L'11 settembre e la globalizzazione
Fonte:Internet
Premessa
Per tentare di abbozzare, a dieci anni di distanza, un' analisi di lungo periodo sulle conseguenze culturali, politiche, sociali dell'11 settembre, si deve assumere come polo interpretativo il ruolo della globalizzazione intesa non come categoria puramente economico-finanziaria ma secondo la sua più complessa accezione storiografica, percorrendo le tappe della sua evoluzione e analizzandola con l'ausilio delle scienze sociali. L'evento, infatti, al di là della spettacolarizzazione mediatica, è risultato eccezionale anche per ragioni storiche: mai, dal lontano 1812, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco diretto sul proprio territorio nazionale (in quel caso da parte dell'impero britannico).
La sfida lanciata dal terrorismo internazionale con gli attacchi dell'11 settembre, che ha segnato la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nell'età della globalizzazione, in realtà viene da lontano ed è collegata a processi precedenti, come la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, la rinascita di ideologie nazionaliste e populiste, talvolta a sfondo religioso. Nel caos internazionale che ne è derivato, dettano le regole del gioco organismi ed entità – tra cui multinazionali, Fondo monetario, G8 - che danno vita a rapporti trasversali di potere. Gli stati vengono sempre più condizionati da fattori internazionali, in cui l'azione politica è sottoposta ai dettami del mercato mondiale.
Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo di studio “Eisenhower” della Brown University, i costi dell'11 settembre sono stimati in termini umani in 225 mila persone rimaste uccise nel mondo, delle quali solo poco più di 31 mila appartenenti ad eserciti o a gruppi militari, e, in termini economici, in più di 4 mila miliardi di dollari. In realtà, come vedremo, i costi dell'11 settembre sono stati ben più alti ed abbracciano ben altri aspetti della vita di cittadini di tutto il mondo.
Contesto economico-finanziario
Dal punto di vista strettamente finanziario, il cosiddetto economic impact, dovuto agli attentati alle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan a New York, è stato calcolato in 200 miliardi di dollari. Già a partire dal 24 settembre 2001, dopo le prime ingenti perdite dovute alla paura della gente e, in particolare, degli investitori, le borse americane ed europee, a seguito della decisione della Banca centrale americana e di altre banche centrali europee di praticare una politica di denaro a basso costo e di inondare di liquidità il sistema economico-finanziario mondiale, ripresero a salire, per ritornare lentamente alla normalità alla metà del 2002. Se facciamo una comparazione, molto più traumatici sono risultati i danni di lungo periodo di quella scelta che finì col “drogare” virtualmente il sistema economico mondiale, portando alla cosiddetta “crisi dei mutui” e al grande “crash” di Wall Street del settembre 2008, con perdite fino a 3 mila miliardi di dollari, ben oltre dieci volte l’impatto immediato dell'attentato.
Con l'11 settembre sono cambiate anche le impostazioni del commercio estero. Prima di quella data si credeva che attraverso il liberismo economico la globalizzazione avrebbe diminuito le differenze tra i vari paesi, abbassando il tasso generale di povertà. Dopo, la globalizzazione si è diversificata: sono tornate le scelte protezioniste, per cui l'Europa preferisce commerciare con sé stessa o con la Russia, la Cina attira commercio in Asia e negli Usa, mentre questi ultimi esportano soprattutto negli altri stati americani, in particolare Canada e Messico. L’11 settembre ha inoltre introdotto una forte variabile sul prezzo del petrolio.
Instabilità è il termine che appare più indicato ad esprimere la situazione vissuta dagli stati sotto il profilo economico-finanziario.
Contesto militare-strategico
Dal punto di vista militare, l'11 settembre ha rappresentato un punto di non ritorno, in direzione opposta rispetto agli anni del disarmo nucleare e della cosiddetta distensione. Già a partire dal 2002 il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato, toccando la vetta di 343 miliardi di dollari.
Può apparire interessante comparare, in chiave storica, le spese militari dei vari paesi in età diverse: secondo i dati dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, un anno prima dell'11 settembre, le spese militari statunitensi assommavano a 283 miliardi, contro i quasi 57 della Russia (un quinto circa della potenza bellica statunitense, proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio prima), i 40 del Giappone e i quasi 39 della Cina. Si tenga presente che, nel 1900, le spese militari dell'impero britannico, compreso tutto il suo apparato coloniale, erano pari a poco più di 100 milioni di sterline, contro i 24 milioni dei francesi e i 20 dei tedeschi. Le proporzioni, come si vede, rispecchiano sempre la simmetria tra la posizione e il ruolo del paese leader militare e gli altri, e confermano la tesi della continuità di un'economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare.
Nel 2009, secondo lo Stockholm Intenational Peace Research Institute, le spese militari erano così ripartite: Usa 663 miliardi, Cina 98 miliardi, Inghilterra 69 miliardi, Russia 61 miliardi, India 36 miliardi. Una sempre più accentuata instabilità sembra dunque accompagnare la leadership degli Usa che si esprime ancora con forza sulle spese militari, ma che li ridimensiona molto nelle relazioni commerciali internazionali.
Si è giunti, rispetto al secolo precedente, ad una maggiore frammentazione degli stati, passati dai 40 del 1900 ai 180 circa attuali, e ad un aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 1480 al 1800 scoppiava un importante conflitto internazionale all'incirca ogni mesi, mentre, dopo l'11 settembre,aumentano i conflitti locali tra gli stati e tra i gruppi armati non convenzionali.
Va detto, però, che è cambiato molto, negli ultimi tempi, il modo di fare la guerra. In un volume del 1999 dal titolo Le nuove guerre, ben prima dell'11 settembre, Mary Kaldor aveva già individuato nelle più recenti guerre caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, legata soprattutto all'idea della conquista o della difesa territoriale. Le nuove guerre si fondano su elementi di identità (nazionale, etnica, religiosa) e su diversi metodi di combattimento, come le tecniche di guerriglia o la spettacolarizzazione mediatica dei conflitti. L'analisi di Kaldor si concentrava, in particolare, sulle guerre civili “internazionalizzate”, nei Balcani, nel Caucaso, in Asia centrale, nel Corno d'Africa, in Africa centrale e occidentale. Nell'era della globalizzazione e della delocalizzazione, si delocalizzano anche le guerre, soprattutto in paesi con un'economia debole, e gli stessi terrorismi. Quando i terroristi globali hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nestlé, la Nike o la Pepsi: si spostano altrove.
Anche gli attentati di New York e Washington sono stati definiti “atti di guerra. Le guerre classiche contrapponevano stati nazionali o quantomeno entità politiche chiaramente identificabili, mentre gli attentati dell’11 settembre non sono stati ufficialmente rivendicati, sono stati attuati da nemici senza un preciso volto.
La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti, bensì la modificazione dei loro caratteri. È questa una sorta di guerra globale, una “guerra delle reti” (“netwar”), per riprendere l’espressione coniata nel 1996 da David Ronfeldt e John Arquilla in The advent of netwar, in cui il concetto-chiave è quello di asimmetria, intesa da un punto di vista degli obiettivi strategici, dei mezzi utilizzati, della natura psicologica, e in cui i limiti territoriali e gli spazi esterni vengono annullati e la zona di guerra si confonde con l'intero pianeta. Alla “guerra fredda” succede una sorta di “pace calda”.
Il terrorismo internazionale ha trovato terreno fertile nella prospettiva della globalizzazione. Se è vero che il mondo intero è entrato nell'era delle reti (finanziarie, industriali, dell'informazione, ma anche criminali) e si evolve secondo continui spostamenti di flussi e di interconnessioni (di informazioni e immagini), è altrettanto vero che questo nuovo terrorismo risulta composto da varie centinaia di organizzazioni esistenti proprio sotto forma di reti. Si tratta di strutture fluide, decentrate, non obbligatoriamente gerarchiche, ma spesso formate da gruppi eterogenei, che svolgono operazioni di guerra di varia natura, senza una precisa guida a monte, che sono in contatto senza alcuna base territoriale precisa, la cui velocità di elaborazione e distanza fisica le rende quasi inattaccabili.
E' interessante, a questo proposito, riportare l'esempio dell'apparato strategico cinese, secondo quanto descritto nel volume del 2001 di Liang e Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. In Cina, ben prima dell'11 settembre, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999, hanno sviluppato, in modo completamente rivoluzionario, i concetti di guerra asimmetrica e armi “senza limiti”, soluzioni per opporsi allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti. Questa nuova “arte della guerra” si propaga con la modalità tipica delle reti, cioè con i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico (come quello dell'antrace usato come arma batteriologica).Gli speculatori in borsa, come si intuisce bene in questi giorni, possono mettere a rischio la finanza globale. Un hacker senza alcuna professionalità militare è in grado, di compromettere i sistemi di sicurezza di un esercito o di un paese in poche azioni mirate.
La possibilità di usare come vere e proprie armi anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile è un elemento di un certo interesse, se si tiene conto che l'iniziativa di guerra asimmetrica alternativa proviene da una nazione come la Cina che agli inizi del Duemila impegnava, in proporzione, quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (5,3% del Pil) rispetto ad altre nazioni come gli Usa (3%), l'Inghilterra (2,4%), la Russia (5%), ma soprattutto perché mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate.
Contesto socio-culturale
Dal punto di vista culturale e sociale, i costi dell'11 settembre risultano davvero rilevanti. Basti prendere in considerazione, sinteticamente, l'impatto immediato avuto sul diritto internazionale e sulla questione dell'immigrazione.
Dopo il drammatico evento, molti paesi, compresi parecchi di quelli che normalmente consideriamo “democratici”, Stati Uniti in testa, hanno introdotto delle legislazioni speciali di emergenza internazionale, allo scopo dichiarato di combattere o prevenire il terrorismo, contenenti misure che hanno intaccato, quando non violato apertamente, la sfera dei diritti umani. In realtà, l’indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in precedenza, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. Lo stesso, dopo l'11 settembre, è accaduto in Afghanistan e in Iraq. Questo atteggiamento di diffidenza verso forme di collaborazione sovranazionale ha avuto modo di manifestarsi anche in altre importanti tematiche globali, come quella del rifiuto americano di sottoscrivere il protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti nell'ambiente. A esemplificazione di un certo modo di intendere i diritti umani è stato identificato simbolicamente, se pure condannato ufficialmente dall'amministrazione americana, il carcere di Guantánamo, eretto in una base militare cubana per torturare deliberatamente i terroristi catturati.
La necessità immediata, proclamata al mondo dagli Usa, di combattere con ogni mezzo il terrorismo internazionale, ha comportato l'applicazione di misure di sorveglianza e di controllo con severe restrizioni delle libertà pubbliche, di espressione e di comunicazione, che sono state accettate passivamente dall’opinione pubblica quanto più sono state presentate come misure necessarie alla loro stessa “sicurezza”. Quindi, se da un lato, la lotta al terrorismo ha accelerato il declino dello stato-nazione, dall’altro ha finito con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e la crescita di una società di “sorveglianza globale”.
