Bacheche vuote e crocifissi appesi
Fonte: archivio privato
Ho letto, di recente, che negli Stati Uniti, per l'esattezza in un campus dell'Università del Wisconsin, un professore ha ricevuto delle minacce da parte della polizia ed è stato censurato dai vertici dell'ateneo, con la motivazione di "cattiva condotta". Pare abbia affisso sulla bacheca del suo ufficio alcuni fogli personali. Cosa c'era scritto? Uno parafrasava il personaggio di un noto telefilm americano con frasi che incitavano alla violenza. L'altro, prendendo spunto dall'immagine di un cartone animato, ipotizzava il famigerato ritorno del fascismo. "Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini e degli animali” - aggiungeva.
Questa notizia mi ha indotto a due riflessioni, una semiseria, l'altra un po' meno.
La prima è che in terra americana, patria della libertà di pensiero e di opinione, censure di questo tipo stridano un po con l'età in cui viviamo. L'uso, molto in voga nei paesi anglosassoni, di attaccare vignette, foto, manifesti, volantini, sulla bacheca del proprio ufficio, potrà anche non piacere a qualcuno, se inteso come utilizzo privato di uno spazio pubblico, ma almeno dà l'idea di una certa vitalità e scambio, seppure scherzoso e ironico, tra docenti e studenti. Ben vengano foto divertenti e post-it con tanto di botta e risposta. Qui da noi purtroppo, negli uffici degli atenei, e da un bel po' ormai, le bacheche risultano completamente vuote. Simboleggiano, meglio di qualsiasi altra cosa, la lenta agonia di un'istituzione, dopo i tagli del governo. Non ci saranno certo violazioni di diritti, ma, con tutto il rispetto, a guardarle mettono davvero tristezza.
La seconda invece concerne, più in generale, l'utilizzo di immagini o di simboli, religiosi o di altra natura, come emblemi o rappresentazioni ufficiali di intere popolazioni, per esempio quelli appesi alle pareti. Qui il discorso si fa più scivoloso. Prendiamone non uno a caso, ma il più celebre: il crocifisso.
In alcuni paesi europei l'uso del crocifisso in luoghi pubblici, e in particolare nelle aule scolastiche, è vietato, perché si garantisce così, non solo teoricamente, la parità tra la religione cattolica e gli altri credi religiosi professati dalla popolazione. Negli Stati Uniti i simboli religiosi non sono vietati nei luoghi pubblici quando esposti in modo appropriato e passivo, semplicemente perché i tribunali americani riconoscono il valore non solo di fede ma anche culturale e civile dei simboli religiosi. Nella fattispecie, il crocifisso è visto come simbolo cristiano ma anche del sacrificio militare. Questo ultimo aspetto mi porta ad affrontare, sinteticamente, la questione della presenza del simbolo cristiano del crocifisso nei luoghi pubblici in Italia. Lasciamo da parte la questione se è giusto che un paese laico dia la preferenza ad un simbolo religioso, che pure rappresenta una parte fondamentale della sua storia, piuttosto che ad altri. Proviamo invece a svolgere una riflessione di carattere psicologico e antropologico.
Mi pare che si debba partire dall'asserzione che il significato di un simbolo non sia oggettivo e unilaterale ma debba essere liberamente lasciato all'interpretazione di chi lo guarda.
Faccio un esempio in proposito. Una persona, magari di famiglia musulmana, regala ad un'altra un tessuto indiano coloratissimo, splendidamente ricamato con immagini floreali. Ai suoi occhi appare bellissimo, originale. Alla sua mente ricorda una storia ancestrale di popoli lontani, di usanze misteriose e sconosciute ai più. L'effetto indotto sull'altro, qualora sia, per esempio, di origine ebraica, può essere però devastante e provocare reazioni sdegnate. Ciò accade nel momento in cui in quel mosaico di forme e colori, l'altro vada subito ad individuare una piccola croce uncinata, simbolo solare diffuso in Oriente. La persona ricevente lo interpreterà, piuttosto, come una svastica nazista, con tutti i collegamenti logici del caso.
Questo piccolo esempio serve per dimostrare che qualsiasi simbolo, religioso o meno, essendo aperto a interpretazioni diverse, non potrà mai rappresentare il pensiero di un'intera nazione.
