lavoro

La vita quotidiana alla fine degli anni Venti

Moda e libertà

Alla metà degli anni Venti la donna si muove alla conquista di una nuova immagine di sé e di una maggiore libertà di movimento. Non è raro trovarla in atteggiamenti che in passato le erano vietati perché considerati sconvenienti: può truccarsi e fumare in pubblico, come il caso di queste quattro ragazze in costume da bagno sulla spiaggia di Aldeburgh, a Suffolk, nel 1927. Può trascorrere molto più tempo fuori di casa. La diffusione di nuovi ambiti di socializzazione, come i cafè-concert, le sale da ballo, i teatri, i clubs, i cinema, gli stadi, modifica in maniera radicale le abitudini di aggregazione, permettono la creazione di ulteriori spazi vitali, fuori dal contesto familiare. In questi scenari la donna inizia a muoversi gradualmente, nonostante in molti casi essa resti ancora esclusa e relegata a un ruolo marginale o di abbellimento. L’abbigliamento è improntato a dare un’immagine di grande dinamicità. Dopo il 1925, le gonne si accorciano al ginocchio: portate con disinvoltura, diventano il simbolo dell’aspirazione all’indipendenza. L’Europa, che da un lato guarda al benessere degli Stati Uniti, ha il suo centro in questa rivoluzione estetica in Francia. A Parigi Gabrielle Chanel, detta Coco, che già da anni proponeva l’uso dei maglioni maschili per le donne, lancia con grande scalpore la moda alla garçonne: abiti sciolti e lineari, gonne che iniziano ai fianchi, corte, ondeggianti a metà polpaccio, vita poco pronunciata, adatta a donne magre e giovani, La grande praticità di questo tipo di abbigliamento porta alla diffusione mondiale di questo modello, suggerisce l’idea di una vivace e scanzonata adolescenza, come dimostrano queste giovani donne che calcano un prato inglese quasi fosse il palco di una sfilata. Tipici i copricapi a cloche in feltro, sotto i quali la donna nasconde i capelli tagliati corti. Un autentico oggetto di culto è quello di velluto nero con striscia argentata obliqua in bella vista, ultimo capriccio del nascente cinema hollywodiano: lo Zeppelin Hat, indossato dall’attrice americana Anita Page nel film sulla storia del dirigibile Graf Zeppelin.

La nuova moda mare

Con la diffusione della moda dell’abbronzatura e delle vacanze al mare, i migliori stilisti si lanciano con fantasia nella produzione di tenute balneari originali che riscuotono un grande successo. I tre modelli distesi al sole insieme alle tre modelle portano pantaloncini da bagno firmati Jantzen. Il due pezzi nero, indossato dalla modella Simone De Maria, pu
ò essere considerato quasi un’anticipazione del bikini: calzoncini corti e attillati e un top dello stesso colore, con al centro il monogramma personalizzato del famoso Jean Patou, il sarto preferito dalla stella del cinema Louise Brooks. Patou, che ha aperto a Parigi un esclusivo atelier dedicato ai costumi da bagno, risulta un eccezionale creatore di collezioni da mare in cui ha un’importanza centrale il colore, proposto, ogni stagione, in tonalità sempre nuove (ricordiamo il Patou blue e il dark dalia, del 1929). Il costume intero di lana nera della modella con la cuffia chiara, disegnato da Helene Yvande, è invece da considerarsi un classico di questo periodo. Semplice e raffinato, il costume di tricot con strisce bianche di jersey ideato dall’irlandese Molyneux, che alle stravaganze francesi predilige uno stile più sobrio, molto apprezzato dalle donne della buona società, tanto da permettergli, dopo il 1925, l’apertura di più sedi della sua casa di moda parigina. I calzoncini e i top da uomo, i costumi interi con cintura e strisce nella parte inferiori proposti da Lucien Lelong confermano l’uso diffuso del jersey anche nella moda per il mare, nelle mises maschili come in quelle femminili, particolarmente adatto per le sue caratteristiche di praticità e di vestibilità. Sempre nel campo dei tessuti, Sonia Delaunay, moglie del pittore Robert, è la prima a presentare disegni geometrici derivanti dall’astrattismo pittorico. Il costume da bagno della modella a sinistra è confezionato in morbida seta blu, arricchita da ricami in rosso, bianco e verde, in modo da formare una serie continua di rombi colorati.

spiaggiaanniventi
(Archivio Alinari)

Il modello di donna


Il passaggio a prodotti innovativi dal punto di vista tecnologico finisce per modificare solo in parte lo stile di vita dei ceti medio-bassi, perch
é trasforma soprattutto aspetti della vita meno necessari. Il consumo tecnologico, fin dagli anni Venti, diventa un esercizio di libertà, che arricchisce e migliora la vita quotidiana; ma non mancano i suoi risvolti negativi, dal momento che non è bilanciato da un’educazione e da una solida cultura. Anche le donne usufruiscono, in prima persona, dei nuovi beni di consumo, come articoli da decorazione, prodotti di bellezza, accessori domestici, ma rimangono indietro sul versante dei diritti essenziali. Nel 1926 una donna può comprare della frutta dal distributore a monete alla Stazione di Paddington a Londra; una ragazza può accendere il primo tostapane elettrico e prepararsi un toast). Una giovane e elegante signora fa una dimostrazione delle capacità della cucina a gas “New world”. Le modifiche introdotte nei consumi individuali, il fascino esercitato da altri stili di vita, come quello diffuso dal cinema americano, ampliano le vedute delle donne. Esse vivono un momento decisivo nel loro percorso di emancipazione. Specialmente nei paesi di tradizione protestante, di maggiore sviluppo capitalista e con sistema parlamentare, come la Finlandia, la Norvegia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, gli Usa, alle precedenti battaglie per il diritto di voto, si iniziano ad affiancare quelle per il divorzio, contro la legalizzazione della prostituzione, per la parità economica nel matrimonio, per l’ingresso nel mondo del lavoro. Alla metà degli anni Venti, in Italia, il fascismo scoraggia l’accesso femminile al mondo del lavoro, in particolare all’istruzione pubblica. Di pari passo vengono create delle scuole per le donne, in cui vengono istruite in tutto ciò che il regime ritiene “femminile”, ponendo le basi di una protezione costante. Nonostante ciò in Italia si riscontra una elevata percentuale (circa il 40%) di donne lavoratrici sposate, più alta di qualsiasi altro paese europeo, ad eccezione della Svezia socialdemocratica, dove però beneficiano di ampie tutele e servizi.