Lo stesso processo di chiusura si è verificato riguardo ai flussi migratori e al fenomeno dell'asilo umanitario.Dopo l'11 settembre, l’emigrazione è diventata un questione di sicurezza nazionale: l'immigrato viene generalmente associato ad uno status di illegalità, per cui il trattamento giuridico che gli viene riservato, anche in molti stati europei, lo esclude dall'area dei diritti civili basilari, includendolo, a sua volta, nel vortice delle economie illegali.
Scontro di civiltà o dialogo?
Dopo l'11 settembre, portando alle estreme conseguenze una tesi espressa nel libro di Samuel Huntington The Clash of civilization, uscito nel 1996, si è diffuso il concetto di “scontro di civiltà”. La risposta degli Stati Uniti di George W. Bush all'11 settembre ha insistito sullo stereotipo di uno scontro frontale tra Islam e Occidente, esasperandone i contenuti, e creando pregiudizi e paure spesso ingiustificate tra la popolazione.
Una tale visione semplicistica, molto forte a livello mediatico, implica una rappresentazione erroneamente unitaria e impermeabile delle culture dei diversi popoli e dei singoli, tendendo a cancellare, da un lato, le differenze, ad esempio, tra Europa e Stati Uniti, e, dall'altro, a fare dell’Islam un insieme compatto e monolitico. Come ha sostenuto, invece, Edward Said in Covering Islam, un volume del 1997, “quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo”, nel senso che geograficamente e politicamente il termine “Islam” non esiste, così come non esiste quello di “Occidente”.
D'altra parte, già da tempo gli Stati Uniti avevano assunto nello scacchiere internazionale una posizione sempre più unilaterale, pronta a difendere i propri interessi e a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento dall'alto della propria indiscussa superiorità economica e militare, come hanno dimostrato le vicende in Somalia, Nicaragua, Haiti, El Salvador, Repubblica Dominicana, Panama, Sudan, Afghanistan e Iraq. La retorica dei “diritti dell’uomo” e della “democrazia occidentale da esportare” ha accompagnato la maggior parte di questi interventi unilaterali che, se non appaiono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, hanno esposto a rischi migliaia di civili in altre parti del mondo.
A conti fatti, dunque, la strumentalizzazione del legittimo risentimento suscitato nell'opinione pubblica dopo l'11 settembre e indirizzato, in modo generalizzato, contro l'immigrazione e il mondo musulmano, l’idea di una superiorità naturale dell'Occidente, la tesi dello scontro di civiltà, l'idea secondo cui il liberismo economico costituirebbe per tutte le culture l'unico orizzonte di progresso, rappresentano, a ben guardare, i migliori alleati per il terrorismo internazionale.
Hannah Arendt, nel suo The origins of Totalitarism, del 1973, ha scritto che ogni regime totalitario ha bisogno di un “nemico metafisico”. Di certo non è possibile considerare gli Stati Uniti e l'Occidente alla stessa stregua di un regime totalitario, ma è evidente che, dall'11 settembre in poi, anche essi hanno scelto il loro nemico metafisico, ovvero il terrorismo internazionale, utilizzato spesso per coprire interessi economici.
Nuovi scenari
A dieci anni dall'11 settembre, l’intero sistema delle relazioni internazionali è stato sconvolto proprio dalla lotta contro il terrorismo globale. Dopo l'11 settembre, per guidare la lotta al terrorismo internazionale e nel tentativo del mantenimento di un ordine globale, gli Stati Uniti si sono alleati provvisoriamente con paesi storicamente ad essi ostili, come India, Cina e Russia (contro cui aveva combattuto la precedente guerra in Afghanistan del 1979).
Ma a partire dal 2008 e, in particolare, nel 2010, lo scenario globale ha cambiato ancora aspetto. La crisi finanziaria ha rivelato la debolezza degli Usa, quando ancora erano in corso le guerre in Afghanistan e in Iraq. Con la presidenza di Barack Obama doveva prendere il via un’ asse strategica cinese-americana che avrebbe reso tutti gli altri stati meno influenti. Ma la Cina, in politica internazionale, preferiva orientarsi per un ordine mondiale multipolare, in cui la propria forza avrebbe potuto contare ancor di più.
La crisi economica globale, e in particolare quella dei paesi dell'Unione europea, hanno reso gli Stati Uniti ancora più deboli, di fronte al colosso economico cinese e alle “tigri” asiatiche, che viaggiano a ritmi di crescita e produttività insostenibili per gli occidentali.
Dal 2011 le due grandi potenze sono in aperta rotta di collisione. Il nemico principale per gli Stati Uniti, dunque, non è più il terrorismo fondamentalista islamico (da qui la recente cattura e l'uccisione di Bin Ladin) ma un nuovo ben più temibile e potente nemico, contro il quale occorre orientare europei, giapponesi dalla propria parte e mantenere neutrali indiani e russi. Inoltre, di recente, la rivolta dei popoli del Maghreb (ma anche della Siria) che chiedono l'abbattimento dei regimi e l'instaurazione di nuove repubbliche democratiche, ha stravolto ancor più il quadro. Se la rivolta dovesse prender piede in Arabia Saudita, gli Usa, tenuto conto delle sue crescenti difficoltà economiche, sarebbero costretti a concentrarsi solo lì, dove esistono i maggiori pozzi petroliferi del mondo, perché il barile di petrolio potrebbe salire oltre i 200 dollari, con conseguenze ancora più imprevedibili e disastrose sull’economia mondiale.
Fonte: “Per la Storia”, B. Mondadori, n. 47, dicembre 2011
Adozione dei minori. Per una legge che rifletta i cambiamenti della società
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Di recente il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha riconosciuto, in Italia, un provvedimento di adozione per un bambino africano di 7 anni (dello Zambia) da parte di una donna siciliana (nubile, di professione medico), che lo aveva avuto in affidamento quando aveva solo pochi mesi. Si tratta di un' adozione "particolare", concessa a un singolo genitore, non coniugato: in questo caso con la motivazione che il piccolo è orfano di entrambi i genitori ed ha avuto un rapporto preesistente stabile e duraturo con la donna. Se un marziano avesse messo piede sul nostro paese proprio subito dopo quel riconoscimento, avrebbe subito pensato di trovarsi in un luogo all'avanguardia in tema di diritti civili e in particolare dei minori. "Visto" , avrebbe detto, "voi italiani state sempre a lamentarvi del profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica, insensibile agli effettivi problemi e ai bisogni della gente, e il mondo vitale della società impegnato nella quotidianità! State sempre lì a dire che il parlamento è indotto a legiferare sulla base solo di spinte corporative e gruppi di pressione, e comunque sempre e solo a seguito dell'esplosione dei problemi, quando si sono incancreniti, e mai prima! E invece avete delle ottime leggi, che noi marziani non possiamo far altro che invidiare." Purtroppo, al di là di questo simpatico siparietto tra il marziano e gli italiani, la questione si pone in termini ben diversi. L'adozione del bimbo africano da parte del medico siciliano è un caso rarissimo. In realtà, anche sotto questo punto di vista, purtroppo, l'Italia appare una nazione del tutto arretrata, bloccata, poco competitiva, rispetto agli altri paesi europei. Scopriamo il motivo, ripercorrendone sinteticamente le tappe storiche.
A dire il vero, all'inizio della storia, le cose erano andate piuttosto bene. Si è quasi corso il rischio, nella seconda metà degli anni sessanta, di essere considerati un paese civile e all'avanguardia. Fu proprio quello della riforma sull'adozione dei minori e l'introduzione dell'adozione "speciale" il primo vero banco di prova che funzionò come apripista per la legislazione sui diritti civili e familiari nel nostro paese, come dimostrarono poi divorzio, obiezione di coscienza e aborto. Prima della nuova legge, approvata nel 1967, non era raro che migliaia di coppie senza figli rinunciassero ad adottare un bambino abbandonato per i ritardi burocratici o per non correre il rischio di vederselo togliere più avanti. Secondo i dati dell'Istat di allora, nel 1964 esistevano circa 150 mila bambini ricoverati in istituti di assistenza. Accadeva spesso che un bambino abbandonato venisse affidato a una coppia senza figli e che, dopo anni, si facesse vivo il genitore naturale a chiedere una cifra mensile "per non creare difficoltà". Poteva accadere perfino che una ragazza incinta invece di lasciare il bambino al brefotrofio in vista dell'adozione, decidesse di contattare, attraverso un intermediario, una coppia senza figli e glielo facesse avere come "legittimo", presentandosi semplicemente in clinica con un padre non tale. Per ovviare a situazioni incresciose come quelle, il parlamento seguì in quel caso un iter legislativo diverso da quello di quasi tutte le altre norme. Quel percorso rappresentava, infatti, un caso raro nella storia parlamentare italiana, perché si verificava una spontanea convergenza tra i partiti, pur partendo da posizioni fortemente distanti di cattolici e laici, nonché il favore della Chiesa, decisa a promuovere un'adeguata legislazione. Dopo vari studi sui casi esteri di Usa, Inghilterra e Olanda, quella legge prendeva il meglio, differenziando il caso dei minori dai maggiorenni, diminuendo il limite di età per poter adottare (da 50 a 35 anni), fissando in 20 anni la differenza di età con l'adottato, stabilendo l'organo competente nel Tribunale per i minori (e non più la Corte d'appello), prevedendo, infine, un periodo pre-adottivo di 2 anni. Dopo i 5 anni di prova, la legge aveva dimostrato di funzionare, ma privilegiava ancora troppo l'interesse degli adulti su quello dei minori. Inoltre, non aveva evitato del tutto la compravendita di bambini che aggirava l'intervento dei tribunali, non rompeva abbastanza il legame tra minore e famiglia di origine, prevedeva ancora formalità burocratiche e lungaggini. Mentre il numero famiglie adottive era indubbiamente cresciuto, facendo diminuire sensibilmente i minori abbandonati o istituzionalizzati, quello delle adozioni era rimasto esiguo rispetto ai minori adottabili di fatto.
Sedici anni dopo, nel 1983, una speciale sottocommissione senatoriale, dopo aver ascoltato il parere degli operatori del settore, di magistrati, associazioni ed enti che si occupavano da anni dei problemi dell'infanzia e della famiglia, proponeva alcune importanti modifiche alla legge, sulla base dei disegni di legge presentati dai democristiani e dai comunisti, in particolare aumentando la differenza di età tra adottante e adottato e diminuendo i cavilli che davano vita alle lungaggini burocratiche. Nonostante le imperfezioni e le difficoltà sorte nella sua applicazione, la riforma aveva introdotto finalmente il principio del prevalente interesse del minore e invertiva le finalità dell'adozione: dal dare un erede ad adulti che non potevano averne, al dare invece una famiglia ad un bambino che purtroppo ne era privo. Più di un decennio dopo, veniva regolata, anche in Italia, l'adozione internazionale, secondo la Convenzione dell'Aia, e poi con una legge del 1998 che prevedeva l'adottabilità anche per i conviventi, ma solo dopo un certo numero di anni. Nel 2001, però, venivano apportate alcune modifiche alla disciplina dell'adozione nazionale, in particolare l'innalzamento da 40 a 45 anni dell'età che doveva intercorrere tra genitore e minore da adottare e, oltre al matrimonio, una convivenza di almeno 3 anni come criterio di adottabilità, nonché la graduale chiusura degli istituti di ricovero per minori.