E' evidente che per alcuni cattolici, più o meno praticanti, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, rappresenti il simbolo dell'amore e del sacrificio eminentemente cristiano, ma per altri possa rappresentare, ad esempio, il potere esclusivamente temporale e politico della chiesa.
In sintesi: se da un lato, missionari, sacerdoti, gente di buona volontà hanno diffuso pacificamente e con tolleranza, spesso con il crocifisso in pugno, la parola di Cristo tra la gente, dall'altro, a qualcuno quel simbolo potrebbe suggerire alla mente le stragi di islamici durante le Crociate, gli eccidi degli albigesi, i massacri dei valdesi, le torture dell'Inquisizione, lo sterminio dei nativi sudamericani, perpetrate proprio con la croce impressa sugli scudi.
Il simbolo religioso, nella fattispecie il simbolo cristiano per eccellenza, è carico di valori soggettivi e, come tale, non può rappresentare tutta la cristianità italiana, né tanto meno la cristianità mondiale, ma forse, solo i cattolici. Ad esempio, per gli ebrei, per gli islamici, ma anche per molti cristiani, esso è indice di idolatria.
Ecco, per questa semplice motivazione psicologica e antropologica, e non per ragioni politiche, teologiche o di puro principio filosofico, uno stato laico non dovrebbe consentire, né tanto meno imporre che il crocifisso, così come qualsiasi altro simbolo religioso, sia esposto nelle sue sedi pubbliche, e in particolare nelle scuole. Il suo posto è nelle chiese.
Questo, peraltro, non significa affatto mettere in discussione i valori umani e sociali insiti nell'insegnamento del Vangelo e nella figura di Cristo. Anzi, va detto che, proprio attraverso una riforma e una revisione dell'impostazione data, ad esempio, all'ora di religione nelle scuole, esso potrebbe acquistare ulteriori motivi e momenti di studio, di analisi comparata rispetto alle altre religioni, in una sorta di nuova ora di storia delle religioni del mondo, come sosteneva, tra gli altri, l'antropologo Alfonso Di Nola. Ciò arricchirebbe fortemente, a mio avviso, il messaggio stesso del cristianesimo. Lo si affronterebbe, infatti, non in modo simbolico, emotivo e dogmatico, cioè a dire attraverso un crocifisso appeso al muro, ma in modo storico, analitico, sociale. Voler diffondere il messaggio cristiano a colpi di crocifisso significa avere una visione gretta, limitata, assolutamente incompatibile con la realtà di oggi, momento in cui occorrerebbe, più che mai, una chiesa capace di aprirsi alle novità delle nuove generazioni.
A questa spiegazione rigorosamente culturale, ne aggiungerei un'altra di carattere storico. Il crocifisso è previsto da un decreto risalente addirittura all'Unità d'Italia, confermato poi dalla monarchia nel 1908, ma è stato imposto nelle scuole statali solo dal regime fascista nel 1924, anno del delitto Matteotti, e poi passato automaticamente indenne nel Concordato del 1929.
Ora, a quell'epoca, il simbolo del crocifisso non era esclusivo nelle pareti delle scuole, ma era affiancato, alla sua destra, dal ritratto del Re d'Italia, e alla sua sinistra, da quello del Duce. Ed aveva un senso proprio in quel preciso contesto. Già prima, ad esempio durante il Risorgimento e per tutto il primo periodo post-unitario, la questione della libertà religiosa era stata affrontata e dibattuta con una serietà ed un rigore morale completamente sconosciuti al regime, tanto che vari governanti e politici, fino a Giolitti, non accettarono mai la pretesa dei cattolici di imporre il crocifisso nei luoghi pubblici. Successivamente, nei decenni repubblicani, la scelta di mantenere quel simbolo religioso come emblema dell'italianità fu dovuta a questioni di semplice opportunità politica, per ingraziarsi le alte sfere ecclesiastiche, prima da parte degli spesso poco religiosi e moralmente corrotti dirigenti democristiani, poi da parte dell'altrettanto corrotto leader socialista. Oggi, nella cosiddetta “seconda repubblica”, seppure in una società ormai completamente secolarizzata, l'atteggiamento di supina sudditanza e riverenza di maggioranza e opposizione nei confronti della Chiesa, continua (si prenda, ad esempio, il recente articolo di Veltroni sul “Foglio” di Ferrara, dal titolo “Io sto col Papa”).
