Carceri italiane, cronaca di un disastro dimenticato
Fonte: Linkiesta
Nel corso del 1982 alcuni giornalisti della Rai, redattori della rubrica televisiva “Cronaca”, nell’intento di far conoscere al grande pubblico la verità della realtà carceraria italiana, avevano deciso di dedicare una trasmissione al carcere di Rebibbia. Dopo un colloquio con l’allora Ministro di Grazia e Giustizia democristiano, avevano avuto l’autorizzazione a intervistare i detenuti e gli agenti di custodia di quel carcere. All’epoca, i carcerati di cui si parlava abitualmente nei servizi giornalistici, erano i detenuti “speciali”, cioè quelli appartenenti alla grande criminalità organizzata, dal terrorismo alla mafia, dalla camorra al traffico di droga. Quel servizio era, invece, un documento di eccezionale valore e interesse perché, per la prima volta, svelava dall’interno del carcere la tragica realtà quotidiana delle condizioni di vita dei detenuti comuni e degli stessi agenti di custodia, e perfino le violenze che alcuni di loro erano stati costretti a subire in silenzio. Ma quella trasmissione, programmata il novembre 1982, gli italiani non l’avevano potuta vedere, perché non era mai andata in onda. I più sospettosi avevano spiegato l’accaduto per un eccesso di autocensura da parte dell’allora direttore generale della Rai. Altri avevano ipotizzato sotterranee pressioni da parte del governo. Quando, qualche tempo dopo, venne fuori la polemica, si disse subito che la trasmissione conteneva violazioni del segreto istruttorio ed altri non meglio specificati reati, tanto che intervenne la Procura della Repubblica di Roma a sequestrare la pellicola. I giornalisti precisarono subito di aver avuto tutte le autorizzazioni del caso e di aver usato le doverose premure e regole sulla privacy, ma, in sintesi, neppure dopo l’intervento della magistratura la trasmissione venne dissequestrata e tanto meno trasmessa.
Si era trattato, con tutta evidenza, di una grave violazione del diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati, oltre che di un’occasione perduta di far conoscere alla gente i veri motivi dell’ingovernabilità e della inciviltà delle istituzioni carcerarie. A fronte della tante dichiarazioni di buona volontà pronunciate, di volta in volta, da governi e ministri della Giustizia, per risolvere la questione giudiziaria, quella censura diceva più di mille parole.
I dati statistici, ancora nel 1983, erano allarmanti. In un’inchiesta sulle carceri italiane pubblicata sull’ “Avvenire” si parlava di un totale di 40 mila detenuti, prevalentemente giovani, stipati tra vecchi muri che ne potevano contenere 27 mila al massimo. Il numero, di per sè stesso, se comparato a quello di altri paesi, non era poi così elevato. Il problema era che solo il 30% scontava una condanna definitiva, il 60% era in attesa di giudizio (24 mila in primo grado, 6 mila in appello) e quindi in carcerazione preventiva (per al meno 2 anni), e addirittura il 30%, alla fine, era prosciolto. Di questi solo una sparuta minoranza si trovava in galera per reati gravi come rapine, sequestri di persona, omicidi, il resto per reati minori, soprattutto per furti. L’inchiesta ricordava inoltre che, in media, un detenuto costava ogni giorno allo Stato circa 60 mila lire, cioè a dire circa 22 milioni all’anno (oggi costa circa 400 euro mensili).