La legge italiana perseverava, dunque, nel vietare l'adozione ai semplici conviventi. A differenza di ciò che accade all'estero, in cui si prediligevano le coppie più giovani per l'adozione, e in certi casi anche quelle non sposate. Che la famiglia costituisse ancora negli anni novanta in Italia il luogo privilegiato nel quale emergevano clamorosamente tutte le contraddizioni, gli antagonismi e in conflitti di una società secolarizzata ma ancora alle prese con la forte influenza e il potere della chiesa cattolica, è un elemento di tutta evidenza. Proprio nel campo delle problematiche familiari la chiesa trovava infatti l'elemento cardine su cui costruire la difesa di certi valori tradizionali. Ma questo arretramento legislativo, a fronte delle iniziali aperture dei decenni precedenti, portava, in alcuni casi, anche a conseguenze drammatiche: per esempio, nel giugno del 2000, quando un'ordinanza di un giudice costringeva i carabinieri a effettuare un "blitz" presso un casolare grossetano, allo scopo di sottrarre una bimba alla coppia a cui era stata provvisoriamente affidata per destinarla a una famiglia "in regola". La legge sulle adozioni, infatti, privilegiava ancora come principio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto disagiata essa fosse. Bastavano, inoltre, le sporadiche visite di un parente perché un minore restasse fisso in una casa famiglia, senza che potesse essere dichiarato lo stato di abbandono che portava all’adottabilità.
La legislazione italiana sui criteri necessari all’adozione se da un lato è molto rigorosa e cauta rispetto a quella internazionale, e pone al centro dell'adozione il bene del bambino (e non l'interesse di chi desidera adottarlo), dall'altro, però, rischia di essere superata dai tempi e di non riuscire a far fronte alla richieste di una società sempre più in movimento. I dati parlano chiaro: se nel 1968 ci furono circa 4 mila 400 tra affidamenti e dichiarazioni di adottabilità, nel 1999 le domande di adozione rimanevano altissime, circa 23 mila, ma solo circa 7 mila venivano accolte. Nel 2005 le domande di adozione erano 15 mila e passavano a 20 mila nel 2007, delle quali ancora solamente poco più di 4 mila erano accettate. Nel 2008 ne venivano accolte appena 5 mila, nel 2009 nuovamente in ribasso, circa 4 mila, mentre si registrava, dal 2004 al 2008, un forte aumento dei minori stranieri adottati (67%) contro i minori italiani (32%), mediante l'adozione internazionale, molto più rapida e funzionale: ben 3420 minori stranieri nel 2007. Dal 1995 ad oggi questo tipo di adozione è molto cresciuta, non solo in Italia, ma in particolare in Spagna, Svezia, Norvegia. Anche se i nuovi criteri per l'accreditamento delle agenzie di intermediazione all'adozione introdotti da Russia, Ucraina e India hanno contribuito ad un rallentamento negli ultimi anni.
In ogni caso, il rapporto attuale tra richieste e accettazioni di adozione è di cinque a uno: per la maggioranza dei bambini, allora come oggi, ciò che resta è l'attesa. Un alto numero di famiglie o coppie rinunciano, ancora oggi, a seguito di lentezze burocratiche e attese infinite proprio come negli anni sessanta. Eppure in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infanzia abbandonata crescono, e anche in Italia esiste un numero enorme di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che avrebbero bisogno di una famiglia: 26 mila bambini, secondo le recenti statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per non parlare poi delle coppie che preferiscono andare all'estero direttamente, pagando la cifra che serve. Dagli anni sessanta ad oggi, a fronte di un aumento costante delle famiglie adottive, dell'aumento dell'intermediazione con gli enti (ovvero consultori familiari ed enti autorizzati Ai.bi), non aumenta la percentuale media delle accettazioni di adozione, non diminuisce l'età media degli adottanti (39 anni per le donne, 41 per gli uomini), a differenza degli altri paesi. Rimane costante la percentuale dei motivi di adottabilità del minore, cioè a dire l'abbandono per il 41% e la perdita della potestà genitoriale per il 43%, mentre si diversificano gli stati di provenienza dei bambini (oggi soprattutto Russia, Ucraina, Polonia, Brasile, Etiopia, Colombia. Vietnam e India).
Se da un lato dunque è giusto rifarsi a criteri di adottabilità equilibrati e cauti, è necessario, tuttavia, che le leggi riflettano i cambiamenti della società in cui viviamo. Una legge "elastica", che sa distinguere i singoli casi, che crea un’eccezione e riconosce, formalmente, una famiglia atipica, come nel caso della donna medico siciliano e del bimbo africano è di buon auspicio per il futuro. Sarebbe bene che questa eccezione costituisse un precedente importante. Come ha già fatto presente una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, è auspicabile, infatti, un rapido intervento da parte del parlamento italiano in modo da ampliare i casi di adozione non solo da parte delle famiglie formalmente riconosciute, ma anche delle coppie e dei single. Anche se per la verità, l'attuale classe politica italiana sembra presa da altri più stringenti problemi, ad esempio su come riuscire a mantenere intatti i propri privilegi di casta. Staremo a vedere.
Fonte: Linkiesta
Omofobia. Se questa è una persona
(Fonte: Internet)
Qualche giorno fa, per la seconda volta nel giro di due anni, il parlamento italiano, accogliendo le pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Udc, Pdl e Lega, ha fermato la legge che inasprisce le pene nei confronti dell'omofobia. Si tratta di un provvedimento in contrasto con lo stesso accoglimento da parte italiana dei punti contro la discriminazione sessuale presenti nel trattato di Lisbona.
La verità è che, al di là delle fumose affermazioni di principio, il mancato rispetto della diversità, fomentato da dichiarazioni di esponenti politici di questo governo, di questa maggioranza, e adesso anche attraverso leggi in parlamento, è l'ennesimo campanello di allarme, che si va a sommare all'arretratezza tutta italiana su temi come testamento biologico, diritti dell'infanzia, delle donne, dei migranti, sul più generale versante dei diritti civili in Italia.
Non molti ricorderanno la vicenda del docente Aldo Braibanti che, nel lontano 1968, fu processato per plagio di minori, ma in realtà condannato per la sua omosessualità pubblicamente dichiarata. La stessa condanna "morale" veniva riservata, in quegli anni, allo scrittore Pier Paolo Pasolini. E' evidente che alla fine degli anni sessanta esisteva ancora in Italia, da un punto di vista legislativo, un divario fortissimo nei confronti di altri paesi più avanzati sul diritto di famiglia e sul diritto della persona. Basti pensare che nel 1956 non fu approvata per un soffio addirittura una legge che configurava l'omosessualità come un reato punibile fino a due anni qualora la relazione fosse "notoria". Quella incredibile legge non entrò in vigore solamente perché la revisione del codice penale non ebbe luogo. Però già nel 1960 venne approvata una legge in materia di censura che definiva l'oscenità, in relazione alla "diversità", in senso ancora più restrittivo di quanto già non lo fosse. Era il segno dei tempi: le stesse coppie di conviventi e i figli illegittimi erano privi di stato giuridico, esclusi da tutta una serie di benefici che spettavano invece ai coniugi. Figuriamoci, dunque, cosa accadeva nel caso degli omosessuali.
Il punto è che all'arretratezza giuridica si sommava a quella della mentalità comune, che non aiutava certo il loro inserimento in società né aiutava quelle minoranze politiche interessate ad affrontare coraggiosamente la questione, a far sentire con forza la propria voce in parlamento e nel paese. La Chiesa esercitava la sua pressione "moralista" sulla società e sulle famiglie, a partire dall'educazione dei bambini, agli insegnamenti alle coppie in procinto di sposarsi, ma l'invito alla repressione sessuale trovava terreno fertile quando si trattava di tollerare e accettare comportamenti "diversi", specie se provenienti da sparute minoranze quale erano allora gli omosessuali. In quel contesto di dogmatismo "familista" si inseriva la sessuofobia, e in alcuni casi addirittura il giudizio di "abominio sociale" di molti vescovi e sacerdoti nei confronti della diversità, in particolare dell'omosessualità (che pure esisteva all'interno della stessa comunità religiosa e che, invece, in tal caso, veniva ampiamente coperta e tollerata), mentre parallelamente la questione iniziava ad essere approfondita in ambito medico (allora era diffusa addirittura l'idea che l'omosessualità fosse una malattia) oltre che sociologico.
A ispirare questi comportamenti censori e intolleranti era, nel caso della chiesa (ma con un'incidenza enorme a livello governativo, attraverso la Dc) , la poca conoscenza della sfera sessuale, ma anche la sensazione che tutta una serie di dispositivi sociali e di aperture, recepite dai paesi europei del nord, potessero, in un certo senso, incrinare e aprire qualche breccia nel vincolo del sacramento del matrimonio. Il collegamento, alquanto forzato, che veniva fatto a più livelli, era che il fenomeno "deviante" si manifestasse negli ambienti più evoluti economicamente a seguito dell'edonismo e del consumismo della società moderna. Non che l'omosessualità rimanesse sommersa per colpa del giudizio intollerante della società, ma che fosse addirittura contagiosa, fomentata dalla dissoluzione dei costumi e dal mercato, oltre che dall'individualismo più sfrenato. Per fortuna, non solo alcuni importanti sociologi, psicologi, medici, sessuologi come Manganotti e Santori dimostrarono che non c'era nulla di contagioso biologicamente, ma va detto che neppure tutta la comunità religiosa si trovava su posizioni così intolleranti: basti pensare che alcuni intellettuali cattolici e dei sacerdoti come don Liggeri e don Grasso, andando oltre le reazioni moralistiche, avevano iniziato a promuovere convegni di studio e ricerche in direzione di un approfondimento serio e scientifico della questione della diversità.
E' evidente che tutti questi condizionamenti, pressioni, interpretazioni forzate e strumentali, nel lungo periodo, dopo decenni, si sono sedimentate ed hanno contribuito a formare una opinione pubblica molto arretrata su tematiche come questa. Eppure, oggi, nel 2011, credo sia legittimo porsi questa domanda anche in Italia: è giusto escludere le persone omosessuali dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona?
Paesi come Stati Uniti, Spagna, Olanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Portogallo hanno già risposto un definitivo "no" su più aspetti della questione. Rimanendo al tema recente dell'omofobia, intesa come atto violento o anche come semplice incitamento all'odio psicologico, essa è punita anche in Danimarca, Francia, Islanda, ed esistono esplicite norme antidiscriminatorie in Brasile, Australia, Canada, Israele, Sudafrica, Austria, Cipro, Finlandia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Svizzera, Ungheria, Inghilterra, Repubblica Ceca, Serbia, Montenegro e perfino Colombia, Ecuador e Isole Fiji.