Vivaddio, la storia d'Italia, fino a prova contraria, non è stata fatta solo da Mussolini, Andreotti e Craxi, ma anche da Mazzini, Garibaldi e Cavour. E non tutti hanno permesso che il crocifisso fosse assurto a simbolo dell'italianità e presente immancabilmente nei luoghi pubblici, come spesso qualcuno cerca di far credere agli italiani.
Forse in un futuro prossimo, una classe politica completamente rinnovata, attenta, critica, fatta da giovani con una mentalità aperta al nuovo contesto globale e multiculturale, ma non per questo contraria pregiudizialmente a certi valori religiosi, e tanto meno digiuna dei principi (l'art. 3, 8 e 19) che definiscono incompatibile la presenza di qualsiasi simbolo religioso in posizione di monopolio con il dettato costituzionale, deciderà di equiparare finalmente il nostro paese, anche su questo argomento apparentemente futile o astratto, ma in realtà carico di significati, agli altri più avanzati paesi europei. Non sarebbe affatto un modo per sminuire il valore della religione cattolica, ma piuttosto per darle uno “scossone”, nel tentativo di renderla più viva e vitale, e non così arroccata su se stessa e separata dalla società in cui viviamo.
Fonte: Cronache Laiche
La biografia politica di De Gasperi
Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.
- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.
(Archivio Fondazione De Gasperi)
- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilità di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].
- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.
- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).
(Tratto da: “Passato e Presente”, n. 78)
Di fronte ad una politica del tutto irrazionale è arrivato il momento di agire. Qualche pensiero domenicale
E' un po' snervante riuscire a fare un'analisi critica quando si vive una situazione politica e sociale come quella che vive oggi il nostro paese. Gli impegni della vita quotidiana sono sempre più duri e faticosi per tutti, sempre meno tempo è lasciato alla possibilità di riflettere e analizzare, bisogna agire. Di rado, credo, come in questi ultimi due anni, la scena politica e sociale del paese è andata involvendosi in maniera così incalzante, rapida, quasi frettolosa. Si è sempre in balia di qualcosa, qualche affermazione, qualche azione da parte della maggioranza che si aggiunge subito ad un'altra aberrante appena fatta. E questo accade, per di più, in una situazione di complicata crisi economica generale, non solo italiana.
Come se non bastasse, lo spazio dell'informazione e dell'analisi o dell'approfondimento è estremamente ridotto. Tutto o quasi è in mano ad una visione che se non è del tutto allineata alle posizioni della maggioranza, comunque sia appare conformista, accomodante, spesso connivente. Ci siamo gradualmente abituati a leggere i titoli dei giornali, ad ascoltare le notizie dei telegiornali, non come informazioni ma come prese di posizione. Non ci si meraviglia neanche più quando si viene a sapere che una certa notizia, largamente diffusa nel paese, è completamente falsa. Non che non ci sia modo di formarsi un'opinione diversa dal grigio conformismo che avanza, ma è uno spazio ridotto, destinato solo a chi conosce certi circuiti, a chi può fare certe cose, non certo a tutti, né alla maggioranza della popolazione. C'è internet, ma è difficile districarsi tra i siti, qualche giornale critico con tirature limitatissime, qualche radio, ogni tanto qualche trasmissione su qualche canale alla tv, ma poco, poco altro.
La reazione a questa condizione anche psicologica è generalmente di due tipi. Alcuni si rinchiudono al di qua della vita politica, è il fenomeno dell'antipolitica. Si manifesta diversamente, per esempio si contesta a prescindere, si è distruttivi. Oppure, si parla solo di certe cose, di prezzi che salgono, del calcio, della propria attività professionale. E non è soltanto un atteggiamento di destra. Si sentono parlare così anche persone che stanno a sinistra. Non si parla in questo modo solo al supermercato, al bar o dentro al bus. Altri, invece, si danno un punto fermo di riferimento nella confusione della situazione politica. Anche in questo caso ci sono soprattutto due modi di farlo: c'è chi estremizza la lotta politica, c'è chi la modera cercando di dare sostegno alle istituzioni democratiche consolidate. Sono entrambe posizioni nobilissime in una situazione come questa, si tratta di principi affermati solennemente, che salvaguardano l'identità personale di ciascuno, ma che non consentono affatto di prevedere i comportamenti reali. In poche parole la difficoltà di analisi della situazione è dovuta al fatto di trovarsi di fronte a comportamenti politicamente spesso irrazionali, sia da parte della maggioranza al governo, sia da parte dell'opposizione. La prima tracotante e rigida nella strategia di svuotamento della costituzione e di modifica delle regole del gioco politico, la seconda così inerme, senza strategia di lungo periodo, in balia degli episodi.
