federalismo

La biografia politica di De Gasperi

Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi
è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.

- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.

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(Archivio Fondazione De Gasperi)

- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilit
à di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].

- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.

- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).

(Tratto da:
“Passato e Presente”, n. 78)

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Motivi per cui l'attacco alla costituzione avrà vita durissima

Le riflessioni che seguono sono il frutto di una rielaborazione (e anche di una inevitabile semplificazione) di alcuni scritti di tre grandissimi giuristi, Piero Calamandrei, Paolo Barile e Stefano Rodotà, ai quali rimando per una lettura proficua e intelligente sulla Costituzione, ma non solo. Alla luce dei vari eventi e incontri organizzati in questi ultimi giorni in tutta Italia, e in particolare anche a Firenze, in difesa della Costituzione, può essere utile condividere qualsiasi contributo critico che vada in questa direzione.

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Visto che proseguono gli attacchi alla Costituzione su più fronti è bene fare un po' di chiarezza sulla sua attualità e importanza, con qualche pezza di appoggio storica e giuridica. Il tentativo di modificare la Costituzione (nella fattispecie la seconda parte) è stato fatto già nel 2006 dal centro-destra e si è scontrato con l'opposizione della maggioranza, per l'esattezza il 61%, del popolo italiano,
andato alle urne per il referendum.

Va subito detto, a scanso di equivoci e proprio per non sembrare nostalgici del passato o anche conservatori, che la Costituzione italiana, in se stessa, non
è immodificabile. Attraverso l'art. 138 essa può essere cambiata e aggiornata. Però va specificato che con l'art. 138 si può soltanto emendare in parte la Costituzione, quindi non la si può modificare per intero e soprattutto non in relazione ad alcuni principi fondamentali, i principi supremi come vengono chiamati dalla Corte costituzionale, che li ha dichiarati intoccabili. Per esempio si può modificare la forma di governo, ma non certo la forma di stato. E' importante capire che questi principi fondamentali, a differenza di quello che sostengono in tanti, non si trovano solo nella prima parte della Costituzione, laddove si parla di libertà individuale e diritti sociali, ma anche nella seconda parte (per esempio sul ruolo del presidente della repubblica o dei giudici della corte costituzionale).
Con l'art. 138, allora, si potrebbero ampliare alcune norme contenute nella Costituzione: altro che passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, ma piuttosto, modifica dell'art. 21 relativo alla libert
à di espressione del pensiero, come ha argutamente affermato Barile. Infatti, per esempio si potrebbe ricordare che, quando fu approvata la carta costituzionale cioè nel 1948, non esisteva la televisione, per cui quell'articolo fa riferimento solo alla stampa e non, invece, ai mass-media, che hanno acquisito un sempre maggiore potere nella società moderna. Per esempio, un parlamento serio e civile dovrebbe garantire nella massima legge dello stato, come ha sostenuto in più occasioni la Corte costituzionale, il pluralismo delle voci (altro che leggina sul conflitto di interessi). Questo sarebbe un esempio di modifica costruttiva della Costituzione. Sempre più spesso, oggi, sui giornali, ma anche tra la gente, in piazza o al bar, quando si parla di costituzione la si definisce o troppo vecchia, o si dice che va rivista, e che è stata il frutto di un compromesso, usando questa parola con un certo disprezzo. Si parla, per esempio, di norme di compromesso per dire che la proprietà privata è garantita ma con troppi limiti (art. 42), si dice che l'iniziativa privata (delle imprese in particolare) è libera ma con troppe limitazioni (art. 41). In realtà, e a ben guardare, si tratta di norme non limitanti o contraddittorie ma di equilibrio e sensatezza.

Non
è un caso che la nostra Costituzione è stata imitata in tanti paesi europei per la sua istanza garantista ed è considerata all'avanguardia per molti articoli (per esempio quello sulla tutela della cooperazione sociale). Più che di compromesso deleterio e vecchio si dovrebbe parlare di grande patto tra le forze politiche del passato a tutela del cittadino di allora e anche di quello di oggi, con una base di valori di altissima moralità. Inoltre finché certi articoli (in questi giorni viene in mente proprio l'art.1, cioè l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro) non saranno concretamente attuati e realizzati, la Costituzione non sarà mai vecchia ma anzi sarà sempre viva, finchè ci sarà soltanto una uguaglianza di diritto tra i cittadini e non di fatto, la costituzione servirà come bussola di orientamento. Essa è infatti, per certi versi, come ha detto Calamandrei, non una realtà ma un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.