Un capitolo a parte era quello delle carceri di massima sicurezza, che andavano ricondotte entro i crismi della legalità, eliminando tutte quelle vessazioni disumane, arbitrarie che caratterizzavano le condizioni di vita dei detenuti negli istituti speciali. In questo genere di carceri, i detenuti erano spesso sottoposti a vessazioni e privazioni di diritti umani del tutto superflue rispetto alle esigenze di sicurezza. In alcuni casi le restrizioni comprendevano il divieto di leggere libri e giornali, in altri la permanenza all’aperto fuori dalla cella, in altri ancora i colloqui con i parenti venivano ostacolati dall’esistenza di vetri divisori e dalla possibilità di parlare solo attraverso i microfoni, sovente non funzionanti. Talvolta era anche proibito l’acquisto di generi alimentari e di conforto. Le donne recluse erano una percentuale limitata, molto al di sotto del 10% del totale. Nel carcere di massima sicurezza femminile di Voghera, ad esempio, le detenute vivevano in condizioni di totale isolamento. Più in generale, il carcere femminile era, se possibile, una sorta di carcere dentro al carcere, un ulteriore muro rispetto alla stessa società carceraria. Le regole carcerarie erano maschili, con la loro coazione e repressione. Le donne non potevano comunicare con il resto del carcere, oltre a non comunicare con l’esterno, non potevano comunicare con gli uomini. Un muro costruito sulla cultura sessuofobica che in carcere diventava paura e isteria.
Se negli anni Settanta, ospedali, istituti minorili, manicomi e scuole erano stati investiti da una ondata di apertura e il movimento di trasformazione aveva toccato quei luoghi un tempo chiusi per modificarli, nelle carceri continuava a manifestarsi un sistema autoritario e gerarchico, di angherie e vessazioni dei potenti sui subordinati. A chi stava fuori della società veniva chiesto, in poche parole, di non dare fastidio e al massimo di accontentarsi di una soluzione amministrativa o assistenziale ai suoi problemi.
Un importante spartiacque nella storia del sistema penitenziario italiano fu il giugno 1984. Nella casa di reclusione di Rebibbia si svolgeva, infatti, proprio quel giorno, il primo convegno all’interno di un carcere. L’idea era stata di un gruppo di detenuti che stavano preparando una rappresentazione dell’Antigone di Sofocle sotto la guida di quegli stessi giornalisti della Rai che, dopo aver conosciuto alcuni dei carcerati, avevano iniziato, volontariamente, a prestare la loro opera fra di loro. Quel giorno la commozione ebbe il sopravvento sulla gioia e sullo stesso orgoglio di aver realizzato davvero un evento epocale. Cancelli e porte blindate aperti, detenuti e liberi cittadini insieme senza distinguersi, magistrati, operatori, agenti, parlamentari a discutere una relazione elaborata dai detenuti stessi, di ammirevole serietà e ricca di proposte concrete.
L’articolo de L’Unità del 30 giugno 1984 che riprende il convegno a Rebibbia (L’Unità
I carcerati chiedevano, in sostanza, un carcere più umano, misure alternative alla detenzione e la possibilità di lavorare in cooperative interne agli istituti di pena, per stabilire un collegamento organico fra carcere e territorio, in vista della cosiddetta risocializzazione. In quel momento la società politica superava, almeno nei buoni propositi, la visione chiusa del carcere come luogo di segregazione in cui i cittadini non potevano entrare.
C’era da aggiungere il problema degli operatori penitenziari, la cui “immagine” era poco avvertita presso l’opinione pubblica. Ben pochi si rendevano conto che dalle carceri, presto o tardi, i detenuti sarebbero usciti e che dipendeva anche dal modo in cui durante la detenzione erano stati trattati, dai rapporti che gli operatori erano riusciti a stabilire con loro, se al momento di riprendere la libertà avrebbero presentato più o meno alto di pericolosità sociale. La maggioranza dei cittadini manifestava la tendenza a considerare gli operatori penitenziari esclusivamente come i secondini dei vecchi tempi, chiamati a custodire i detenuti nel senso di tenerli ben chiusi e segregati, per non disturbare gli uomini liberi. Una visione totalmente antiquata e frutto di pregiudizi. Da qui la scarsa considerazione e il bassissimo prestigio sociale degli operatori penitenziari. C’era poi un problema concreto, cioè a dire l’organico basso, con circa 3300 agenti ausiliari, e quindi non effettivi, per un totale di 40 mila detenuti, da cui derivavano turni pesantissimi, nonché il problema dei bassi stipendi. In realtà, nelle carceri, esistevano figure molto differenziate. C’era, per esempio, quella del magistrato di sorveglianza, la cui funzione, spesso di carattere amministrativo e di controllo, era difficilmente conciliabile con la posizione di terzietà che avrebbe dovuto avere un giudice. Di solito la stampa si accorgeva della sua esistenza solo dopo episodi negativi come il mancato rientro di un detenuto da un permesso o dopo un’evasione. Nelle carceri non vi erano ancora le condizioni affinché i giudici di sorveglianza potessero effettivamente svolgere le proprie funzioni. Inoltre, la presenza degli operatori sociali (assistenti sociali, educatori, psichiatri, psicologi, criminologi, ecc) era una realtà diffusa pressoché in tutti i paesi occidentali, ma, in Italia, il loro ingresso nelle carceri era avvenuto, invece, con sensibile ritardo e con contraddizioni specifiche.