Tutto questo non avrebbe conseguenze gravi se si limitasse a mettere in difficoltà l'eventuale storico o il sociologo di turno, un osservatore intellettuale diciamo: il problema è che questa situazione paradossale coinvolge lo stesso pensiero politico al punto da separare totalmente principi teorici e programmi di ampio respiro da azioni concrete, pragmatismo politico, iniziative incalzanti. Si pensi alla politica economica, ma si potrebbero fare tantissimi altri esempi. Tutti sentono che un cambiamento di politica economica è indispensabile e urgente, ma non si formula mai un'analisi o un programma veramente alternativo, se non qualcuno che non ha neppure rappresentanza in parlamento. Lo stesso sulla questione del lavoro, dell'università, etc. E' come se l'evento, il fatto in sé, regnasse da assoluto padrone, per cui dopo l'azione incriminata c'è la levata di scudi, l'opposizione insorge, però poi tutto continua allo stesso modo, perché? Perché si naviga a vista, perché non c'è strategia di lungo corso. E ciò rende ancora più complicata e difficoltosa l'analisi dell'osservatore. Spesso viene voglia di rinchiudersi nella propria riflessione o di difendere la propria tranquillità di spirito appoggiando con un semplice click questa o quest'altra iniziativa su facebook. Ma non basta fare così, in questo momento. Il ruolo di chi analizza, dello storico, del sociologo, del politologo, dell'opinionista (quando è serio), che a molti può sembrare qualcosa di irrisorio o di inutile, è comunque importante e utile in questo contesto così sfuocato. Perché aiuta a chiarire i rapporti sociali, a smascherare il dominio del conformismo, a fomentare libertà di pensiero e di espressione.
Occorre per questo unirsi agli attori sociali e politici che lottano VERAMENTE per rendere evidente la realtà dei rapporti sociali, per svolgere una funzione alternativa al modello imposto attualmente dominante. Cercare nuove forme di partecipazione civile è oggi l'obiettivo principale di chiunque voglia dare un contributo serio a modificare la realtà politica e sociale del paese. Non è più tempo di comitati scientifici di questa o quest'altra fondazione, non è più tempo di centri studi, occorre invece fiancheggiare criticamente la nuova modalità di partecipazione, questa dirompente spinta che viene da quella parte dei giovani di sinistra rimasti finora estranei alla politica vissuta come attivisti, alla freschezza e novità di chi ha deciso di dare il proprio contributo in maniera creativa e originale, mettendo a servizio degli altri la propria passione e le proprie competenze. In definitiva, non è più tempo di riflettere e di tergiversare, ma è giunto il tempo di agire.
(Archivio Alinari)
Motivi per cui l'attacco alla costituzione avrà vita durissima
Le riflessioni che seguono sono il frutto di una rielaborazione (e anche di una inevitabile semplificazione) di alcuni scritti di tre grandissimi giuristi, Piero Calamandrei, Paolo Barile e Stefano Rodotà, ai quali rimando per una lettura proficua e intelligente sulla Costituzione, ma non solo. Alla luce dei vari eventi e incontri organizzati in questi ultimi giorni in tutta Italia, e in particolare anche a Firenze, in difesa della Costituzione, può essere utile condividere qualsiasi contributo critico che vada in questa direzione.
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Visto che proseguono gli attacchi alla Costituzione su più fronti è bene fare un po' di chiarezza sulla sua attualità e importanza, con qualche pezza di appoggio storica e giuridica. Il tentativo di modificare la Costituzione (nella fattispecie la seconda parte) è stato fatto già nel 2006 dal centro-destra e si è scontrato con l'opposizione della maggioranza, per l'esattezza il 61%, del popolo italiano,
andato alle urne per il referendum.