Grandi magazzini e tessuti sintetici


L’avvento dei materiali chimici e dei tessuti sintetici costituisce un caso pressoch
é unico di intenso sviluppo di un settore produttivo nuovo, ad elevata intensità di capitale e di ricerca tecnico-scientifica. Le innovazioni di prodotto e i continui miglioramenti qualitativi ne agevolano la veloce diffusione. E’ significativo che questa produzione non diminuisca neppure nelle fasi più buie della crisi mondiale, facendo segnare anzi una stabile affermazione. Intorno alla seconda metà degli Venti, calzifici, cotonifici e setifici assorbono poco meno dei due terzi della produzione mondiale di filati artificiali.
I nuovi filati artificiali iniziano ad affiancare e sostituire il cotone per certi impieghi, particolarmente nei tessuti estivi. Anche il mercato delle calzature, accanto alle classiche in cuoio e pelle, destinate ad un pubblico elitario e raffinato, come quelle esposte in una elegante vetrina della Dulcis ed osservate da questa donna, viene invaso, soprattutto negli Usa, da materiali artificiali, sintetici e chimici, come la gomma. Nel 1930 si sviluppa un vero boom delle scarpe sportive di gomma con lacci, prodotte dalla Dunlop. Sempre alla fine degli anni Venti si verifica, anche in Italia, l’influenza dei grandi magazzini nel vasto settore dell’abbigliamento. Si impone la standardizzazione dei prodotti, della qualit
à e della confezione, si moltiplicano le catene di negozi. La formula del prezzo unico nella vendita al dettaglio, sviluppatasi diversi anni prima negli Usa da grandi magazzini tipo Prisunix, Monoprix e Woolsworths, è principalmente rivolta verso quei clienti per i quali il prezzo rappresenta l’elemento chiave dell’acquisto. In Italia la Rinascente, così battezzata dal poeta Gabriele D’Annunzio, fonda nel 1928 la Società Upim (Unico Prezzo Italiano Milano), che apre il suo primo magazzino a Verona. In Via del Tritone a Roma, durante i lavori di pavimentazione, spicca in primo piano un grande cartellone pubblicitario dei neonati magazzini Upim.

L’automobile accelera la vita


Il pi
ù aggressivo simbolo del progresso degli anni Venti è indubbiamente la produzione delle automobili su vasta scala. Nel 1929 in Usa vi sono già 200 automobili ogni 1000 abitanti. L’automobile, per chi se la può permettere, accelera la velocità della vita, offre nuove forme di passatempo, dà libertà alla gioventù, contribuisce allo sviluppo di una moderna industria, procura lavoro a milioni di persone. Dopo aver puntato sull’aumento della velocità di rotazione, salendo al vertice di ben cinque mila giri al minuto, e sul frazionamento della cilindrata a sei e otto cilindri, per ottenere motori più equilibrati, dal 1925 le aziende costruttrici di automobili ricorrono all’arma segreta della sovralimentazione. Innestano un compressore che, comprimendo la miscela di aria e benzina, introduce ad ogni mandata una maggiore quantità di combustibile nel cilindro di quella che entrerebbe per normale aspirazione. In tal modo la potenza che si può ricavare dal motore viene considerevolmente aumentata, dando inizio all’era delle veloci auto da corsa. Mentre sotto la legge ferrea dell’industrializzazione e della concorrenza internazionale si fa più dura l’esistenza delle piccole aziende, si affaccia nel 1926 una nuova macchina da corsa, la Maserati. A Modena si comincia a parlare di Enzo Ferrari, un automobilista di razza, che dopo aver fatto parte della squadra dell’Alfa Romeo, ha lasciato il seggiolino di pilota per dedicarsi alla progettazione di macchine da corsa, con la sua Scuderia Ferrari. Di grande interesse, per le tendenze che si delineano, appare il XVIII Salone italiano del 1925. L’Itala espone il suo capolavoro: il modello 61, una creazione perfetta di raffinatezza tecnica ed estetica. L’Alfa Romeo presenta una sei cilindri 1500, che perfeziona sempre più fino a quando, nel 1930, consacra alla sua guida il pilota Nuvolari, che vince la Mille Miglia, viaggiando a una media di oltre 100 km/h. La Lancia tiene il campo con la sua Lambda. Nel 1930 la nuova automobile, spinta dal carburante miscelato, possiede due larghi cilindri sulla parte anteriore.

La nuova illusoria modernit
à

Negli met
à degli anni Venti si consolida la convinzione che la scienza e la tecnica siano in grado di garantire a tutti sicurezza economica e benessere. Il simbolo del progresso americano è rappresentato dalla produzione su vasta scala e dalla diffusione dell’automobile che, da mezzo d’élite, diventa un bene di prima necessità, basato su un sistema tecnologico orientato alla produzione di massa. Il taylorismo, il fordismo, il sistema manageriale di Sloan, con innovazioni che riguardano il marketing, si diffondono in tutta l’industria americana, con l’espansione della produzione dei beni di consumo. S’inventano soluzioni che rendono più semplice la vita, costretta a ritmi più veloci e stressanti. Nel 1928 alcuni passeggeri salgono per la prima volta su una scala mobile, progettata da Charles Holden, nella Metropolitana di Piccadilly a Londra, da poco aperta. Il 15 ottobre 1929 viene pubblicizzata una nuova linea di rasoi elettrici, che permettono di radersi in metà del tempo impiegato abitualmente e di velocizzare così i tempi d’inizio della giornata. Nel 1930 alcuni impiegati americani pranzano in un fast-food dotato di sifoni per bevande, accanto al luogo di lavoro. L’invenzione di prodotti di consumo su vasta scala provoca però squilibri tra il mondo capitalista, che si arricchisce, e la condizione dei lavoratori nelle aziende, che peggiora. Anche in Italia, insieme alla modernizzazione che provoca un salto di qualità nell’organizzazione del lavoro, si assiste ad una dequalificazione delle mansioni, con perdita dei contenuti professionali. Nonostante l’impegno di giovani esponenti d’avanguardia del ceto imprenditoriale, come i fratelli Olivetti, che nel 1926 fondano l’Ente Nazionale Italiano per l’Organizzazione Scientifica del Lavoro, allo scopo di incentivare la razionalizzazione industriale, l’aumento della produttività non significa sempre ammodernamento e avanzata divisione del lavoro, ma quasi esclusivamente intensificazione del lavoro, accelerazione del ritmo produttivo, a scapito delle condizioni dei lavoratori stessi.