Non è solo una questione di eguaglianza e democrazia, ma anche di dignità, come chiede esplicitamente la costituzione europea e come stabilisce anche la nostra stessa costituzione italiana. Ora, alla luce di questa breve analisi storica e comparazione con gli altri paesi, non solo per una questione democratica di principio ma anche per un motivo ben più pragmatico , visto che gli omosessuali producono, consumano e pagano le tasse come tutti gli altri cittadini italiani (e gli stranieri), non è forse il caso di adeguare e aggiornare anche la nostra legislazione in modo da provare a combattere, attraverso una legge dello stato, l'odio ingiustificabile verso il diverso?
Fonte: Linkiesta
I figli non sono nostri
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Quando si pensa ai diritti dell'infanzia di solito, vengono in mente i casi estremi, quelli che si esprimono bene nelle immagini dei bambini che muoiono di fame nei paesi sub-sahariani, dei piccoli rifugiati a causa di atroci guerre, dei piccoli profughi palestinesi o dei giovanissimi migranti giunti sulle carrette del mare. Situazioni come queste siamo abituati a vederle spesso in tv o in rete, provenienti da posti più o meno lontani, dove i minori sono vittime, spesso totalmente inconsapevoli, della ignorante ferocia degli adulti.
Di recente, in Honduras, centinaia di bambini, seguiti a pochi passi da agenti armati fino ai denti, hanno marciato per le strade, al grido “Non vogliamo più vedere armi, vogliamo la pace”, chiedendo al regime che si ponesse fine alle ingiustizie sociali e alla militarizzazione delle loro vite. Scene come questa sono già molto più rare. Non gli adulti ma i bambini stessi prendono consapevolezza del ruolo che hanno rispetto allo scenario del mondo futuro e chiedono il rispetto dei propri diritti.
In realtà, oggi, a parte le lamentele per il governo che non governa e per l'acutissima crisi economica, a pochissimi verrebbe in mente di pensare che nel nostro civilissimo paese i diritti dell'infanzia vengono troppo spesso ignorati e, comunque, continuano ad essere fortemente limitati. Pensare che, in tema di diritti civili e umani, l'Italia non stia peggio degli altri paesi europei più importanti, è un banale luogo comune. Una ulteriore prova di ciò è l'arretratezza in cui versiamo nel campo dei diritti dei bambini.
In un libro scritto nel lontano 1974, dal titolo emblematico, “I figli non sono nostri”, il magistrato e presidente del Tribunale per i minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, forniva una documentata requisitoria contro lo stato di abbandono, rifiuto e mis-conoscenza in cui l'allora vigente legislazione e il costume sociale confinavano i bambini, spingendoli, in molti casi, al disadattamento e alla devianza, salvo poi intervenire con sanzioni repressive. Secondo il codice civile italiano, ancora negli anni Settanta, i figli avevano solo il dovere di onorare i genitori; per il resto, essi erano paragonabili più a ombre e fantasmi che a persone in carne ed ossa.
Da allora sono passati ormai quasi quarant'anni, ma se incrociamo i dati estrapolati da alcuni rapporti forniti da Unicef, Save the children, Amnesty International, Caritas-Migrantes, Istat, Cies (Commissione indagine esclusione sociale) e Crc (Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza), scopriamo in modo inequivocabile che l'Italia è un paese incredibilmente in ritardo anche su questo delicato tema.
Secondo quanto è stato sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia (1989) e dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (1996), provvedimenti che hanno portato felicemente a compimento il cammino iniziato con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), i primi fondamentali diritti umani riguardano proprio quelli dei bambini. Il parlamento italiano era andato nella giusta direzione quando, nel 1997, aveva approvato una legge dal titolo Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e l'adolescenza che si poneva il problema non solo in riferimento a situazioni di degrado sociale, ma anche a condizioni di normale esistenza. Si trattava di garantire ai bambini e agli adolescenti, la libertà di scelta e di espressione, il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla sicurezza sociale, al ricongiungimento familiare per minori stranieri, all'affidamento e all'adozione familiare, la lotta all'abuso e allo sfruttamento sessuale e lavorativo, l'accesso ai servizi in ospedale, in particolare per i disabili, la sicurezza contro gli abusi in carcere. Ma da allora in poi, complice il non rifinanziamento del progetto, l'incidenza di quella buona legge nella realtà si è praticamente dissolta.
Il rischio di discriminazione pesa soprattutto riguardo all'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari da parte di bambini in condizione di svantaggio sociale o disagio economico, appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose, stranieri, specialmente se non accompagnati, richiedenti asilo o rifugiati, diversamente abili, nati al di fuori del matrimonio, senza famiglia, reclusi in istituti penali.
Se consideriamo il grado di benessere materiale dei bambini, a fronte della fascia più alta di paesi come Svizzera, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia (con una disuguaglianza inferiore alla media Ocse), l'Italia si colloca nella fascia più bassa, insieme a Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria, Stati Uniti e Slovacchia. Se prendiamo in considerazione la variabile dell'istruzione dei bambini, ben lontano da paesi come Finlandia, Canada, Danimarca e Svezia, il nostro paese si colloca ancora nella fascia più bassa, insieme a Lussemburgo, Repubblica Ceca, Grecia e Stati Uniti. In relazione, infine, al benessere nella salute dei bambini, a differenza di paesi avanzati della prima fascia come Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svizzera, l'Italia si trova sempre nella fascia più bassa insieme a Grecia, Spagna, Stati Uniti e Ungheria.
Sembra incredibile ma ci posizioniamo al ventesimo posto sui 24 paesi Ocse quanto a livello di benessere materiale dei bambini, al ventunesimo sul benessere educativo, e al penultimo posto nel campo della salute. Aggregando gli indici delle tre fasce si ottiene una classifica che vede Danimarca e Finlandia in testa, Italia e Grecia in coda.
I minori in condizione di povertà relativa in Italia sono circa 1 milione e 728 mila, ossia il 23% della popolazione povera; ben il 61% di loro ha meno di 11 anni; il 72% risiede al Sud, dove si concentra il 65% delle famiglie povere; nonostante nel Sud risieda soltanto il 32% del totale.
Come testimoniato da un dossier della Caritas, i minorenni stranieri che vivono in Italia (1 su 5 del totale) raggiungono livelli di istruzione molto bassi: meno del 25% continua gli studi dopo il diploma, contro il 40% degli italiani; hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari di base (1 migrante su 3 non ha il tesserino sanitario); il 90% non è in grado di convertire il permesso di soggiorno, al raggiungimento della maggiore età. La conseguenza è l'allontanamento, oppure il passaggio alla invisibilità sociale. Le recenti politiche sull'immigrazione hanno alimentato sempre più condizioni di precarietà esistenziale e culturale nelle famiglie straniere e si sono rivelate dannose per la maturazione psicologica e lo sviluppo sociale dei figli dei migranti, cioè dei giovani italiani di domani. Emerge, più in generale, una grave carenza sul principio di partecipazione dei bambini, richiamato nell'art.12 della Convenzione del 1989: la scuola non riesce a svolgere alcun ruolo significativo nello sviluppo dei processi partecipativi dei minori, e non tiene affatto in considerazione le opinioni, le indicazioni, le aspettative degli alunni.
In questo contesto così sconfortante, le uniche forme di “interesse” da parte della società (non solo italiana) nei confronti del comportamento dei bambini, sembrano indirizzasi su strade completamente sbagliate. Nel 2010 un gruppo di ricercatori dell'università della California ha pubblicato sul “Journal of Nutrition Education and Behavior” una indagine dal titolo Characteristics of Food Industry Web Sites and “Advergames” Targeting Children. La ricerca è stata condotta su circa trecento pagine web di aziende e catene di ristorazione, allo scopo di esaminare le strategie da esse adottate per prolungare il tempo di permanenza dei bambini sui loro siti. La tendenza riscontrata è stata l'uso di videogiochi on-line assolutamente diseducativi, che catturano l'interesse dei bambini, irretendoli dentro forme di pubblicità invasiva. La tecnica pubblicitaria si chiama advergames e fa uso di software on line, spesso costruiti con tecnologia flash, con grafiche coloratissime e famosi personaggi di fumetti e film di animazione. In mezzo al gioco, all'improvviso e in maniera prolungata, compaiono spot pubblicitari che riguardano cibi altamente calorici, come caramelle e cioccolato. Questi meccanismi sono usati, con tutta evidenza, per tenere i bambini incollati allo schermo del pc, affinché interiorizzino messaggi pubblicitari ingannevoli.
E' evidente, dunque, che non siamo poi così lontani dal quadro di arretratezza e di ingiustizia che lamentava Meucci quarant'anni fa: ancora oggi i bambini (poveri e stranieri) in Italia sono considerati alla stregua di meri strumenti senza diritti, tutt'al più, oggetti di consumo.
Fonte: Linkiesta
Italia a basso sviluppo "umano"
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
In questi ultimi tempi, soprattutto dopo la vicenda del fallimento della Grecia e le difficoltà di Portogallo e Irlanda, non si fa altro che parlare del possibile declassamento dell’Italia, da un punto economico, a paese di secondo rango. Il problema è indubbiamente reale e non va sottovalutato. Anche analizzando la questione esclusivamente in termini di Pil, un parametro di comparazione ormai limitato e tutt’altro che efficace, la parabola discendente del nostro paese appare inconfutabile: da quinta potenza mondiale, nel 1986, quando scavalcammo addirittura l’Inghilterra, a ventinovesima oggi, in termini pro capite. Per dare un’idea del degrado socio-economico del paese basta ricordare due dati: il potere di acquisto dei salari italiani è progressivamente diminuito da 13,6 punti del 1971 a circa 1 punto nel 2010; il compenso per ora lavorativa è ben al di sotto di paesi europei come Svezia, Danimarca (dieci volte maggiore), Norvegia, Germania, Francia, e tra i più bassi di tutti.
Se poi osserviamo il livello di competitività dei paesi mondiali non attraverso il dato del semplice benessere economico o del salario medio ma secondo un’altra più interessante e utile lente, cioè a dire lo sviluppo culturale e i diritti umani, ci rendiamo conto di essere diventati, e da un bel pezzo, uno dei fanalini di coda.
Si lamenta il profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica insensibile agli effettivi problemi e bisogni della gente e il mondo vitale della società che si impegna nella quotidianità ed è veramente costruttore di storia. Questo aspetto è emerso, con grande portata ma non ancora con l’impatto rivoluzionario di cambiamento che certe premesse meriterebbero, in occasione del recente voto referendario.
Si depreca, spesso, che il parlamento sia indotto a legiferare solo sulla base degli interessi opportunistici di singole personalità o di spinte corporative di ben individuati gruppi di pressione (dalla P2 alla P4), o, eventualmente, a seguito dell’esplodere di problemi enormi (tipo il caso dei rifiuti di Napoli), rincorsi, più che previsti. Sono ormai dati di fatto, che condannano, nel giudizio ormai quasi unanime della storia, le classi dirigenti degli ultimi decenni.