Va subito detto, a scanso di equivoci e proprio per non sembrare nostalgici del passato o anche conservatori, che la Costituzione italiana, in se stessa, non è immodificabile. Attraverso l'art. 138 essa può essere cambiata e aggiornata. Però va specificato che con l'art. 138 si può soltanto emendare in parte la Costituzione, quindi non la si può modificare per intero e soprattutto non in relazione ad alcuni principi fondamentali, i principi supremi come vengono chiamati dalla Corte costituzionale, che li ha dichiarati intoccabili. Per esempio si può modificare la forma di governo, ma non certo la forma di stato. E' importante capire che questi principi fondamentali, a differenza di quello che sostengono in tanti, non si trovano solo nella prima parte della Costituzione, laddove si parla di libertà individuale e diritti sociali, ma anche nella seconda parte (per esempio sul ruolo del presidente della repubblica o dei giudici della corte costituzionale).
Con l'art. 138, allora, si potrebbero ampliare alcune norme contenute nella Costituzione: altro che passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, ma piuttosto, modifica dell'art. 21 relativo alla libertà di espressione del pensiero, come ha argutamente affermato Barile. Infatti, per esempio si potrebbe ricordare che, quando fu approvata la carta costituzionale cioè nel 1948, non esisteva la televisione, per cui quell'articolo fa riferimento solo alla stampa e non, invece, ai mass-media, che hanno acquisito un sempre maggiore potere nella società moderna. Per esempio, un parlamento serio e civile dovrebbe garantire nella massima legge dello stato, come ha sostenuto in più occasioni la Corte costituzionale, il pluralismo delle voci (altro che leggina sul conflitto di interessi). Questo sarebbe un esempio di modifica costruttiva della Costituzione. Sempre più spesso, oggi, sui giornali, ma anche tra la gente, in piazza o al bar, quando si parla di costituzione la si definisce o troppo vecchia, o si dice che va rivista, e che è stata il frutto di un compromesso, usando questa parola con un certo disprezzo. Si parla, per esempio, di norme di compromesso per dire che la proprietà privata è garantita ma con troppi limiti (art. 42), si dice che l'iniziativa privata (delle imprese in particolare) è libera ma con troppe limitazioni (art. 41). In realtà, e a ben guardare, si tratta di norme non limitanti o contraddittorie ma di equilibrio e sensatezza.
Non è un caso che la nostra Costituzione è stata imitata in tanti paesi europei per la sua istanza garantista ed è considerata all'avanguardia per molti articoli (per esempio quello sulla tutela della cooperazione sociale). Più che di compromesso deleterio e vecchio si dovrebbe parlare di grande patto tra le forze politiche del passato a tutela del cittadino di allora e anche di quello di oggi, con una base di valori di altissima moralità. Inoltre finché certi articoli (in questi giorni viene in mente proprio l'art.1, cioè l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro) non saranno concretamente attuati e realizzati, la Costituzione non sarà mai vecchia ma anzi sarà sempre viva, finchè ci sarà soltanto una uguaglianza di diritto tra i cittadini e non di fatto, la costituzione servirà come bussola di orientamento. Essa è infatti, per certi versi, come ha detto Calamandrei, non una realtà ma un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.
Ma veniamo adesso agli attacchi. Berlusconi e il suo governo attaccano la Costituzione in tanti modi (per esempio esautorando completamente il parlamento e governando per decreto-legge, attaccando ad ogni occasione la magistratura) ma il loro sogno rimane quello di trasformare l'Italia in una repubblica presidenziale da lui guidata. E' beninteso che in una repubblica presidenziale i membri del governo non sarebbero responsabili di fronte al parlamento come invece accade in una repubblica parlamentare (ma anche questo è un concetto che funziona in teoria ma che in Italia di recente appare quasi un'utopia), ma essi sono dei semplici funzionari del presidente eletto dal popolo. Negli Stati Uniti è così. In Francia, invece, il presidente della repubblica è, sì, eletto dal popolo, ma fa parte di un governo che è un governo parlamentare, quindi è pur sempre quest'ultimo, in sostanza, il capo dell'esecutivo. Nel caso di un passaggio ad una repubblica presidenziale all'americana andrebbe cambiata per intero la Costituzione, perchè il presidente della repubblica attualmente ha solo una funzione di garanzia e non di indirizzo politico del governo. E ciò non è possibile costituzionalmente. Anche nel caso di una trasformazione in una repubblica presidenziale alla francese la nostra costituzione dovrebbe subire mutamenti molto profondi: infatti non sarebbe sufficiente modificarla con l'art. 138 perchè si tratterebbe di un cambiamento di forma di stato e non di forma di governo. Inoltre, se il parlamento, come in molti chiedono, facesse una legge costituzionale che prevede l'elezione di una nuova assemblea costituente, compirebbe un atto palesemente in contrasto con l'art. 138, sarebbe dunque una violazione della costituzione stessa. A questo proposito, è utile ricordare prendendo in prestito le parole di Rodotà, che la Costituzione non appartiene più al parlamento, visto che di ogni legge in corso di discussione ci si chiede se il presidente della repubblica la firmerò o no, quali siano i rischi di una dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, in poche parole i custodi della Costituzione sono altrove, oltre al fatto che essa sembra essere stata degradata ad una qualsiasi altra legge ordinaria.