Il crollo di Wall Street


Tra il 24 ottobre e il 29 ottobre 1929 il mercato azionario di New York conosce il pi
ù grande crollo della storia. Un’enorme folla di operatori e risparmiatori, esperti e semplici cittadini, ferma davanti al Treasury Building, assiste incredula al crollo della Borsa di Wall Street. In una sola giornata circa 13 milioni di azioni cambiano proprietario, provocando una perdita complessiva, per l’economia americana, di nove miliardi di dollari. È il cosiddetto “Giovedì nero”. A gettare il mondo intero in una devastante fase recessiva è soprattutto il comportamento caotico degli operatori che in precedenza avevano favorito una lunga serie di profitti. Sulla scia di New York avviene il crollo delle borse europee, nonostante le limitazioni tentate dalle banche centrali, con il conseguente calo della produzione, degli investimenti, dei redditi, dei depositi bancari, la caduta dei prezzi dei beni primari, l’aumento delle giacenze nei magazzini e dei debiti. Le tariffe protezioniste soffocano il commercio internazionale. Dagli Usa all’Europa, in particolare in Germania, Austria e Inghilterra, perfino ricchi proprietari come il newyorchese Walther Thorton che vende la sua appariscente automobile per appena 100 dollari, si trovano improvvisamente di fronte ad un futuro incerto. Nel 1930 sono ancora in pochi a intravedere la gravità e la profondità della crisi, ma i 30 milioni di disoccupati degli anni successivi sono una realtà con cui le classi dirigenti occidentali non potranno fare a meno di fare i conti. Gli effetti della “depressione” del 1929 mostrano drammaticamente la vulnerabilità di un’economia di mercato senza controlli, come ammise subito l’economista inglese John Maynard Keynes. L’America mette da parte i miti ultraliberisti e inaugura l’esempio più cospicuo di dirigismo economico. Il nazionalismo economico degli anni della grande crisi apre dunque la strada in Europa, nel decennio successivo, alle esperienze totalitarie e autoritarie.

Lavorare prima e dopo la Grande Depressione


Nel febbraio 1930 le operaie dell’industria conserviera Del Monte dispongono pesche nelle cassette con la stessa cura con cui le lavoratrici di una fabbrica di Birmingham sistemano e allineano i barili di olio nel deposito. Sono due tipici scenari del processo di produzione su vastissima scala, che sta alla base dell’espansione economica degli Usa nella seconda met
à degli anni Venti. Gli Usa, in questi anni, vedono crescere il loro prodotto interno lordo del 2% e diminuire l’inflazione (sotto l’1%) e la disoccupazione (3,5%). Aumentano lavoro e salari, beni e servizi, il reddito medio si incrementa del 30%. In particolare, gli immigrati forniscono all’industria la manodopera a buon mercato necessaria per il suo sviluppo, infoltendo però sensibilmente la quota del sottoproletariato urbano. Un “urbanesimo del lavoro” di eccezionale portata continua a svilupparsi a ritmo frenetico. Tutta la costa atlantica, da Boston a Washington, diventa una sola immensa città del lavoro, la cosiddetta “megalopoli”. Educazione, mobilità nel lavoro e consumi sono i pilastri della cosiddetta americanizzazione. La classe media si espande a macchia d’olio, tanto da includere sia professionisti che operai. La cosiddetta opinione pubblica, urbana e bianca, cuore del processo di massificazione dei consumi, si identifica sempre più con essa.
Pur con difficoltà e contraddizioni, anche l’Europa sembra giungere alla fine degli anni Venti in una situazione di maggiore distensione e prosperità rispetto all’inizio del decennio. Il principale problema economico è l’enorme debito creato dalla guerra. I prezzi dei prodotti diminuiscono, per l’aumento della produzione e per le politiche protezioniste, mediamente del 30 % dal 1924 al 1929. La Gran Bretagna è il paese che paga maggiormente il prezzo della competizione internazionale, diminuendo la quota del commercio, della produzione e del consumo nei settori tessile, carbonifero e dell’acciaio. In Francia, invece, la produzione di automobili e di elettricità aumenta sensibilmente dal 1925 al 1929, a dimostrazione di una generale stabilità economica differenziata e ancora precaria.
La vittima più grande della crisi finanziaria del 1929 è certamente il mondo dei lavoratori. Accanto alla disoccupazione, che colpisce indiscriminatamente operai, impiegati, soprattutto giovani, e che si prolunga per anni, cresce la miseria diffusa in città e nelle campagne, diminuisce sostanzialmente dappertutto il livello della vita. Peggiora la salute, aumentano la mortalità e la sottonutrizione infantile. I quattro bambini ossuti che divorano le pannocchie di granturco accovacciati ai piedi di una strada polverosa in periferia non sono che una delle tante scene di ordinaria miseria in cui cade la contraddizione della ricca civiltà occidentale. Negli Usa crescono coloro che perdono la proprietà e l’impiego. Le donne sono le prime ad essere licenziate e a cercare di sbarcare il lunario con improvvisati mezzi, come questa donna e le sue mele. La Germania è, insieme agli Usa, il paese che soffre la maggiore disoccupazione a seguito della crisi, fino a raggiungere il 22% della popolazione attiva nel 1930. Ad essere colpiti in modo massiccio sono gli agricoltori, che riducono di un terzo il reddito medio. Negli Usa i sindacati riuniti nella AFL, American Federation of Labor, erano unioni locali di operai specializzati, la loro era una politica di collaborazione di classe volta ad ottenere dai datori di lavoro paghe decenti. Solo nel 1929, parallelamente al crollo della Borsa, si forma un nuovo gruppo di associazioni sindacali più combattive, la TUUL, Trade Union Unity League, distaccatasi dall’AFL, fondata soprattutto attraverso il volontariato degli iscritti. In Inghilterra, già dopo lo sciopero nazionale del 1926, come negli Usa, in particolare dopo il 1929, nascono uffici di assistenza contro la disoccupazione generalizzata. L’occidentalismo che aveva mostrato la sua incapacità a mantenere politicamente la pace e l’equilibrio in Europa nel primo ventennio del secolo, al termine degli anni Venti si rivela impotente anche nel controllo della crisi economica e finanzaria.