Ma veniamo adesso agli attacchi. Berlusconi e il suo governo attaccano la Costituzione in tanti modi (per esempio esautorando completamente il parlamento e governando per decreto-legge, attaccando ad ogni occasione la magistratura) ma il loro sogno rimane quello di trasformare l'Italia in una repubblica presidenziale da lui guidata. E' beninteso che in una repubblica presidenziale i membri del governo non sarebbero responsabili di fronte al parlamento come invece accade in una repubblica parlamentare (ma anche questo
è un concetto che funziona in teoria ma che in Italia di recente appare quasi un'utopia), ma essi sono dei semplici funzionari del presidente eletto dal popolo. Negli Stati Uniti è così. In Francia, invece, il presidente della repubblica è, sì, eletto dal popolo, ma fa parte di un governo che è un governo parlamentare, quindi è pur sempre quest'ultimo, in sostanza, il capo dell'esecutivo. Nel caso di un passaggio ad una repubblica presidenziale all'americana andrebbe cambiata per intero la Costituzione, perchè il presidente della repubblica attualmente ha solo una funzione di garanzia e non di indirizzo politico del governo. E ciò non è possibile costituzionalmente. Anche nel caso di una trasformazione in una repubblica presidenziale alla francese la nostra costituzione dovrebbe subire mutamenti molto profondi: infatti non sarebbe sufficiente modificarla con l'art. 138 perchè si tratterebbe di un cambiamento di forma di stato e non di forma di governo. Inoltre, se il parlamento, come in molti chiedono, facesse una legge costituzionale che prevede l'elezione di una nuova assemblea costituente, compirebbe un atto palesemente in contrasto con l'art. 138, sarebbe dunque una violazione della costituzione stessa. A questo proposito, è utile ricordare prendendo in prestito le parole di Rodotà, che la Costituzione non appartiene più al parlamento, visto che di ogni legge in corso di discussione ci si chiede se il presidente della repubblica la firmerò o no, quali siano i rischi di una dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, in poche parole i custodi della Costituzione sono altrove, oltre al fatto che essa sembra essere stata degradata ad una qualsiasi altra legge ordinaria.

Il secondo pericoloso attacco alla Costituzione
è quello di Bossi e della Lega che provano a demolirla costantemente sul fronte dell'unità del paese e del federalismo (si è perfino tornati a parlare, di recente, cavalcando la vecchia tigre, di secessione). E' bene che i leghisti se ne facciano una ragione. La Costituzione prevede uno stato regionale e non federale. Chi parla di federalismo prefigura uno stato che da regionale dovrebbe trasformarsi in federale. Esso, in realtà, andando oltre la simbolica propaganda leghista, non sarebbe poi così diverso da quello regionale. In altre parole, si potrebbe fare in modo che il regionalismo attuato in modo insoddisfacente (dal 1970) e previsto fin dall'approvazione della Costituzione, venisse rivitalizzato e migliorato. Per fare ciò occorre però capovolgere l'art. 117, stabilendo alcune materie precise di esclusiva pertinenza dello stato e dando il resto, cioè quasi tutto, alle regioni. Per giungere a questa riforma si può scegliere il percorso della revisione dell'art. 138, attraverso la divisione tra potere di revisione e potere costituente normalmente accettata, modificando la forma di governo ma non mai quella dello stato.
Stando cos
ì le cose si evince che l'art. 138 non permette di attuare il federalismo nello stato italiano, ma solo di potenziare il ruolo delle regioni, per esempio, sullo scottante problema delle imposte e quindi del paventato federalismo fiscale (ma solo tenendo ben presente i costi complessivi di una tale riforma e pesando vantaggi e svantaggi per le diverse regioni).

In definitiva, con buona pace di Berlusconi, Bossi e rispettivi elettorati, l'attuale Costituzione italiana non permette n
è il passaggio ad una repubblica presidenziale, nè il passaggio ad uno stato federale. Se è dunque vero che il popolo italiano, a maggioranza schiacciante, ha stabilito di recente, nel 2006, e non certo secoli o decenni fa, che l'attuale Costituzione non va modificata nè tanto meno rivoluzionata o smembrata, allora, per la stessa legge della maggioranza a cui tanto spesso si richiamano i suddetti personaggi per dare peso ai proprio progetti politici, toccherà che l'attuale centro-destra al governo se ne faccia al più presto una ragione e non insista su propositi quantomeno stravaganti costituzionalmente. A meno che non ci sia seriamente la volontà (e in tal caso nessuno dell'attuale maggioranza di governo potrebbe chiamarsi fuori dalla responsabilità) di trasformare l'italia in uno stato autoritario, nel senso di voler fare carta straccia dei più importanti principi regolatori della vita del paese. Siccome sembra di percepire un certo smarrimento o comunque una mancanza di verve e di coraggio da parte dei partiti di opposizione, in generale ma anche su questo argomento così importante e decisivo, per questi e per tanti altri motivi, occorre oggi più che mai vigilare, individualmente e collettivamente, di fronte a qualsiasi anche piccolo e apparentemente limitato tentativo che vada in questa pericolosa direzione. Ecco perchè non ha molto senso dividersi, marciare in ordine sparso, per esempio andando a questa iniziativa in modo auto-referenziale piuttosto che ad un'altra, ma occorre invece unirsi tutti in difesa della Costituzione.

calamandrei
(Fonte Internet)

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