Il secondo pericoloso attacco alla Costituzione è quello di Bossi e della Lega che provano a demolirla costantemente sul fronte dell'unità del paese e del federalismo (si è perfino tornati a parlare, di recente, cavalcando la vecchia tigre, di secessione). E' bene che i leghisti se ne facciano una ragione. La Costituzione prevede uno stato regionale e non federale. Chi parla di federalismo prefigura uno stato che da regionale dovrebbe trasformarsi in federale. Esso, in realtà, andando oltre la simbolica propaganda leghista, non sarebbe poi così diverso da quello regionale. In altre parole, si potrebbe fare in modo che il regionalismo attuato in modo insoddisfacente (dal 1970) e previsto fin dall'approvazione della Costituzione, venisse rivitalizzato e migliorato. Per fare ciò occorre però capovolgere l'art. 117, stabilendo alcune materie precise di esclusiva pertinenza dello stato e dando il resto, cioè quasi tutto, alle regioni. Per giungere a questa riforma si può scegliere il percorso della revisione dell'art. 138, attraverso la divisione tra potere di revisione e potere costituente normalmente accettata, modificando la forma di governo ma non mai quella dello stato.
Stando così le cose si evince che l'art. 138 non permette di attuare il federalismo nello stato italiano, ma solo di potenziare il ruolo delle regioni, per esempio, sullo scottante problema delle imposte e quindi del paventato federalismo fiscale (ma solo tenendo ben presente i costi complessivi di una tale riforma e pesando vantaggi e svantaggi per le diverse regioni).
In definitiva, con buona pace di Berlusconi, Bossi e rispettivi elettorati, l'attuale Costituzione italiana non permette nè il passaggio ad una repubblica presidenziale, nè il passaggio ad uno stato federale. Se è dunque vero che il popolo italiano, a maggioranza schiacciante, ha stabilito di recente, nel 2006, e non certo secoli o decenni fa, che l'attuale Costituzione non va modificata nè tanto meno rivoluzionata o smembrata, allora, per la stessa legge della maggioranza a cui tanto spesso si richiamano i suddetti personaggi per dare peso ai proprio progetti politici, toccherà che l'attuale centro-destra al governo se ne faccia al più presto una ragione e non insista su propositi quantomeno stravaganti costituzionalmente. A meno che non ci sia seriamente la volontà (e in tal caso nessuno dell'attuale maggioranza di governo potrebbe chiamarsi fuori dalla responsabilità) di trasformare l'italia in uno stato autoritario, nel senso di voler fare carta straccia dei più importanti principi regolatori della vita del paese. Siccome sembra di percepire un certo smarrimento o comunque una mancanza di verve e di coraggio da parte dei partiti di opposizione, in generale ma anche su questo argomento così importante e decisivo, per questi e per tanti altri motivi, occorre oggi più che mai vigilare, individualmente e collettivamente, di fronte a qualsiasi anche piccolo e apparentemente limitato tentativo che vada in questa pericolosa direzione. Ecco perchè non ha molto senso dividersi, marciare in ordine sparso, per esempio andando a questa iniziativa in modo auto-referenziale piuttosto che ad un'altra, ma occorre invece unirsi tutti in difesa della Costituzione.
(Fonte Internet)
Su politica e mezzogiorno oggi
Alla luce dei continui e sempre più deplorevoli attacchi di alcune forze politiche (ma si legga pure Lega!) alla Costituzione, all'unità del paese e in particolare al Mezzogiorno, mi permetto di fare una provocazione.
Rivolta a chi? - mi chiederete.