La società del lavoro: il vecchio e il nuovo

Il paradosso americano ed europeo della fine degli anni Venti, che dopo la Grande Crisi si accentua ancora, è che mentre gli aspetti meno essenziali, gli usi e i costumi sono largamente mutati, la struttura della società non è cambiata gran che. Anche se durante il boom economico si dice che le vecchie distinzioni di classe sono ormai scomparse col sorgere di una grande classe media, e che i problemi quotidiani di lavoro e ingiustizia sociale sono dissolti con la diffusione del cinema, degli apparecchi radio, delle automobili, della nuova scienza e tecnica, la povertà non è scomparsa, anzi. Al di là degli ottimismi e delle mitologie psicologiche, i mutamenti veri nelle strutture sociali e lavorative sono del tutto trascurabili. Il mondo del lavoro è composto, in maggioranza, da individui senza alcuna qualifica e in certi settori, come l’edilizia, da immigrati. Aumentano gli impiegati, i cosiddetti colletti bianchi, ma a prezzo di una crescente dequalificazione di massa. I datori di lavoro sono sempre gli stessi, i lavoratori rimangono lavoratori, gli stipendi sono mutati appena, mentre cresce il numero di coloro che vivono non in attesa di una busta paga, ma di lavori saltuari. Le differenze di classe in Usa, ma anche in Europa, in questi anni, non solo rimangono forti, ma si cristallizzano in differenze di casta. I ricchi sono pochi, e quei pochi lo sono così tanto che la loro stessa ricchezza li rende lontani dalla maggioranza, che soffre le conseguenze di una crisi messa in moto dall’essenza stessa del capitalismo. Nel settembre 1930 non è improbabile trovare un assistente di un qualsiasi ufficio di collocamento in Snow Hill a Londra, intento a prestare aiuto a un colletto bianco, o un disoccupato a Los Angeles, in California, che riceve una piatto di zuppa e qualche fetta di pane in un distribuzione all’aperto durante la Grande Depressione. Il nuovo e diverso mondo della fine degli anni Venti non è poi così cambiato.

Al Capone e l’era del proibizionismo


Il proibizionismo in Usa rappresenta uno degli esempi pi
ù significativi della contraddizione tra aspettative di libertà e realtà. Il Volstead Act, approvato nel 1920, considera intossicanti le bevande con oltre lo 0.5% di alcool e, nonostante lo sforzo dello Stato che istruisce procedimenti penali, sequestra milioni di bottiglie di birra e whisky, distrugge gli apparecchi di distillazione illegali, alla fine, complice l’inefficenza e la corruzione generalizzata della polizia e dei giudici, riesce essere costantemente aggirato.
Al Capone, figlio di emigranti di origine partenopea, dal 1925 trasforma Chicago nel più noto centro di contrabbando d’alcool e di armi d’America. Giunto ai vertici della criminalità organizzata, tra il 1927 e il 1928, sposta il suo quartier generale all’Hotel Lexington, che diventa sede e motore di una organizzazione illegale che gli frutta oltre 100 milioni di dollari l’anno, con le attività legate alla “protezione”. Guadagni che iniziano ad attirare l’interesse degli uffici dell’FBI che si occupano di frode fiscale. Il 14 febbraio 1929 Capone provoca la nota strage di San Valentino, sbarazzandosi in un sol colpo della banda rivale degli irlandesi, crivellati da centinaia di colpi davanti al muro di un piccolo garage di periferia. Tra le vittime della strage, oltre a Moran e O’Banion, anche uno dei fratelli Gusenberg, la cui bara, di fronte a una folla di “fedelissimi”, viene trasportata dalla cappella al cimitero cittadino. Lo stato americano, fiancheggiato dall’appoggio delle classi legate a valori tradizionali, protestanti-anglosassoni e puritani, finisce per peggiorare i rapporti tra minoranze e maggioranza bianca nella società civile. Il gangster Al Capone, sfruttando una legge sostanzialmente diretta contro gli immigrati e i neri, accusati di favorire la degradazione fisica e morale attraverso l’abuso di alcool, diviene il paladino del libero mercato americano. Il 18 novembre 1930 poveri lavoratori americani usufruiscono di una scodella di zuppa nella cucina di un locale di Al Capone alla 935 State Street.

Tratto da: “
La grande storia del Novecento. L’immagine di un secolo” (A. Mondadori, Milano)

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Fuga dall'Italia

Chiede oggi Crainz al paese, dalle pagine di Repubblica, a proposito dello sciopero della stampa di domani: è possibile continuare in questo modo? La sua risposta è ovviamente "no", e vi argomenta tutta una serie di motivi per cui siamo arrivati oltre il limite di guardia della democrazia, riportando, da fine storico qual è, qualche glorioso esempio di giornalismo del passato che non si piegò al conformismo e che contribuì alla riscossa democratica del paese, svoltasi anche ma non solo nelle piazze (si pensi all'opposizione ferrea in parlamento dei partiti della sinistra laica ma anche delle forze cattoliche democratiche in piena secolarizzazione), per esempio, dopo i danni provocati dal governo di Tambroni del 1960: giornalisti e stampa, partiti antifascisti, forze intellettuali, sindacati, associazioni e gruppi della società civile, tutti uniti. Quello è stato indubbiamente un momento storico difficilissimo, che poteva preludere al peggio, per esempio al "tintinnar di sciabole" del golpe o ad altre soluzioni reazionarie, ma è altrettanto indubbio che quella era tutta un'altra Italia. Era un popolo che seppe reagire, perché, in fondo, si voleva bene, voleva bene al suo paese.

Voler bene all'Italia, oggi,
è molto e sempre più difficile per gli italiani. Quando dico oggi non intendo dire negli ultimi decenni o anni, come a volte si dice, individuando nell'annus domini 1994 ovvero nella discesa in campo di Berlusconi con il suo discorso andato in onda a reti unificate, l'esempio di tutti i recenti mali della nazione. Mi riferisco, piuttosto, alle azioni e alla strategia politica di questo ultimo governo in carica (il conto si fa in mesi, dunque). Non si tratta di strategia della tensione ovviamente (di tensione se ne crea eccome nel paese, anche se il precedente storico non è proprio calzante), né tanto meno di strategia dell'attenzione (forse attenzione sì, ma alle classi agiate), ma si potrebbe parlare piuttosto di strategia della distruzione: nel senso di distruggere quasi tutto ciò che di buono il paese aveva fino ad oggi. Non entro nel merito dei provvedimenti che vanno in questa sventurata direzione, lo hanno fatto altri ben più preparati di me nello specifico delle varie leggi (che sarebbero da chiamare non tanto leggi ad personam quanto ad factiones, perché vanno a salvaguardare gli interessi di lobbies e gruppi di potere ben precisi, mentre le masse che hanno votato centro-destra rimangono tuttora a bocca asciutta o quanto meno ad aspettare, illusoriamente, che si vedano i frutti delle tante promesse).