In materia di carcere, probabilmente, la società civile si rivelava più arretrata della società politica. Fino a quel momento, la gente si era sempre sentita estranea al problema della prevenzione alla criminalità, la riteneva una questione da politici, così come considerava la repressione compito esclusivo della polizia e della magistratura, e la rieducazione attribuibile soltanto ai tecnici della risocializzazione o, eventualmente, agli operatori del volontariato. Quando il paese era stato chiamato a pronunciarsi tramite referendum sull’abolizione dell’ergastolo, nel 1981, aveva risposto di no, a stragrande maggioranza. L’ergastolo, invece, grazie a una legge del Parlamento, approvata a larga maggioranza nell’ottobre 1986, qualche anno dopo, veniva abolito: i carcerati condannati all’ergastolo sarebbero usciti in libertà condizionale, dopo 26 anni di detenzione. Il nuovo regime carcerario italiano diventava, almeno in teoria, tra i più avanzati del mondo. Ma prima c’erano volute le rivolte carcerarie (le prime fin dal lontano 1969 a Torino, Milano e Genova, nel 1973 devastazioni e incendi a Regina Coeli, a San Vittore, ad Alessandria, con alcuni morti, poi ancora un’ottantina di focolai di protesta carceraria, tristi episodi di suicidi), e il problema era stato posto all’attenzione dell’opinione pubblica soltanto da alcune inchieste giornalistiche e dagli scritti sulle condizioni dei carcerati, superando l’aula parlamentare e le isolate denunce degli indipendenti, dei radicali e della sinistra socialista.
La riforma delle carceri del 1986, meglio nota come “legge Gozzini”, era una importante conquista di civiltà, un segnale di fiducia e di ottimismo riposto dalla società nella bontà della natura umana. I capisaldi di quella legge erano l’attribuzione alla pena detentiva di un carattere flessibile (discontinuità della pena), l’estensione dei permessi premio, semplificando le procedure per ottenerli, e delle cosiddette misure alternative alla detenzione: il lavoro all’esterno del carcere, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, o anche la liberazione condizionale, ossia sorvegliata da controlli periodici di polizia, che il tribunale di sorveglianza poteva concedere quando la maggior parte della pena era stata scontata e il condannato presentava determinati requisiti.
A qualsiasi condannato (anche quelli per reati connessi alla criminalità organizzata, sia mafiosa che politica), veniva infatti riconosciuta la possibilità di cambiare, di essere recuperato e reinserito nella società anche prima di aver scontato l’intera pena, anche se si trattava di una condanna all’ergastolo. La sentenza pronunciata dal giudice del dibattimento non era più intangibile nella misura della pena, questa poteva essere ridotta durante l’esecuzione da un altro giudice, quello di sorveglianza, in relazione al comportamento in carcere del condannato. E la riduzione era pari a un quarto: 45 giorni ogni sei mesi di detenzione. Riguardo ai permessi: tornare per qualche giorno in famiglia, agli affetti, riprendere i rapporti più cari poteva costituire, da un lato, un mezzo prezioso perché la pena fosse accettata più serenamente, dall’altro, una preparazione pratica e morale al reinserimento quando la pena fosse stata espiata. A fronte del numero minimo di condannati che evadevano (circa il 2%) o commettevano altri delitti, c’era il numero grandissimo di altri condannati che andavano in permesso e regolarmente ritornavano. L’affidamento in prova al servizio sociale poteva essere applicato alle pene non superiori ai tre anni, ma una sentenza della corte costituzionale aveva ampliato questo limite. I centri di servizio sociale per adulti erano organismi dell’amministrazione penitenziaria, operanti fuori delle carceri.