Non si deve affatto pensare, però, che prima l’Italia fosse un paese all’avanguardia nel campo della legislazione sui diritti e nello sviluppo umano. Siamo sempre arrivati in enorme ritardo rispetto ad altri paesi europei all’appuntamento con leggi e provvedimenti volti a migliorare il grado di civiltà del paese.
Per dare l’idea basti prendere in esame, sinteticamente, alcune vicende. La legge sull’adozione dei minori prevista in Svezia o in Olanda molti decenni prima, in Italia veniva abbozzata solo a partire dal 1965, e con moltissimi limiti, ovvero con l’adozione speciale (poi rivista nel 1983), e tuttora non proprio all’avanguardia.
La legge che ha reso legale il divorzio fu votata in Italia nel 1970 (solo Spagna, Irlanda, Liechtenstein e Andorra, tra i paesi europei, a quella data, non l’avevano ancora fatto), mentre in Inghilterra una simile legge era presente fin dal 1857 con il Divorce Act e in Francia addirittura dal lontano Code civil del 1792.
La legge sull’assistenza psichiatrica in Francia è stata promulgata già alla fine dell’Ottocento, e mentre in Inghilterra e in Svizzera la psichiatria era comunque considerata una materia di primo ordine e di alto valore sociale, in Italia, come al solito in netto ritardo, doveva arrivare Basaglia, nel 1978, ad aprire alcune prime utili prospettive legislative in un settore totalmente snobbato ed emarginato.
La legge sulla regolamentazione della gravidanza, approvata da noi solo nel 1978, quando nella quasi totalità degli altri paesi del mondo già esisteva (eccetto che nei casi di Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, e di pochi altri paesi africani, asiatici e sudamericani).
Infine la legge contro la violenza sessuale sulle donne, approvata in Italia, pur con molti limiti, nel 1996, con un ritardo a dir poco abissale rispetto ad altre legislazioni di paesi europei e occidentali.
In un contesto di cronica arretratezza, però, il parlamento italiano, pur dominato da posizioni contrapposte tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, e pur segnato da quello che alcuni politologi hanno definito un limite di “decisionismo”, dovuto alla poca forza del potere esecutivo rispetto al legislativo, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta, era riuscito, in qualche maniera, ad allinearsi, in un certo senso, con gli altri paesi “civili”.
Quello che è accaduto successivamente, dagli anni Novanta, dopo la spinta al bipolarismo e la nascita dei “moderni” partiti mediatici, è, in buona sostanza, sotto gli occhi di tutti. Ma forse è bene rinfrescare la memoria a chi tende a dire “tanto è così un po’ dappertutto”, oppure, “è colpa della crisi globale”. Anche in questo caso, riportare qualche esempio, rifacendoci proprio a quei parametri di “sviluppo umano” accennati all’inizio, può essere utile.
A tal proposito ci viene in aiuto una fonte estremamente interessante, ovvero lo Human Development Report 2010 delle Nazioni Unite. Un rapporto fondato sull’analisi di una serie di indicatori raggruppati in alcune aree considerate essenziali allo sviluppo. E’ evidente che solo comprendendo quali siano i veri fattori chiave che alimentano lo sviluppo e la produttività e quali gli ostacoli da rimuovere, si possono mettere in atto riforme capaci non solo di migliorare il reddito pro capite ma soprattutto di dare maggiori opportunità ai propri cittadini.
E’ utile analizzare, a questo proposito, alcune variabili come la possibilità di accesso alle istituzioni e al mondo del lavoro da parte di uomini e donne, la funzionalità delle infrastrutture, l’impatto delle politiche su salute e istruzione (primaria, superiore e universitaria), la disponibilità tecnologica, l’innovazione della ricerca.
Secondo questi parametri l’Italia, con 23 punti, si colloca addirittura intorno alla cinquantesima posizione in termini di livello di competitività (si tenga presente che la Norvegia, ovvero il paese più progredito, ha totalizzato 1 punto, mentre l’ultimo, il Congo, 169 punti) e su almeno 9 dei 12 parametri, è messa molto peggio degli altri paesi sviluppati, e, sembra incredibile, anche di alcuni paesi in via di sviluppo. Solamente tra il 2009 e il 2010 siamo scesi di cinque posizioni in classifica, producendo un impoverimento della popolazione italiana ed allontanandoci sempre più dal benessere, non solo economico ma anche culturale e sociale, degli altri cittadini del mondo. Non solo di quello occidentale ma anche medio-orientale, africano e asiatico.
Scendendo nel merito, si scoprono informazioni interessanti circa i livelli più bassi toccati dal nostro paese. Non molti sanno, infatti, che la quota di popolazione italiana con almeno il livello di istruzione secondaria raggiunge appena il 46,7% contro una media dei paesi sviluppati Oecd del 73,8% (con livelli ben più alti per Norvegia 99, Australia 96, Stati Uniti 94, Germania 91).
Un altro elemento su cui riflettere, a dispetto delle continue richieste di abbassamento dei livelli di spesa pubblica formulate dall’attuale classe politica, sono le spese per la sanità, con un punteggio di 2686, contro una media dei paesi sviluppati Oecd di quasi il doppio (4222), in particolare le spese in letti di ospedale (39 contro la media europea di 63).
Oltre alle note differenze di salario tra uomo e donna, in linea peraltro con i 33 paesi principalmente sviluppati (il 74% circa rispetto a quello degli uomini nel periodo 2003-2006), colpisce il bassissimo dato dei seggi in parlamento occupati dalle donne, per l’Italia appena il 20,2% contro 47% di Svezia, 39 di Olanda, 31 di Germania, 41 di Finlandia, 33 di Spagna, ma soprattutto sorprendono le medie, ben superiori alla nostra, di stati come Singapore, Portogallo, Emirati Arabi, Argentina, Costarica, Sud Africa, Cina, Cuba e perfino Iraq.
Altri dati significativamente bassi sono quelli relativi: al grado di impegno politico della cittadinanza, con i 14 punti dell’Italia (meno di noi solo paesi come Polonia, Romania, Kazakistan, Armenia, Sri Lanka, Bangladesh, Yemen, Myanmar, Nepal e Zimbawe); e al livello di soddisfazione per la libertà di scelta e la rappresentanza politica, in cui il nostro paese si colloca a quota 60 punti (tra tutti gli stati del mondo raggiungono un punteggio inferiore solo Corea, Grecia, Slovacchia, Estonia Ungheria, Bulgaria, Albania, Ucraina, Romania, Algeria, Mongolia, Pakistan, Congo, Madagascar, Togo, Senegal, Etiopia, Zimbawe, Burundi, Cuba e Iraq).
A proposito di libertà intesa in senso più ampio, può essere utile riportare ciò che riferisce Amnesty International sul nostro paese nel Human Rights Report 2011, per confrontarlo col recente passato. Potrebbe apparire paradossale il confronto ma, a ben guardare, non lo è affatto.
Nel Rapporto sulla Tortura negli anni Ottanta (pubblicato da Amnesty), cioè in pieno terrorismo, si può leggere che la tortura ed il maltrattamento di persone nelle carceri non erano una prassi di normale amministrazione in Italia.
Nel recente rapporto relativo agli ultimi anni, invece, si parla di violazione costante dei diritti di Rom e Sinti, sprezzanti commenti discriminatori su lesbiche e gay, formulati da parte di alcuni politici, e violenti attacchi della popolazione contro migranti, che suscitano un clima di intolleranza, impossibilità da parte dei richiedenti asilo politico di accedere alle procedure di protezione internazionale (le domande d’asilo in Italia hanno continuato a diminuire drasticamente), maltrattamenti da parte di agenti delle forze dell’ordine su giovani e su detenuti.
In questo fosco quadro, va ricordato che il governo italiano ha, ancora di recente, respinto 12 delle 92 raccomandazioni complessive ricevute da Comunità europea e Nazioni Unite, e rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale e nel codice penale, nonché di abolire il reato di immigrazione irregolare, soprattutto tenuto conto del cronico sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane.
Alla luce di tutto ciò non pensate si possa tranquillamente concludere, senza timore di smentite, che l’Italia è stato ed è ancora un paese dallo sviluppo troppo poco “umano”.
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Referendum e svolte mancate
Un'analisi comparata sui dati dei 3 referendum
che hanno fatto la storia del nostro paese
Se compariamo questo referendum alle due precedenti storiche tornate referendarie del 1974 e del 1981, scopriamo che esistono molti elementi in comune a spiegare che la società civile è più avanti della politica e della classe dirigente che la governa. Sono i cittadini, i movimenti, le associazioni che, storicamente, danno la svolta. E' accaduto in passato, accade oggi. Il punto è che queste formidabili ondate progressiste la sinistra non è mai riuscita a incanalarle, fornendo risposte concrete su un versante politico.
Il primo referendum abrogativo della storia d'Italia, nel 1974, non fu promosso, come qualcuno potrebbe pensare, dai radicali o da giovani rivoluzionari di sinistra, ma dalla chiesa e dai democristiani, che, dopo l'approvazione della legge Fortuna-Baslini del 1970, diedero seguito all'idea di alto prelato, un monsignore, che aveva avanzato, alcuni anni prima (L'Italia, 17 aprile 1966), la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica cosìdelicata.
Non si creda però che l'esito di quel primo referendum fosse, alla vigilia, così scontato.
(Fonte Internet)
Il governo Rumor era appena caduto, a seguito della crisi economica e delle dimissioni del ministro del tesoro La Malfa. Basta prendere in considerazione i manifesti elettorali dell'epoca (“Pensa a tuo figlio”, “Non mescolare il tuo voto con i fascisti”) o la copertina di un libro uscito proprio in quei giorni (in cui campeggiavano le facce di Gabrio Lombardi e Loris Fortuna), per capire quanto forte fosse la contrapposizione tra i due fronti. favore della riconferma della legge si schierarono, trasversalmente, la lega italiana per il divorzio, il movimento liberazione delle donne, quelli del manifesto, i pidiuppini, la lega degli obiettori di coscienza, i radicali, le comunità di base, i cristiani per il socialismo, i cattolici democratici, gli indipendenti di sinistra, e poi i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri, Pli. Tra i quotidiani e le riviste appoggiarono il divorzio il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Paese Sera, l'Unità, Il Secolo XIX, La Nazione, Il Giorno, Panorama, L'Espresso, L'Europeo, Grand Hotel, Amica e Noi donne. Per l'abrogazione si espressero, dall'altro lato, i missini, la Dc, la Cei, il Papa, con Famiglia cristiana, Avvenire, La Discussione, L'Osservatore Romano, La Civiltà cattolica, Il Popolo, Il Gazzettino, Il Tempo, mentre tutta la Rai, allora l'unico mezzo di informazione veramente capillare, evitava accuratamente di far sentire la voce dei divorzisti.
Alla fine, con una sonora risposta all'alto prelato che l'aveva chiamato in causa, il popolo, dunque, si espresse, dando inizio a quel processo di secolarizzazione che ha avvicinato l'Italia agli altri paesi europei più evoluti sul versante dei diritti civili. L'affluenza fu incredibilmente alta, circa 33 milioni e 29 mila elettori, l'88,1% degli aventi diritto. I “sì” all'abrogazione della legge sul divorzio il 40,9% mentre i “no” superarono il 59%.