Dico solo che
è difficile, per i tanti giovani che vivono qui e che non sono già andati via, voler bene a questo paese. Un paese che non dà più da vivere e da lavorare ai suoi cittadini (il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli drammatici dei primi anni cinquanta, con la differenza però che a quel tempo c'erano state prima il regime fascista e poi la seconda guerra mondiale), che non dà case da acquistare né da affittare a prezzi decenti ai suoi giovani o alle nuove coppie. E' difficile vivere in un paese dove tutto quanto si è sofferto sembra rimanere inutile ed esser tradito (si pensi alle fatiche dei costituenti e dei partiti antifascisti per dar vita ad una costituzione completamente condivisa), la libertà e i diritti per cui si è sempre sperato e ci si è battuti disperdere il loro senso in una politica da troppe parti condotta con ambiguità, intrighi, compromessi di ogni sorta. E vedere che il veleno intossicante che proviene da un certo modo di far politica da anni ormai di moda ha ammorbato anche chi viene da una storia diversa, alta e onesta moralmente, è proprio difficile. E' difficile sentire fiducia in se stessi e per gli altri in un paese dove ben poco va esente dall'egoismo di parte, dall'opportunismo, dal malaffare portato a modello di comportamento per tutti, anzi quasi premiato (si pensi alla nomina dell'ultimo ministro di questo governo, poi costretto alle dimissioni), dove la cronaca è satura di imbrogli, sotterfugi, vizi (non solo sessuali), e dove una smisurata incertezza ostruisce il nostro futuro. Difficile credere nella bontà dell'esistenza quotidiana quando essa, come accade oggi in Italia, non offre quasi più speranze di un miglioramento, non dico solo economico ma quanto meno nei comportamenti, nei rapporti umani. Per questi motivi e per tanti altri che ognuno di voi tutti avrà ben chiari nella sua mente, in molti italiani, oggi, provano un disgusto per il loro paese, un sentimento di ripugnanza e di amara irrisione verso le cose che li circondano, verso le persone che dovrebbero guidarli politicamente, almeno sulla base delle regolari elezioni democratiche, e provano un impulso di levarsele di dosso, di uscire fuori, di andarsene lontani una volta per sempre, per non cadere nella ragnatela di questo meccanismo, di questo sistema di vita e di politica, ma anche per evitare il peggio, di ricadere in reazioni del passato che hanno creato tanto dolore. L'Italia, oggi, è brutto dirlo, per la sua storia, per la sua cultura, senza voler fare la parte dei disfattisti e dei troppo pessimisti, è diventata una specie di macchina in frantumi che non sa più funzionare. E' il caso di lasciarla a se stessa? alle sue macerie? ad un futuro inimmaginabile per le generazioni a venire? Così sentono molti giovani, che pure hanno già lottato affinché certi meccanismi e certe cose cambiassero, o quanto meno non si incancrenissero. Così sentono in tanti italiani, e non solo giovanissimi: al di là delle frontiere, negli Usa come in Inghilterra, in Germania come in Olanda, in Cina come in India, l'estero li attrae, ad esso indirizzano, forse anche sbagliando, ogni loro speranza per l'avvenire. Per tutti loro, o comunque per una gran parte, alla luce degli ultimi due anni di questo governo, e non certo per la solita pregiudiziale anti-berlusconiana che non porta da nessuna parte, ma per fatti e iniziative concrete, non vi sarà stata altra alternativa che andar via. In primis, per i ricercatori, come sottolinea oggi Vaccarino sulla Stampa. A contrastare questo destino, amaro e ingiusto, non rimane che una carta, l'unica possibile, allo stato attuale: che tutta la gente che non avalla questo sistema di governo (non solo gente che ha votato per il centro-sinistra ma anche, ovviamente, gente di centro-destra, per questo sarebbe utile andare a parlare in mezzo a loro, evitando di creare steccati e di parlare sempre e solo ai soliti noti che la pensano come noi), dia mandato a nuove schiere di giovani, uomini e donne, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai avuto condanne penali, ma che hanno invece tante nuove esperienze da proporre, tratte dalla loro vita, dalla loro occupazione e specializzazione, dai loro studi, di formare una nuova opposizione, che si dia un linguaggio politico assolutamente inedito, fatto di azioni concrete, buone pratiche, leggi che stiano al passo con i migliori esempio europei e del mondo, per guidare un nuovo processo democratico, finalmente fondato su valori come il pluralismo, la laicità, l'importanza del ruolo della cultura e dell'istruzione, della ricerca, tenendo conto delle prospettive aperte dal nuovo contesto globale.

Non so se ci vorrebbe un partito completamente nuovo o basterebbe aggiustarne uno vecchio, questo
è un problema tecnico o comunque secondario, di sicuro ci vorrebbe una classe dirigente completamente rinnovata e ringiovanita, una suddivisione interna dei compiti e delle mansioni fondata sul valore della competenza e dell'efficienza (non intesa in termini produttivi come un prodotto, ma in termini di qualità culturale in senso lato), e un leader che parli un linguaggio assolutamente diverso da quello espresso in questi ultimi decenni, diciamo dal 1984 in poi, a sinistra come a destra.

Con queste nuove condizioni, cio
è a dire con una destra diversa da quella che imperversa oggi, e con una sinistra altrettanto nuova, o almeno con dei leader capaci di esprimere la volontà di due parti del paese opposte, con visioni e idee divergenti, ma civilmente e seriamente disponibili al confronto sulle questioni specifiche, con la condivisione delle regole di base per tutti, solo così molti italiani, soprattutto giovani, potrebbero ritornare indietro dalla loro amara decisione. Se così, invece, non sarà, non rimarrà, per ognuno di noi, che la
fuga dall’Italia.

fuga
(Fonte Internet)

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Di fronte ad una politica del tutto irrazionale è arrivato il momento di agire. Qualche pensiero domenicale

E' un po' snervante riuscire a fare un'analisi critica quando si vive una situazione politica e sociale come quella che vive oggi il nostro paese. Gli impegni della vita quotidiana sono sempre più duri e faticosi per tutti, sempre meno tempo è lasciato alla possibilità di riflettere e analizzare, bisogna agire. Di rado, credo, come in questi ultimi due anni, la scena politica e sociale del paese è andata involvendosi in maniera così incalzante, rapida, quasi frettolosa. Si è sempre in balia di qualcosa, qualche affermazione, qualche azione da parte della maggioranza che si aggiunge subito ad un'altra aberrante appena fatta. E questo accade, per di più, in una situazione di complicata crisi economica generale, non solo italiana.