Diciamo in generale alla sinistra italiana, quindi al Pd, a Vendola e a chi per loro dovrebbe mettersi alla testa di un movimento di rinnovamento della politica che partisse proprio dal tanto vituperato sud d'Italia.
Circa un secolo fa un docente socialista, promotore tra l’altro di una collana di scritti di Marx, Engels, Lassalle per l’edizioni Avanti! fu protagonista, insieme a pochi altri socialisti come lui, di una lotta senza quartiere contro le mafie e la camorra proprio nel Mezzogiorno. Cambiano gli uomini, le facce, cantava Battiato, ma la storia si ripete.
(Fonte Internet)
Oggi abbiamo Saviano, per fortuna, con buona pace dei polemisti di professione. Non sono tra i fautori della politica sopra ogni cosa, anzi credo che la politica, oggi più che mai, sia sempre più una specie di rifugium peccatorum. Ma è il caso di dirlo, per evitare i velleitarismi e i qualunquismi, l’unico modo che potrebbe non dico interrompere ma quantomeno scalfire lo strapotere nel meridione delle mafie, della 'ndrangheta, sempre più potente, e della camorra, è proprio la politica, ma intesa come mobilitazione democratica del mondo della cultura e soprattutto della gente comune: è nell’assenza di sedi dove si dovrebbero elaborare le proposte, controllare le rappresentanze, dove si dovrebbero mettere in atto buone pratiche, che prosperano i gruppi criminali, insomma dove non si respira la democrazia.
Si potrebbe guardare al passato per prendere esempio. Nel 1948 in occasione di quel fatale 18 aprile che aprì la strada al trentennio di strapotere democristiano, proprio per provare ad opporsi a qualcosa che si presagiva letale per il paese, un gruppo di personalità della Sinistra (con la “S” maiuscola ovviamente se la paragoniamo all'oggi) diede vita al cosiddetto Fronte democratico del Mezzogiorno, che si inseriva nel contesto più generale di quel famoso Fronte popolare che aveva come emblema elettorale il volto di Garibaldi. Tra le tante personalità che diedero vita a quel movimento, basti ricordarne due: il comunista Giorgio Amendola e il socialista Francesco De Martino. Si trattò del primo e unico grande movimento democratico di massa che il Sud e le isole abbiano conosciuto nella loro storia (altro che movimento autonomista siciliano!), che guidò movimenti di lotta costati la vita a decine di sindacalisti, di braccianti e operai uccisi a volte dalla polizia altre volte dalla criminalità, che creò circoli culturali, riviste, insomma che mise in circolo idee democratiche e grandi speranze.
Ecco, perché oggi non si parla mai di qualcosa di simile?
A chi fa paura qualcosa del genere?
La storia non si ripete uguale ma ricordarne gli esempi, scoprirne e condividerne i protagonisti, può permettere di riproporre, di alimentare culture, stimolare idealità, suggerire nuovi modelli di lotta culturale e politica. Sarebbe bene che i giovani, almeno quelli che ci credono (e non sono affatto poche mosche bianche, credetemi), ma anche, più in generale, le forze politiche di sinistra, quelle più o meno organizzate, più o meno forti numericamente e materialmente, almeno quelle che si sentono eredi o comunque vicine a certe forme di lotta e di proposta politica (diciamo quella parte che è disposta ancora a credere nella validità della Costituzione e quelle sinistre sparse, non solo laiche ma anche espressione di un certo mondo cattolico, che hanno voglia di dare un contributo che non sia di mera contestazione) riscoprissero e valorizzassero di nuovo quella grande pagina della nostra storia del meridione, accantonando una volta per tutte le rivalità e le piccole beghe di bottega. Oltretutto, la proposta di un cartello della Sinistra democratica del Mezzogiorno, di un movimento che unisse forze espressione di una vera alternativa di sinistra, che unisse soprattuttto diversi gruppi della società civile (penso alle Fabbriche di Nichi, al Popolo viola, a certi gruppi di elaborazione culturale del pd, e a tanti altri), avrebbe perfino più chances di riuscire e andare in porto di quella del Fronte del ‘48, visto che allora il movimento fallì per colpa della divisione tra socialisti e comunisti (la solita storia) a seguito dei fatti di Ungheria del ‘56, mentre stavolta non c’è più l’Urss a dividere, ma ci sarebbero la lotta all'idiotismo della Lega e il richiamo alla Costituzione che potrebbero, invece che dividere, unire.
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