La clamorosa novità fu la fortissima tenuta anti-divorzista nelle campagne e nelle province, tra le donne, tra gli operai e tra i cattolici. Una enorme affluenza al voto e le più alte percentuali del “no” furono in Val D'Aosta (75%), Liguria (72%), Emilia Romagna (70%), poi in Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio, mentre tra le città, a Livorno (77%), Torino (76%), Ferrara (74%), Siena (74%), Trieste (73%), ma anche Bologna, Genova, Firenze, Reggio Emilia. Alte percentuali anti-divorziste si raggiunsero, sorprendentemente, anche nelle regioni del Sud, in testa Sardegna e Sicilia (e in particolare le città di Siracusa e Ragusa). Un'affluenza più bassa e le percentuali più alte del “sì” a Benevento, Lecce, Vicenza, Caserta, Avellino, Reggio Calabria, Potenza e Messina.
Il quadro sociologico e regionale emerso fu evidente. Il trend positivo, una sorta di traino, si ripercuoteva direttamente alle successive elezioni amministrative e regionali: rispetto alla disponibilità di voti degli schieramenti, Dc e Msi, uniti al referendum, avevano perso il 6,6%, circa 2 milioni e 700 mila voti, e infatti, nel 1975, la Dc calava e si attestava al 35% (e il Msi al 6%), mentre la sinistra era in crescita, con il Pci che aumentava del 5% e passava al 33,4%, il Psi + 2% e arriva al 12%, e il centro-sinistra insieme raggiungeva quota 45%, circa il 4% sopra il centro-destra. L'incredibile voto referendario e la evidente crescita di consensi elettorali della sinistra non erano però tramutati in un concreto risultato politico.
(Fonte Internet)
Anche nel 1981 la promozione del referendum che intendeva abrogare la legge sull'aborto del 1978 fu monopolizzata dai movimenti cattolici e in particolare da un ex giudice, divenuto presidente del Movimento per la vita. Anche in quell'occasione la contrapposizione nel paese fu fortissima, da un lato i radicali che rivendicavano l'aborto libero, dall'altro gli appelli delle parrocchie, dei parroci durante le omelie, e delle organizzazioni cattoliche, perfino le veglie di preghiera e le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum, mentre in casi estremi anche le statue del santo patrono sfilavano accompagnate dal cartello vota “sì”.
La campagna referendaria fu segnata da una certa sproporzione mediatica delle forze in campo. A favore del referendum anti-aborto o, comunque, per un'astensione diretta contro la riconferma della legge 194, si schierarono in una specie di santa alleanza, la Dc, il Msi, il Papa, la Cei, il Mpv, Comunione e liberazione, La Civiltà cattolica, L'Osservatore Romano, l'Opus Dei, Azione cattolica, le Acli, la Cisl, Il Sabato, il Corriere della Sera, Il Popolo, La Discussione, Il Tempo, mentre la Rai si trovò in evidente imbarazzo a parlare di “194” e di interruzione di gravidanza. Uniti in difesa della legge Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, Sinistra indipendente, Pdup, e poi i movimenti dell'Udi, l'Mld, i gruppi del dissenso cattolico (Cdb e Cps), l'Arci, e i giornali Paese Sera, La Stampa, la Repubblica, l'Unità, il manifesto, Il Messaggero, L'Espresso.
Il risultato fu una sberla contro Chiesa e Dc e la conferma di un paese indirizzato verso una maggiore laicità, quantomeno di principio. Le donne, anche quelle cattoliche, i movimenti e i partiti uniti a difesa della legge, nonché il discutibile referendum radicale pro aborto, furono gli elementi che contribuirono a quell'indimenticabile risultato. L'affluenza fu, anche in quel caso, molto alta, con il 79,6%. Si espresse per il “sì” all'abrogazione della legge sull'aborto il 32,1% mentre per il no ben il 67,9% degli italiani.
Ancora una volta le percentuali più alte a favore della legge furono in regioni come Val D'Aosta (77,3%), Umbria (76,9%), Emilia Romagna (76,8%), Liguria (76,1%), Toscana (75,4%), Piemonte (73,9%), mentre quelle più alte del “sì” si ebbero in Trentino e Alto Adige 50,3%, Veneto 43,4% e Molise 39,7%. Rilevante apparve il fatto che in paesi di montagna e piccole province, dove la Dc aveva ottenuto alle precedenti elezioni anche il 70%, i voti contro la legge furono appena il 50%, mentre al Sud, in particolare in Calabria e in Basilicata, ci fu un'incredibile alta percentuale di astensioni, sommata alle tante schede bianche. Non è un caso dunque che alle successive elezioni politiche, quelle del 1983, la Dc ottenne il 32% dei consensi, cioè a dire il suo minimo storico, con addirittura – 8% rispetto alla precedente tornata elettorale. Anche questa volta però, il senso anti-governativo del voto, verso un partito e un sistema che iniziava a risentire degli scandali della corruzione, non venne affatto concretizzato dalla sinistra, che ottenne sì un discreto risultato elettorale, ma che non fu in grado di fornire una proposta alternativa di governo. Non a caso il Psi abbracciò la Dc per dar vita a quel pentapartito che fece epoca negli anni ottanta.
Infine arriviamo all'oggi.
Stavolta i comitati che hanno promosso i referendum su acqua pubblica, nucleare e giustizia erano espressioni variegate, poco etichettabili, gruppi e movimenti della società orientati tendenzialmente a sinistra (ma non solo), decisi a far conoscere i quesiti referendari alla cittadinanza con ogni mezzo a loro disposizione. E' stata chiara, infatti, fin dall'inizio, la sproporzione mediatica delle forze contrapposte. Per l'astensionismo o per il “no” all'abrogazione delle leggi governative si è dichiarata la presunta maggioranza degli elettori, cioè a dire ilPdl, la Lega, Fli, l'Udc, ma anche la Cisl, la Confindustria, e poi quasi tutta la stampa televisiva, cioè la Rai (Tg1 e Tg2) e Mediaset, quella dei giornali, Il Corriere della Sera, Sole24ore, Giorno/Resto del Carlino/Nazione, Il Giornale di Sicilia, Il Gazzettino, Il Giornale, Il Mattino, Il Tempo, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Padania, Liberoe Panorama. Per i referendum, in modo trasversale, si sono schierati i comitati promotori sull'acqua pubblica e contro il nucleare, movimenti e gruppi come Legambiente, WWF, Italia Nostra, Arci, Protezione Civile, la Rete degli Studenti, Emergency, Donneinmovimento, Libertà e Giustizia, Cultura Sviluppo e Legalità, Medici per l’ambiente, gruppi sindacali come Cgil, Fiom, Cobas, l'Azione cattolica, le Acli, gli scout di Agesci, Pax Christi, poi i partiti Pd, Idv, Sel, FdS, socialisti, tra le tv solo la7, tra i giornali, Avvenire, Il Fatto quotidiano, il manifesto, l'Unità, la Repubblica, La Stampa, Famiglia cristiana, Il Messaggero, L'Espresso.
Un ruolo decisivo è stato giocato dalla rete, attraverso il passaparola, che ha saputo raggiungere luoghi e persone diverse, creando una mobilitazione “alternativa”. Interessante il dato proveniente dall'analisi del “Battiquorum” su facebook che alla mezzanotte del 12 giugno, su un totale di 3 milioni e 635 mila utenti circa, dava il 65% come indifferente, cioè la famosa massa grigia che non vota, il 21,8% formata da attivisti pro referendum, mentre appena il 12,4% addirittura contrario. Morale della favola, il paese reale è risultato ben più avanti rispetto allo stesso popolo di facebook, che pure rappresenta oggi un termometro socio-culturale del quale qualunque nuova forma di politica non potrà non tener conto.
L'affluenza del 57%, circa 29 milioni di elettori, e le percentuali tra il 94% e il 96% dei sì ai quesiti sono già storia. Anche in questo caso la maggiore affluenza è al Nord, con le regioni Trentino (64,6%), Emilia Romagna (64%), Toscana (63,5%), Marche (61%), con le città Firenze (67%), Bologna (66%), Trento e Bolzano (65%), Torino (61%), Venezia, Genova e Ragusa (60%), Roma (59%). Le più basse percentuali invece confermano un Sud più pigro, con la regione Calabria 50% e le città di Crotone (45%), Catania, Reggio Calabria, Foggia (49%), Caserta e Palermo (50%).
Donne, giovani, precari, studenti, credenti e non, Nord più consapevole e Sud critico, tutti protagonisti di un referendum che è in perfetta continuità con i referendum storici e che ha tutto il diritto di entrare nella storia della democrazia partecipativa del nostro paese. Emerge, infatti, ancora una volta, un chiaro dato che è ormai una costante: la richiesta da parte della società di partecipazione e di apertura sul versante dei diritti e della difesa dell'ambiente. Saprà stavolta la sinistra all'opposizione incanalare e dar voce a queste diffuse trasversali spinte progressiste?
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Fabbriche di Nichi: a chi giova il funerale anzitempo?
(Archivio personale)
«Le fabbriche utili per il voto, ma la politica è nei partiti» - Corriere del Mezzogiorno 16/06/2011.
Fratoianni liquida l'esperienza: «Ora vengano in Sel».
Tempo fa avevo scritto sulle "fabbriche" come di un possibile mezzo, nuovo e fresco, di partecipazione giovanile alla politica, come di una speranza. Ora l'esperimento viene chiuso nel peggiore dei modi, dall'alto, con una dichiarazione. Fine dell'ennesima illusione a sinistra. Quantomeno si è usciti dall'ambiguità ed è stata fatta chiarezza.
Si veda, in proposito:
Politica e partecipazione. “Fabbriche” di democrazia partecipativa
Sui nuovi referendum. Rimaniamo dentro la storia
(Archivio Alinari)
Vorrei condividere con voi un semplice ragionamento sul significato dei referendum abrogativi e sul quorum, partendo dalla storia.
Non tutti sanno che l'istituto del referendum in Italia è stato approvato nel 1970, subito dopo l'entrata in vigore della legge sul divorzio, su spinta della chiesa e della democrazia cristiana proprio in funzione anti-divorzista.
Non si immagini, dunque, che a impugnare l'utilizzo di questa nuova arma popolare fosse un giovane rivoluzionario e o un provetto masaniello. Era stato, molto più sommessamente, un alto prelato, un monsignore, per la prima volta ("L'Italia", 17 aprile 1966), ad avanzare la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica così delicata.
Cosa accadde al primo referendum abrogativo della storia d'Italia , nel 1974, (altro conto è quello arci-noto tra monarchia e repubblica) è risaputo: vittoria schiacciante del fronte divorzista, amara sconfitta per democristiani e chiesa, inizio del processo di secolarizzazione anche in Italia. E' interessante sottolineare però, ai fini del nostro discorso, la percentuale dei votanti a quel primo referendum: qualcosa di assolutamente impensabile oggi, cioè a dire votarono in 33 milioni e 29 mila cittadini (su 39 milioni iscritti nelle liste), cifra pari addirittura all'88,1%.