Come se non bastasse, lo spazio dell'informazione e dell'analisi o dell'approfondimento
è estremamente ridotto. Tutto o quasi è in mano ad una visione che se non è del tutto allineata alle posizioni della maggioranza, comunque sia appare conformista, accomodante, spesso connivente. Ci siamo gradualmente abituati a leggere i titoli dei giornali, ad ascoltare le notizie dei telegiornali, non come informazioni ma come prese di posizione. Non ci si meraviglia neanche più quando si viene a sapere che una certa notizia, largamente diffusa nel paese, è completamente falsa. Non che non ci sia modo di formarsi un'opinione diversa dal grigio conformismo che avanza, ma è uno spazio ridotto, destinato solo a chi conosce certi circuiti, a chi può fare certe cose, non certo a tutti, né alla maggioranza della popolazione. C'è internet, ma è difficile districarsi tra i siti, qualche giornale critico con tirature limitatissime, qualche radio, ogni tanto qualche trasmissione su qualche canale alla tv, ma poco, poco altro.

La reazione a questa condizione anche psicologica
è generalmente di due tipi. Alcuni si rinchiudono al di qua della vita politica, è il fenomeno dell'antipolitica. Si manifesta diversamente, per esempio si contesta a prescindere, si è distruttivi. Oppure, si parla solo di certe cose, di prezzi che salgono, del calcio, della propria attività professionale. E non è soltanto un atteggiamento di destra. Si sentono parlare così anche persone che stanno a sinistra. Non si parla in questo modo solo al supermercato, al bar o dentro al bus. Altri, invece, si danno un punto fermo di riferimento nella confusione della situazione politica. Anche in questo caso ci sono soprattutto due modi di farlo: c'è chi estremizza la lotta politica, c'è chi la modera cercando di dare sostegno alle istituzioni democratiche consolidate. Sono entrambe posizioni nobilissime in una situazione come questa, si tratta di principi affermati solennemente, che salvaguardano l'identità personale di ciascuno, ma che non consentono affatto di prevedere i comportamenti reali. In poche parole la difficoltà di analisi della situazione è dovuta al fatto di trovarsi di fronte a comportamenti politicamente spesso irrazionali, sia da parte della maggioranza al governo, sia da parte dell'opposizione. La prima tracotante e rigida nella strategia di svuotamento della costituzione e di modifica delle regole del gioco politico, la seconda così inerme, senza strategia di lungo periodo, in balia degli episodi.

Tutto questo non avrebbe conseguenze gravi se si limitasse a mettere in difficolt
à l'eventuale storico o il sociologo di turno, un osservatore intellettuale diciamo: il problema è che questa situazione paradossale coinvolge lo stesso pensiero politico al punto da separare totalmente principi teorici e programmi di ampio respiro da azioni concrete, pragmatismo politico, iniziative incalzanti. Si pensi alla politica economica, ma si potrebbero fare tantissimi altri esempi. Tutti sentono che un cambiamento di politica economica è indispensabile e urgente, ma non si formula mai un'analisi o un programma veramente alternativo, se non qualcuno che non ha neppure rappresentanza in parlamento. Lo stesso sulla questione del lavoro, dell'università, etc. E' come se l'evento, il fatto in sé, regnasse da assoluto padrone, per cui dopo l'azione incriminata c'è la levata di scudi, l'opposizione insorge, però poi tutto continua allo stesso modo, perché? Perché si naviga a vista, perché non c'è strategia di lungo corso. E ciò rende ancora più complicata e difficoltosa l'analisi dell'osservatore. Spesso viene voglia di rinchiudersi nella propria riflessione o di difendere la propria tranquillità di spirito appoggiando con un semplice click questa o quest'altra iniziativa su facebook. Ma non basta fare così, in questo momento. Il ruolo di chi analizza, dello storico, del sociologo, del politologo, dell'opinionista (quando è serio), che a molti può sembrare qualcosa di irrisorio o di inutile, è comunque importante e utile in questo contesto così sfuocato. Perché aiuta a chiarire i rapporti sociali, a smascherare il dominio del conformismo, a fomentare libertà di pensiero e di espressione.
Occorre per questo unirsi agli attori sociali e politici che lottano VERAMENTE per rendere evidente la realt
à dei rapporti sociali, per svolgere una funzione alternativa al modello imposto attualmente dominante. Cercare nuove forme di partecipazione civile è oggi l'obiettivo principale di chiunque voglia dare un contributo serio a modificare la realtà politica e sociale del paese. Non è più tempo di comitati scientifici di questa o quest'altra fondazione, non è più tempo di centri studi, occorre invece fiancheggiare criticamente la nuova modalità di partecipazione, questa dirompente spinta che viene da quella parte dei giovani di sinistra rimasti finora estranei alla politica vissuta come attivisti, alla freschezza e novità di chi ha deciso di dare il proprio contributo in maniera creativa e originale, mettendo a servizio degli altri la propria passione e le proprie competenze. In definitiva, non è più tempo di riflettere e di tergiversare, ma è giunto il tempo di agire.

diomarx
(Archivio Alinari)

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Motivi per cui l'attacco alla costituzione avrà vita durissima

Le riflessioni che seguono sono il frutto di una rielaborazione (e anche di una inevitabile semplificazione) di alcuni scritti di tre grandissimi giuristi, Piero Calamandrei, Paolo Barile e Stefano Rodotà, ai quali rimando per una lettura proficua e intelligente sulla Costituzione, ma non solo. Alla luce dei vari eventi e incontri organizzati in questi ultimi giorni in tutta Italia, e in particolare anche a Firenze, in difesa della Costituzione, può essere utile condividere qualsiasi contributo critico che vada in questa direzione.

* * *

Visto che proseguono gli attacchi alla Costituzione su più fronti è bene fare un po' di chiarezza sulla sua attualità e importanza, con qualche pezza di appoggio storica e giuridica. Il tentativo di modificare la Costituzione (nella fattispecie la seconda parte) è stato fatto già nel 2006 dal centro-destra e si è scontrato con l'opposizione della maggioranza, per l'esattezza il 61%, del popolo italiano,
andato alle urne per il referendum.

