, in un luogo in cui contino le competenze, la conoscenza e la professionalità e non la militanza burocratica e l’adesione acritica ai rispettivi leader o partiti di riferimento. Senza la politica, una politica completamente rinnovata ma forte, organizzata, creativa, senza un progetto culturale di ampio respiro, che coinvolga mondo laico e mondo cattolico, partiti e società civile, sarà impossibile costruire una reale alternativa sociale e culturale, in tempi brevi, al berlusconismo. È questa invece la vera nuova rivoluzione a cui ognuno è chiamato per fermare
la deriva a cui sta andando inesorabilmente incontro il nostro Paese.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 87)
(Archivio Alinari)
Su politica e mezzogiorno oggi
Alla luce dei continui e sempre più deplorevoli attacchi di alcune forze politiche (ma si legga pure Lega!) alla Costituzione, all'unità del paese e in particolare al Mezzogiorno, mi permetto di fare una provocazione.
Rivolta a chi? - mi chiederete.
Diciamo in generale alla sinistra italiana, quindi al Pd, a Vendola e a chi per loro dovrebbe mettersi alla testa di un movimento di rinnovamento della politica che partisse proprio dal tanto vituperato sud d'Italia.
Circa un secolo fa un docente socialista, promotore tra l’altro di una collana di scritti di Marx, Engels, Lassalle per l’edizioni Avanti! fu protagonista, insieme a pochi altri socialisti come lui, di una lotta senza quartiere contro le mafie e la camorra proprio nel Mezzogiorno. Cambiano gli uomini, le facce, cantava Battiato, ma la storia si ripete.
(Fonte Internet)
Oggi abbiamo Saviano, per fortuna, con buona pace dei polemisti di professione. Non sono tra i fautori della politica sopra ogni cosa, anzi credo che la politica, oggi più che mai, sia sempre più una specie di rifugium peccatorum. Ma è il caso di dirlo, per evitare i velleitarismi e i qualunquismi, l’unico modo che potrebbe non dico interrompere ma quantomeno scalfire lo strapotere nel meridione delle mafie, della 'ndrangheta, sempre più potente, e della camorra, è proprio la politica, ma intesa come mobilitazione democratica del mondo della cultura e soprattutto della gente comune: è nell’assenza di sedi dove si dovrebbero elaborare le proposte, controllare le rappresentanze, dove si dovrebbero mettere in atto buone pratiche, che prosperano i gruppi criminali, insomma dove non si respira la democrazia.
Si potrebbe guardare al passato per prendere esempio. Nel 1948 in occasione di quel fatale 18 aprile che aprì la strada al trentennio di strapotere democristiano, proprio per provare ad opporsi a qualcosa che si presagiva letale per il paese, un gruppo di personalità della Sinistra (con la “S” maiuscola ovviamente se la paragoniamo all'oggi) diede vita al cosiddetto Fronte democratico del Mezzogiorno, che si inseriva nel contesto più generale di quel famoso Fronte popolare che aveva come emblema elettorale il volto di Garibaldi. Tra le tante personalità che diedero vita a quel movimento, basti ricordarne due: il comunista Giorgio Amendola e il socialista Francesco De Martino. Si trattò del primo e unico grande movimento democratico di massa che il Sud e le isole abbiano conosciuto nella loro storia (altro che movimento autonomista siciliano!), che guidò movimenti di lotta costati la vita a decine di sindacalisti, di braccianti e operai uccisi a volte dalla polizia altre volte dalla criminalità, che creò circoli culturali, riviste, insomma che mise in circolo idee democratiche e grandi speranze.
Ecco, perché oggi non si parla mai di qualcosa di simile?
A chi fa paura qualcosa del genere?
La storia non si ripete uguale ma ricordarne gli esempi, scoprirne e condividerne i protagonisti, può permettere di riproporre, di alimentare culture, stimolare idealità, suggerire nuovi modelli di lotta culturale e politica. Sarebbe bene che i giovani, almeno quelli che ci credono (e non sono affatto poche mosche bianche, credetemi), ma anche, più in generale, le forze politiche di sinistra, quelle più o meno organizzate, più o meno forti numericamente e materialmente, almeno quelle che si sentono eredi o comunque vicine a certe forme di lotta e di proposta politica (diciamo quella parte che è disposta ancora a credere nella validità della Costituzione e quelle sinistre sparse, non solo laiche ma anche espressione di un certo mondo cattolico, che hanno voglia di dare un contributo che non sia di mera contestazione) riscoprissero e valorizzassero di nuovo quella grande pagina della nostra storia del meridione, accantonando una volta per tutte le rivalità e le piccole beghe di bottega. Oltretutto, la proposta di un cartello della Sinistra democratica del Mezzogiorno, di un movimento che unisse forze espressione di una vera alternativa di sinistra, che unisse soprattuttto diversi gruppi della società civile (penso alle Fabbriche di Nichi, al Popolo viola, a certi gruppi di elaborazione culturale del pd, e a tanti altri), avrebbe perfino più chances di riuscire e andare in porto di quella del Fronte del ‘48, visto che allora il movimento fallì per colpa della divisione tra socialisti e comunisti (la solita storia) a seguito dei fatti di Ungheria del ‘56, mentre stavolta non c’è più l’Urss a dividere, ma ci sarebbero la lotta all'idiotismo della Lega e il richiamo alla Costituzione che potrebbero, invece che dividere, unire.
(Fonte Internet)