Una particolare forma di affidamento era quella prevista per i condannati tossicodipendenti, allo scopo di favorirne l’inserimento in comunità terapeutiche. La detenzione a domicilio era analoga agli arresti domiciliari nel periodo della custodia cautelare antecedente alla condanna definitiva: a casa sua o in altro luogo privato o pubblico, ospedale, ospizio. Potevano essere ammessi alla detenzione domiciliare i condannati a non più di due anni o a cui due anni alla fine della pena. Non tutti però: solo le donne in maternità, gli ultra sessantacinquenni, se inabili anche parzialmente, i malati gravi, i minori di ventuno anni. La terza misura alternativa, la semilibertà, poteva essere concessa ai condannati che avessero scontato almeno metà della pena. Di giorno fuori, di notte in carcere.
Sono passati ormai 25 anni da allora e negli ultimi tempi una vera e propria legislazione repressiva ha preso campo in Italia, che ha avuto come risultato il ritorno al passato: la ghettizzazione, la catalogazione e l’esclusione sociale del carcerato. Sono state soprattutto due le leggi che hanno causato circa il 60% delle detenzioni. La prima, Fini-Giovanardi, che agisce sull’equiparazione delle droghe leggere (cannabis e derivati) a quelle pesanti (oppiacei e droghe chimiche) e costruisce una equiparazione, non solo sociale, tra lo spacciatore ed il consumatore. Tutto ciò ha portato ad una quantità enorme di giovani in carcere, con successivi problemi di ordine psicologico derivati dal trauma della carcerazione e con problematiche dettate dall’esclusione dal contesto sociale. Circa 39 mila unità, il 44% di tutti gli ingressi del 2009. Il caso italiano è un unicum in Europa. Secondo i dati del Consiglio d’Europa, i detenuti per reati previsti dalla disciplina sugli stupefacenti rappresentano mediamente il 16%. La seconda, Bossi-Fini, con il peggiorativo pacchetto-sicurezza, che ha creato il “reato di immigrazione”, trasformando una sanzione amministrativa in un reato penale. Questa legge ha avuto un impatto di circa il 25% sul numero dei detenuti totali, portando in prigione uomini e donne che sopravvivono con lavori a margine, extra-legali o sommersi, che alimentano mercati economici gestiti dalle mafie. La presenza di persone straniere nei penitenziari italiani è più che raddoppiata negli ultimi venti anni: se nel 1991 c’erano il 15% di stranieri nelle patrie galere, nel 2010 erano diventati il 36% (addirittura in due carceri sarde la presenza di stranieri arriva al 70 e all’80%). La percentuale delle donne nelle carceri rimane invece stabile (passa in vent’anni dal 5,3% al 4,3%).
È tornata, in altre parole, l’esclusione sociale dei detenuti: dalla sistematica non applicazione dei diritti umani sanciti a livello europeo e internazionale (alla sanità, alla cultura, all’istruzione), ai processi di riqualificazione e reinserimento lavorativo con condizioni di lavoro interno pessime, sottopagate e senza tutele (nel 2010 il numero dei detenuti lavoratori era di 14 mila circa il 20% del totale, nei settori industriale e agricolo).