Va subito detto, a scanso di equivoci e proprio per non sembrare nostalgici del passato o anche conservatori, che la Costituzione italiana, in se stessa, non
è immodificabile. Attraverso l'art. 138 essa può essere cambiata e aggiornata. Però va specificato che con l'art. 138 si può soltanto emendare in parte la Costituzione, quindi non la si può modificare per intero e soprattutto non in relazione ad alcuni principi fondamentali, i principi supremi come vengono chiamati dalla Corte costituzionale, che li ha dichiarati intoccabili. Per esempio si può modificare la forma di governo, ma non certo la forma di stato. E' importante capire che questi principi fondamentali, a differenza di quello che sostengono in tanti, non si trovano solo nella prima parte della Costituzione, laddove si parla di libertà individuale e diritti sociali, ma anche nella seconda parte (per esempio sul ruolo del presidente della repubblica o dei giudici della corte costituzionale).
Con l'art. 138, allora, si potrebbero ampliare alcune norme contenute nella Costituzione: altro che passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, ma piuttosto, modifica dell'art. 21 relativo alla libert
à di espressione del pensiero, come ha argutamente affermato Barile. Infatti, per esempio si potrebbe ricordare che, quando fu approvata la carta costituzionale cioè nel 1948, non esisteva la televisione, per cui quell'articolo fa riferimento solo alla stampa e non, invece, ai mass-media, che hanno acquisito un sempre maggiore potere nella società moderna. Per esempio, un parlamento serio e civile dovrebbe garantire nella massima legge dello stato, come ha sostenuto in più occasioni la Corte costituzionale, il pluralismo delle voci (altro che leggina sul conflitto di interessi). Questo sarebbe un esempio di modifica costruttiva della Costituzione. Sempre più spesso, oggi, sui giornali, ma anche tra la gente, in piazza o al bar, quando si parla di costituzione la si definisce o troppo vecchia, o si dice che va rivista, e che è stata il frutto di un compromesso, usando questa parola con un certo disprezzo. Si parla, per esempio, di norme di compromesso per dire che la proprietà privata è garantita ma con troppi limiti (art. 42), si dice che l'iniziativa privata (delle imprese in particolare) è libera ma con troppe limitazioni (art. 41). In realtà, e a ben guardare, si tratta di norme non limitanti o contraddittorie ma di equilibrio e sensatezza.

Non
è un caso che la nostra Costituzione è stata imitata in tanti paesi europei per la sua istanza garantista ed è considerata all'avanguardia per molti articoli (per esempio quello sulla tutela della cooperazione sociale). Più che di compromesso deleterio e vecchio si dovrebbe parlare di grande patto tra le forze politiche del passato a tutela del cittadino di allora e anche di quello di oggi, con una base di valori di altissima moralità. Inoltre finché certi articoli (in questi giorni viene in mente proprio l'art.1, cioè l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro) non saranno concretamente attuati e realizzati, la Costituzione non sarà mai vecchia ma anzi sarà sempre viva, finchè ci sarà soltanto una uguaglianza di diritto tra i cittadini e non di fatto, la costituzione servirà come bussola di orientamento. Essa è infatti, per certi versi, come ha detto Calamandrei, non una realtà ma un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.

Ma veniamo adesso agli attacchi. Berlusconi e il suo governo attaccano la Costituzione in tanti modi (per esempio esautorando completamente il parlamento e governando per decreto-legge, attaccando ad ogni occasione la magistratura) ma il loro sogno rimane quello di trasformare l'Italia in una repubblica presidenziale da lui guidata. E' beninteso che in una repubblica presidenziale i membri del governo non sarebbero responsabili di fronte al parlamento come invece accade in una repubblica parlamentare (ma anche questo
è un concetto che funziona in teoria ma che in Italia di recente appare quasi un'utopia), ma essi sono dei semplici funzionari del presidente eletto dal popolo. Negli Stati Uniti è così. In Francia, invece, il presidente della repubblica è, sì, eletto dal popolo, ma fa parte di un governo che è un governo parlamentare, quindi è pur sempre quest'ultimo, in sostanza, il capo dell'esecutivo. Nel caso di un passaggio ad una repubblica presidenziale all'americana andrebbe cambiata per intero la Costituzione, perchè il presidente della repubblica attualmente ha solo una funzione di garanzia e non di indirizzo politico del governo. E ciò non è possibile costituzionalmente. Anche nel caso di una trasformazione in una repubblica presidenziale alla francese la nostra costituzione dovrebbe subire mutamenti molto profondi: infatti non sarebbe sufficiente modificarla con l'art. 138 perchè si tratterebbe di un cambiamento di forma di stato e non di forma di governo. Inoltre, se il parlamento, come in molti chiedono, facesse una legge costituzionale che prevede l'elezione di una nuova assemblea costituente, compirebbe un atto palesemente in contrasto con l'art. 138, sarebbe dunque una violazione della costituzione stessa. A questo proposito, è utile ricordare prendendo in prestito le parole di Rodotà, che la Costituzione non appartiene più al parlamento, visto che di ogni legge in corso di discussione ci si chiede se il presidente della repubblica la firmerò o no, quali siano i rischi di una dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, in poche parole i custodi della Costituzione sono altrove, oltre al fatto che essa sembra essere stata degradata ad una qualsiasi altra legge ordinaria.

Il secondo pericoloso attacco alla Costituzione
è quello di Bossi e della Lega che provano a demolirla costantemente sul fronte dell'unità del paese e del federalismo (si è perfino tornati a parlare, di recente, cavalcando la vecchia tigre, di secessione). E' bene che i leghisti se ne facciano una ragione. La Costituzione prevede uno stato regionale e non federale. Chi parla di federalismo prefigura uno stato che da regionale dovrebbe trasformarsi in federale. Esso, in realtà, andando oltre la simbolica propaganda leghista, non sarebbe poi così diverso da quello regionale. In altre parole, si potrebbe fare in modo che il regionalismo attuato in modo insoddisfacente (dal 1970) e previsto fin dall'approvazione della Costituzione, venisse rivitalizzato e migliorato. Per fare ciò occorre però capovolgere l'art. 117, stabilendo alcune materie precise di esclusiva pertinenza dello stato e dando il resto, cioè quasi tutto, alle regioni. Per giungere a questa riforma si può scegliere il percorso della revisione dell'art. 138, attraverso la divisione tra potere di revisione e potere costituente normalmente accettata, modificando la forma di governo ma non mai quella dello stato.
Stando cos
ì le cose si evince che l'art. 138 non permette di attuare il federalismo nello stato italiano, ma solo di potenziare il ruolo delle regioni, per esempio, sullo scottante problema delle imposte e quindi del paventato federalismo fiscale (ma solo tenendo ben presente i costi complessivi di una tale riforma e pesando vantaggi e svantaggi per le diverse regioni).