Il secondo importante appuntamento referendario (c'era stato nel frattempo quello del 1978 sul finanziamento pubblico ai partiti, che aveva visto un quorum del 81,2% e la vittoria del "no") fu organizzato e monopolizzato anche stavolta dai movimenti cattolici per tentare di abrogare la legge sull'aborto: ad aizzare le masse, in quel caso, non furono esponenti dei radicali o giovani estremisti, come si potrebbe credere parlando vagamente del tema "referendum popolari", ma fu piuttosto un ex giudice, presidente del Movimento per la vita. Quella volta votarono il 79,6% degli aventi diritto, con un'alta partecipazione di credenti che disattesero le indicazioni delle alte gerarchie ecclesiastiche, un dato in calo rispetto alla tornata precedente, che confermarono la validità della legge, dando un colpo mortale al tentativo di Comunione e Liberazione e Mpv di riaggregare il mondo cattolico intransigente. Già in quell'occasione, dove si erano accorpati al referendum sull'aborto anche altri quesiti (come ordine pubblico ed ergastolo), i più avvertiti tra gli esponenti dei radicali fecero autocritica per un utilizzo dello strumento referendario totalmente travisato rispetto alle origini: la strategia dei pacchetti referendari espressi in modo poco chiaro e difficilmente assimilabile dall'opinione pubblica, gestiti peraltro fuori dalle elezioni politiche, con enorme spreco di denaro pubblico, appariva totalmente errata.
Il calo della percentuale dei votanti al referendum proseguì imperterrita nel 1985 con il referendum sulla scala mobile (77,9%), nel 1987 su responsabilità civile dei giudici e nucleare (65,1%), ma il quorum era stato comunque sempre raggiunto fino a quel momento. Il motivi erano, evidentemente, l'uso di argomenti chiari e la mobilitazione dei partiti e dei movimenti presenti nel paese.
A partire dal 1990 in poi la cosiddetta strategia dei pacchetti referendari, proseguita dai radicali, portò ad un utilizzo smodato e indiscriminato dell'istituto, su problematiche come la caccia, la riduzione dei deputati, le droghe, l'abrogazione di ministeri, le concessioni televisive, gli orari degli esercizi commerciali, l'obiezione di coscienza, le carriere dei magistrati, l'ordine dei giornalisti, etc, tutti argomenti che avrebbero dovuto essere risolti, se il parlamento avesse funzionato regolarmente come in qualunque altro paese civile, attraverso leggi ordinarie.
Il calo dei votanti fu, tornata per tornata, continuo e progressivo: dal 43% del 1990 al 30% del 1997, dal 49% del 1999 al 32,2% del 2000. Fino a toccare il fondo, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita del 2005, quando la chiesa e molti partiti di governo (ma non solo) avevano consigliato l'astensionismo, per cui andavano a votare solamente il 25% degli italiani. E il distacco dalla politica era confermato ancora nel 2009 con un calo ulteriore dei votanti al 23% in occasione dei quesiti tutti tecnici sulle liste elettorali.
Ma veniamo all'oggi. Questo appuntamento referendario, per la tipologia dei quesiti (nucleare, acqua pubblica, giustizia), per il percorso politico che lo ha preceduto, per la mobilitazione che, soprattutto in questi ultimi giorni, ha suscitato nella popolazione, sembra rientrare, di diritto, nella storia originaria e gloriosa dell'istituto del referendum abrogativo. Con la differenza che, stavolta, le forze popolari e anche i partiti, che li hanno promossi, non sono la chiesa e i movimenti cattolici intransigenti, ma piuttosto sono quei movimenti che hanno fatto sentire fortemente la propria voce in occasione, negli ultimi tempi, contro i provvedimenti del governo, contro le "uscite" del premier, e infine, durante la campagna elettorale per le ultime amministrative. Si tratta di un blocco sociale ricomposto, di una spinta popolare proveniente dal basso, con grandi protagonisti i giovani e le donne, che ha costretto, incredibilmente, i partiti di opposizione ad accodarsi, a non bloccare o smorzare come al solito l'entusiasmo, insomma si tratta di una novità per la storia recente del nostro paese. Una novità che però ha almeno tre importantissimi e gloriosi precedenti storici: le vittorie dei movimenti progressisti, laici e cattolici, in occasione dei referendum su divorzio (1974), aborto (1981) e nucleare (1987).
A questo punto è doveroso un appello a tutti. In quelle occasioni storiche il quorum fu, come ho già accennato, rispettivamente, dell'87%, del 79% e del 65%. Facciamo in modo di rimanere dentro la storia e facciamo sì che, anche questa volta, il quorum sia raggiunto e diventi una spinta propulsiva e incontenibile verso il (peraltro già vicino e ormai auspicabile) cambiamento di questo nostro paese.
Veltroni, la laicità e i santi in paradiso
Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.
(Tratto da: “Diario della settimana”)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)
Il disagio dei cattolici e la miopia della sinistra
(Archivio Alinari)
In questi giorni ricorre il trentennale del referendum del 1981 che sancì la conferma della “194” , la legge che introduceva per la prima volta in Italia, in ritardo rispetto a molti altri paesi europei, la regolamentazione dell'interruzione della gravidanza. Promossa dal deputato socialista Loris Fortuna, dal movimento organizzato delle donne e dai radicali, pur con le varianti limitative introdotte, volute dai comunisti e dai cattolici democratici, la legge era stata votata in Parlamento da Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e Sinistra indipendente, con la contrarietà di Dc (seppure con molte defezioni) ed Msi. Il Parlamento italiano era giunto a quel voto dopo un dibattito lungo ma di alto livello culturale, con un Paese fortemente diviso nelle piazze: non, come si è soliti semplificare, tra abortisti e anti-abortisti, quanto tra sostenitori e oppositori di una legge che voleva limitare al massimo il drammatico fenomeno degli aborti clandestini.
Dopo la promulgazione, la polemica pubblica si indirizzava sul tema dell'obiezione di coscienza all'aborto, prevista dalla legge, ma utilizzata strumentalmente dalle forze intransigenti e, in particolare, dal nascente Movimento per la vita (Mpv), per boicottarne la corretta applicazione. Durante il confronto che precedette il referendum, i fronti contrapposti videro schierate, da un lato, a favore della legge, le forze laiche presenti in Parlamento, dall'altro, le gerarchie ecclesiastiche, la Dc (la cui segreteria, peraltro, decise di non spendersi molto durante la campagna referendaria), alcuni movimenti cattolici come Mpv e Comunione e Liberazione (Cl). Rappresentarono una variante significativa ai fini di spostare il voto di una buona parte dell'elettorato dei credenti a favore della legge, gruppi, riviste, personalità cattoliche che decisero di seguire la propria coscienza e di votare in maniera difforme alle direttive ecclesiastiche e ai richiami di Papa Wojtyla. Oltre alle prese di posizione contrarie al referendum abrogativo manifestate dai Cristiani per il socialismo, dalle Comunità di base, dai candidati cattolici indipendenti, spiccarono, durante il dibattito referendario, le dichiarazioni controcorrente, da un lato, di Pietro Scoppola, che, pur avendo appoggiato in precedenza i gruppi della sinistra cattolica che avevano mediato per l'approdo alla legge, decise di schierarsi a favore; dall'altro, l'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Norberto Bobbio che si espresse,
seppure con motivazioni esclusivamente ideali, contro la legge.
A parte le dichiarazioni di principio dei rappresentanti della Dc, dell'Azione cattolica e della Chiesa , ad un'analisi più attenta, emergeva una posizione del mondo cattolico nient'affatto allineata e tanto meno compatta. Se i documenti episcopali emanati in prossimità del referendum presupponevano una società italiana non ancora secolarizzata, in cui il modello soggettivo di fede era confuso con quello proposto come ufficiale dalla chiesa, in una visione completamente superata dai fatti, l'orientamento di movimenti come Acli e Cisl era stato di distacco, per cui si propendeva per un timido “sì” al referendum ma si dava agli aderenti la possibilità di votare secondo coscienza. Lo stesso atteggiamento aveva assunto, in sostanza, la Dc.
Lo scollamento di un mondo cattolico sempre più inquieto di fronte a problematiche morali di così vasta portata dava un esito referendario sorprendente (segnato anche dall'attentato al Papa), che riportava il 32% per il “sì” contro il 68% di voti che riconfermavano la legge. Colpisce la quasi coincidenza tra la percentuale del “sì” e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale, che dal 69% del 1956 era calata al 30% nei primi anni ottanta (nonostante l'ancora altissima percentuale degli italiani battezzati, circa il 97%). La società appariva largamente secolarizzata e notevolmente autonoma rispetto alle indicazioni dei partiti. Va ricordato, inoltre, il dato di altissima partecipazione da parte del mondo cattolico al Centro e al Nord, fortemente mobilitato dalle sinistre laiche e dai cattolici democratici, contrapposto invece alla forte astensione al Sud, nelle zone rurali ad alto tasso di voto democristiano. La Chiesa appariva la grande sconfitta del referendum: cresceva il numero di coloro che, pur dichiarandosi credenti, non ritenevano di essere obbligati a seguire le sue indicazioni su questioni morali che toccavano da vicino la vita di tutti i cittadini.
A distanza di trent'anni dall'esito di quel referendum, risulta ormai un dato di fatto il significato positivo di quella battaglia: l'Italia ha oggi il tasso di abortività più basso del mondo, cioè a dire 8,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne (e diminuisce ancora tra le minorenni al 4,8), mentre, più in generale, gli aborti sono calati del 50%, passando dai 231 mila del 1982 ai 116 mila del 2009 (di cui ben il 33% è dovuto alle immigrate, quindi la percentuale degli aborti tra le donne italiane è ancora inferiore). Appare più interessante, invece, fare un confronto con il mondo cattolico, la chiesa e le forze di sinistra odierne. Dopo la fine della Dc, le gerarchie ecclesiastiche hanno avuto la possibilità di “fare politica” a tutto campo, rivolgendosi non solo al centro, ma anche a destra e a sinistra indistintamente, nel tentativo di condizionare i programmi e incassare provvedimenti legislativi favorevoli alla chiesa. Questo scenario si è rivelato in tutta la sua portata in occasione della enorme astensione del mondo cattolico al referendum del 2005, quello relativo alle modifiche alla legge “40” sulla fecondazione assistita. Nella stessa direzione - nel senso di ingraziarsi la Chiesa - vanno le più recenti prese di posizione del governo di centro-destra, con l'appoggio trasversale dell'Udc, su alcuni temi: l'opposizione all'utilizzo delle cellule staminali nella ricerca scientifica, in opposizione a quanto indicato da tutta la comunità scientifica internazionale; l'indicazione contraria alle direttive anticipate di trattamento sul testamento biologico, che non devono essere vincolanti per il medico, secondo cui l'idratazione e la nutrizione artificiali non possono essere sospese perché considerate forme di sostegno vitale; il “no” fermo a ogni forma di eutanasia; la contrarietà all'utilizzo e alla diffusione della pillola abortiva Ru486. Le ragioni del favore fatto dal governo alla Chiesa non sono solo di principio e di ordine morale ma anche di business.