In definitiva, con buona pace di Berlusconi, Bossi e rispettivi elettorati, l'attuale Costituzione italiana non permette n
è il passaggio ad una repubblica presidenziale, nè il passaggio ad uno stato federale. Se è dunque vero che il popolo italiano, a maggioranza schiacciante, ha stabilito di recente, nel 2006, e non certo secoli o decenni fa, che l'attuale Costituzione non va modificata nè tanto meno rivoluzionata o smembrata, allora, per la stessa legge della maggioranza a cui tanto spesso si richiamano i suddetti personaggi per dare peso ai proprio progetti politici, toccherà che l'attuale centro-destra al governo se ne faccia al più presto una ragione e non insista su propositi quantomeno stravaganti costituzionalmente. A meno che non ci sia seriamente la volontà (e in tal caso nessuno dell'attuale maggioranza di governo potrebbe chiamarsi fuori dalla responsabilità) di trasformare l'italia in uno stato autoritario, nel senso di voler fare carta straccia dei più importanti principi regolatori della vita del paese. Siccome sembra di percepire un certo smarrimento o comunque una mancanza di verve e di coraggio da parte dei partiti di opposizione, in generale ma anche su questo argomento così importante e decisivo, per questi e per tanti altri motivi, occorre oggi più che mai vigilare, individualmente e collettivamente, di fronte a qualsiasi anche piccolo e apparentemente limitato tentativo che vada in questa pericolosa direzione. Ecco perchè non ha molto senso dividersi, marciare in ordine sparso, per esempio andando a questa iniziativa in modo auto-referenziale piuttosto che ad un'altra, ma occorre invece unirsi tutti in difesa della Costituzione.

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(Fonte Internet)

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Su politica e mezzogiorno oggi

Alla luce dei continui e sempre più deplorevoli attacchi di alcune forze politiche (ma si legga pure Lega!) alla Costituzione, all'unità del paese e in particolare al Mezzogiorno, mi permetto di fare una provocazione.
Rivolta a chi? - mi chiederete.
Diciamo in generale alla sinistra italiana, quindi al Pd, a Vendola e a chi per loro dovrebbe mettersi alla testa di un movimento di rinnovamento della politica che partisse proprio dal tanto vituperato sud d'Italia.
Circa un secolo fa un docente socialista, promotore tra l’altro di una collana di scritti di Marx, Engels, Lassalle per l’edizioni
Avanti! fu protagonista, insieme a pochi altri socialisti come lui, di una lotta senza quartiere contro le mafie e la camorra proprio nel Mezzogiorno. Cambiano gli uomini, le facce, cantava Battiato, ma la storia si ripete.

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(Fonte Internet)

Oggi abbiamo Saviano, per fortuna, con buona pace dei polemisti di professione. Non sono tra i fautori della politica sopra ogni cosa, anzi credo che la politica, oggi pi
ù che mai, sia sempre più una specie di rifugium peccatorum. Ma è il caso di dirlo, per evitare i velleitarismi e i qualunquismi, l’unico modo che potrebbe non dico interrompere ma quantomeno scalfire lo strapotere nel meridione delle mafie, della 'ndrangheta, sempre più potente, e della camorra, è proprio la politica, ma intesa come mobilitazione democratica del mondo della cultura e soprattutto della gente comune: è nell’assenza di sedi dove si dovrebbero elaborare le proposte, controllare le rappresentanze, dove si dovrebbero mettere in atto buone pratiche, che prosperano i gruppi criminali, insomma dove non si respira la democrazia.
Si potrebbe guardare al passato per prendere esempio. Nel 1948 in occasione di quel fatale 18 aprile che apr
ì la strada al trentennio di strapotere democristiano, proprio per provare ad opporsi a qualcosa che si presagiva letale per il paese, un gruppo di personalità della Sinistra (con la “S” maiuscola ovviamente se la paragoniamo all'oggi) diede vita al cosiddetto Fronte democratico del Mezzogiorno, che si inseriva nel contesto più generale di quel famoso Fronte popolare che aveva come emblema elettorale il volto di Garibaldi. Tra le tante personalità che diedero vita a quel movimento, basti ricordarne due: il comunista Giorgio Amendola e il socialista Francesco De Martino. Si trattò del primo e unico grande movimento democratico di massa che il Sud e le isole abbiano conosciuto nella loro storia (altro che movimento autonomista siciliano!), che guidò movimenti di lotta costati la vita a decine di sindacalisti, di braccianti e operai uccisi a volte dalla polizia altre volte dalla criminalità, che creò circoli culturali, riviste, insomma che mise in circolo idee democratiche e grandi speranze.
Ecco, perch
é oggi non si parla mai di qualcosa di simile?
A chi fa paura qualcosa del genere?

La storia non si ripete uguale ma ricordarne gli esempi, scoprirne e condividerne i protagonisti, pu
ò permettere di riproporre, di alimentare culture, stimolare idealità, suggerire nuovi modelli di lotta culturale e politica. Sarebbe bene che i giovani, almeno quelli che ci credono (e non sono affatto poche mosche bianche, credetemi), ma anche, più in generale, le forze politiche di sinistra, quelle più o meno organizzate, più o meno forti numericamente e materialmente, almeno quelle che si sentono eredi o comunque vicine a certe forme di lotta e di proposta politica (diciamo quella parte che è disposta ancora a credere nella validità della Costituzione e quelle sinistre sparse, non solo laiche ma anche espressione di un certo mondo cattolico, che hanno voglia di dare un contributo che non sia di mera contestazione) riscoprissero e valorizzassero di nuovo quella grande pagina della nostra storia del meridione, accantonando una volta per tutte le rivalità e le piccole beghe di bottega. Oltretutto, la proposta di un cartello della Sinistra democratica del Mezzogiorno, di un movimento che unisse forze espressione di una vera alternativa di sinistra, che unisse soprattuttto diversi gruppi della società civile (penso alle Fabbriche di Nichi, al Popolo viola, a certi gruppi di elaborazione culturale del pd, e a tanti altri), avrebbe perfino più chances di riuscire e andare in porto di quella del Fronte del ‘48, visto che allora il movimento fallì per colpa della divisione tra socialisti e comunisti (la solita storia) a seguito dei fatti di Ungheria del ‘56, mentre stavolta non c’è più l’Urss a dividere, ma ci sarebbero la lotta all'idiotismo della Lega e il richiamo alla Costituzione che potrebbero, invece che dividere, unire.

saviano
(Fonte Internet)

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