A differenza del passato, però, su questi punti è venuta a mancare la compatta e coerente opposizione da parte della maggiore forza dell'opposizione e del centro-sinistra, il Pd, rilevatosi incerto e contraddittorio, per il timore di rompere con il mondo cattolico ad esso più vicino. A questo punto si tratta di analizzare meglio questo rapporto, con un mondo cattolico sempre più inquieto, confuso sulle opzioni politiche proposte, propenso all'astensionismo, diviso tra cattolici progressisti e intransigenti, e con le gerarchie ecclesiastiche, decise invece ad appoggiare un governo con sempre meno appeal, pur di incassare i suoi interessi sui temi cosiddetti non negoziabili. Guardare al mondo cattolico nella sua interezza è un errore grossolano. Lo fa oggi il Pd, così come lo faceva il Pci di Togliatti, quando non distingueva tra questione cattolica e questione democristiana. L'episcopato, ormai dalle vicende del referendum sull'aborto, anche se la scomparsa del partito democristiano lascerebbe ipotizzare il contrario, non rappresenta realmente il portavoce politico di tutti i credenti. Occorre distinguere sempre, infatti, tra credenti intransigenti e credenti che decidono di riservare il primato delle scelte su questi temi alla propria coscienza. E proprio su questo punto il Pd e tutta la sinistra dovrebbe impostare un approccio completamente diverso, intanto mettendo da parte la soggezione e il senso di inferiorità dimostrato nei confronti della chiesa, poi cercando di compattare e unificare le visioni di molti cattolici che, su temi come un testamento biologico ispirato all'autodeterminazione, come la regolamentazione delle coppie di fatto etero e omosessuali, come la difesa della “194”, si trovano sostanzialmente d'accordo.
Un po' quello che accadde, come si è visto, nel caso della battaglia referendaria sull'aborto.
Questo mondo cattolico, indispettito dal silenzio nei confronti del governo e dal conformismo verso la maggioranza imposto dalle gerarchie ecclesiastiche, aspetta un interlocutore politico serio. Si tratta di persone credenti impegnate nel quotidiano, presenti nelle parrocchie, nelle associazioni, nelle scuole, che esprimono un bisogno di moralità, di onestà, di serietà istituzionale, allo stesso modo di tanti altri non credenti. Tutto ciò poco ha a che vedere con la prospettiva di alleanza strategica con il terzo polo, fatta sulla testa degli elettori e della stessa base dei partiti di sinistra. L'esempio della mobilitazione durante il referendum sull'aborto, se letto correttamente, fornisce spunti interessanti per sciogliere il nodo di questo travagliato
e quanto mai decisivo rapporto tra mondo cattolico e forze di sinistra in Italia oggi.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 45)
(Archivio Alinari)
Fuga dall'Italia
Chiede oggi Crainz al paese, dalle pagine di Repubblica, a proposito dello sciopero della stampa di domani: è possibile continuare in questo modo? La sua risposta è ovviamente "no", e vi argomenta tutta una serie di motivi per cui siamo arrivati oltre il limite di guardia della democrazia, riportando, da fine storico qual è, qualche glorioso esempio di giornalismo del passato che non si piegò al conformismo e che contribuì alla riscossa democratica del paese, svoltasi anche ma non solo nelle piazze (si pensi all'opposizione ferrea in parlamento dei partiti della sinistra laica ma anche delle forze cattoliche democratiche in piena secolarizzazione), per esempio, dopo i danni provocati dal governo di Tambroni del 1960: giornalisti e stampa, partiti antifascisti, forze intellettuali, sindacati, associazioni e gruppi della società civile, tutti uniti. Quello è stato indubbiamente un momento storico difficilissimo, che poteva preludere al peggio, per esempio al "tintinnar di sciabole" del golpe o ad altre soluzioni reazionarie, ma è altrettanto indubbio che quella era tutta un'altra Italia. Era un popolo che seppe reagire, perché, in fondo, si voleva bene, voleva bene al suo paese.
Voler bene all'Italia, oggi, è molto e sempre più difficile per gli italiani. Quando dico oggi non intendo dire negli ultimi decenni o anni, come a volte si dice, individuando nell'annus domini 1994 ovvero nella discesa in campo di Berlusconi con il suo discorso andato in onda a reti unificate, l'esempio di tutti i recenti mali della nazione. Mi riferisco, piuttosto, alle azioni e alla strategia politica di questo ultimo governo in carica (il conto si fa in mesi, dunque). Non si tratta di strategia della tensione ovviamente (di tensione se ne crea eccome nel paese, anche se il precedente storico non è proprio calzante), né tanto meno di strategia dell'attenzione (forse attenzione sì, ma alle classi agiate), ma si potrebbe parlare piuttosto di strategia della distruzione: nel senso di distruggere quasi tutto ciò che di buono il paese aveva fino ad oggi. Non entro nel merito dei provvedimenti che vanno in questa sventurata direzione, lo hanno fatto altri ben più preparati di me nello specifico delle varie leggi (che sarebbero da chiamare non tanto leggi ad personam quanto ad factiones, perché vanno a salvaguardare gli interessi di lobbies e gruppi di potere ben precisi, mentre le masse che hanno votato centro-destra rimangono tuttora a bocca asciutta o quanto meno ad aspettare, illusoriamente, che si vedano i frutti delle tante promesse).
Dico solo che è difficile, per i tanti giovani che vivono qui e che non sono già andati via, voler bene a questo paese. Un paese che non dà più da vivere e da lavorare ai suoi cittadini (il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli drammatici dei primi anni cinquanta, con la differenza però che a quel tempo c'erano state prima il regime fascista e poi la seconda guerra mondiale), che non dà case da acquistare né da affittare a prezzi decenti ai suoi giovani o alle nuove coppie. E' difficile vivere in un paese dove tutto quanto si è sofferto sembra rimanere inutile ed esser tradito (si pensi alle fatiche dei costituenti e dei partiti antifascisti per dar vita ad una costituzione completamente condivisa), la libertà e i diritti per cui si è sempre sperato e ci si è battuti disperdere il loro senso in una politica da troppe parti condotta con ambiguità, intrighi, compromessi di ogni sorta. E vedere che il veleno intossicante che proviene da un certo modo di far politica da anni ormai di moda ha ammorbato anche chi viene da una storia diversa, alta e onesta moralmente, è proprio difficile. E' difficile sentire fiducia in se stessi e per gli altri in un paese dove ben poco va esente dall'egoismo di parte, dall'opportunismo, dal malaffare portato a modello di comportamento per tutti, anzi quasi premiato (si pensi alla nomina dell'ultimo ministro di questo governo, poi costretto alle dimissioni), dove la cronaca è satura di imbrogli, sotterfugi, vizi (non solo sessuali), e dove una smisurata incertezza ostruisce il nostro futuro. Difficile credere nella bontà dell'esistenza quotidiana quando essa, come accade oggi in Italia, non offre quasi più speranze di un miglioramento, non dico solo economico ma quanto meno nei comportamenti, nei rapporti umani. Per questi motivi e per tanti altri che ognuno di voi tutti avrà ben chiari nella sua mente, in molti italiani, oggi, provano un disgusto per il loro paese, un sentimento di ripugnanza e di amara irrisione verso le cose che li circondano, verso le persone che dovrebbero guidarli politicamente, almeno sulla base delle regolari elezioni democratiche, e provano un impulso di levarsele di dosso, di uscire fuori, di andarsene lontani una volta per sempre, per non cadere nella ragnatela di questo meccanismo, di questo sistema di vita e di politica, ma anche per evitare il peggio, di ricadere in reazioni del passato che hanno creato tanto dolore. L'Italia, oggi, è brutto dirlo, per la sua storia, per la sua cultura, senza voler fare la parte dei disfattisti e dei troppo pessimisti, è diventata una specie di macchina in frantumi che non sa più funzionare. E' il caso di lasciarla a se stessa? alle sue macerie? ad un futuro inimmaginabile per le generazioni a venire? Così sentono molti giovani, che pure hanno già lottato affinché certi meccanismi e certe cose cambiassero, o quanto meno non si incancrenissero. Così sentono in tanti italiani, e non solo giovanissimi: al di là delle frontiere, negli Usa come in Inghilterra, in Germania come in Olanda, in Cina come in India, l'estero li attrae, ad esso indirizzano, forse anche sbagliando, ogni loro speranza per l'avvenire. Per tutti loro, o comunque per una gran parte, alla luce degli ultimi due anni di questo governo, e non certo per la solita pregiudiziale anti-berlusconiana che non porta da nessuna parte, ma per fatti e iniziative concrete, non vi sarà stata altra alternativa che andar via. In primis, per i ricercatori, come sottolinea oggi Vaccarino sulla Stampa. A contrastare questo destino, amaro e ingiusto, non rimane che una carta, l'unica possibile, allo stato attuale: che tutta la gente che non avalla questo sistema di governo (non solo gente che ha votato per il centro-sinistra ma anche, ovviamente, gente di centro-destra, per questo sarebbe utile andare a parlare in mezzo a loro, evitando di creare steccati e di parlare sempre e solo ai soliti noti che la pensano come noi), dia mandato a nuove schiere di giovani, uomini e donne, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai avuto condanne penali, ma che hanno invece tante nuove esperienze da proporre, tratte dalla loro vita, dalla loro occupazione e specializzazione, dai loro studi, di formare una nuova opposizione, che si dia un linguaggio politico assolutamente inedito, fatto di azioni concrete, buone pratiche, leggi che stiano al passo con i migliori esempio europei e del mondo, per guidare un nuovo processo democratico, finalmente fondato su valori come il pluralismo, la laicità, l'importanza del ruolo della cultura e dell'istruzione, della ricerca, tenendo conto delle prospettive aperte dal nuovo contesto globale.
Non so se ci vorrebbe un partito completamente nuovo o basterebbe aggiustarne uno vecchio, questo è un problema tecnico o comunque secondario, di sicuro ci vorrebbe una classe dirigente completamente rinnovata e ringiovanita, una suddivisione interna dei compiti e delle mansioni fondata sul valore della competenza e dell'efficienza (non intesa in termini produttivi come un prodotto, ma in termini di qualità culturale in senso lato), e un leader che parli un linguaggio assolutamente diverso da quello espresso in questi ultimi decenni, diciamo dal 1984 in poi, a sinistra come a destra.
Con queste nuove condizioni, cioè a dire con una destra diversa da quella che imperversa oggi, e con una sinistra altrettanto nuova, o almeno con dei leader capaci di esprimere la volontà di due parti del paese opposte, con visioni e idee divergenti, ma civilmente e seriamente disponibili al confronto sulle questioni specifiche, con la condivisione delle regole di base per tutti, solo così molti italiani, soprattutto giovani, potrebbero ritornare indietro dalla loro amara decisione. Se così, invece, non sarà, non rimarrà, per ognuno di noi, che la
fuga dall’Italia.
(Fonte Internet)