I detenuti in Italia sono oggi circa poco meno di 70 mila, di cui il 50% circa in attesa di giudizio (su scala internazionale, nel 2010, l’Italia si trova all’ottavo posto tra i paesi europei per la percentuale di persone in attesa di giudizio detenuto negli istituti di pena, dopo stati come Montenegro, Andorra, Liechtenstein, Turchia, Lussemburgo e Gibilterra). L’ambiente che si respira tra i detenuti si riassume facilmente con il numero di suicidi: 66 nel 2010. La capienza dei nostri istituti di pena è pari a 43 mila posti, con una capienza tollerabile di 48 mila, e con un sovraffollamento medio del 150%. Il primato negativo di sovraffollamento spetta all’Emilia Romagna, poi alla Puglia e al Veneto. Guardando all’Europa, secondo i dati forniti dal Centre for Prison Studies del King’s College di Londra, l’Italia è il terzo paese come sovrannumero di carcerati, solo dopo Bulgaria (155%) e Cipro (153%). Il 2011, inoltre, ha visto un ulteriore aggravarsi della crisi in cui versa il sistema penitenziario italiano, che peraltro, usufruisce di risorse sempre più esigue (i fondi sono diminuiti del 15%). È in crisi, soprattutto, il sistema delle misure alternative al carcere (nel 2010 le persone in misura alternativa erano circa 16 mila, il 19% del totale). Quanto, infine, ai tristi casi degli ospedali psichiatrici giudiziari, nei 6 istituti visitati di recente da una commissione di parlamentari (Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere) sono stati trovate condizioni fatiscenti, dotazione carente di attrezzature e personale medico, condizioni inaccettabili degli internati, abbandonati in stanze, senza alcun tipo di cure.
Nel 2010 il comitato per la Prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha definito incredibile la situazione riscontrata nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, dove alcuni detenuti vengono legati al letto seminudi, 24 ore su 24 anche per dieci giorni. Anche il sistema della giustizia minorile, pur essendo molto più funzionale ed efficiente rispetto a quello degli adulti, nonostante la Corte costituzionale abbia posto attenzione alla questione, per esempio abolendo l’ergastolo per i minori, ha fatto negli ultimi anni preoccupanti passi indietro.
Di recente la Corte costituzionale tedesca, con una sentenza storica, ha obbligato le autorità penitenziarie del paese a rilasciare un detenuto qualora non siano in grado di assicurare una prigionia rispettosa dei diritti umani fondamentali. La decisione tedesca apre la via alle liste di attesa penitenziarie che già sono state realizzare in altri paesi del nord Europa. Il governo norvegese ormai 25 anni fa intitolò il piano di edilizia penitenziaria “Ridurre le attese per scontare la pena”. Era ovvio per il governo scandinavo non incarcerare persone alle quali non potesse essere assicurato un posto letto dignitoso. Le liste di attesa per detenuto sono un’invenzione norvegese. Se non c’è posto in carcere si aspetta a casa che il posto si liberi. In Italia, pochi giorni fa, il Tribunale di Lecce ha sentenziato che il carcere di Borgo San Nicola dovrà risarcire con 220 euro un detenuto tunisino per danno esistenziale dovuto ad una cella troppo piccola (di circa 11 metri quadrati da condividere con altre 2 persone).
La civiltà di un paese si misura, non solo dal grado di sviluppo economico e culturale, e dalla situazione relativi ai diritti civili, ma, anche, dalle condizioni delle sue carceri. È forse il caso di tornare al passato e di aggiornarsi alle legislazioni europee più avanzate, come peraltro è già accaduto nella nostra storia.
Fonte: Linkiesta
I figli non sono nostri
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Quando si pensa ai diritti dell'infanzia di solito, vengono in mente i casi estremi, quelli che si esprimono bene nelle immagini dei bambini che muoiono di fame nei paesi sub-sahariani, dei piccoli rifugiati a causa di atroci guerre, dei piccoli profughi palestinesi o dei giovanissimi migranti giunti sulle carrette del mare. Situazioni come queste siamo abituati a vederle spesso in tv o in rete, provenienti da posti più o meno lontani, dove i minori sono vittime, spesso totalmente inconsapevoli, della ignorante ferocia degli adulti.
Di recente, in Honduras, centinaia di bambini, seguiti a pochi passi da agenti armati fino ai denti, hanno marciato per le strade, al grido “Non vogliamo più vedere armi, vogliamo la pace”, chiedendo al regime che si ponesse fine alle ingiustizie sociali e alla militarizzazione delle loro vite. Scene come questa sono già molto più rare. Non gli adulti ma i bambini stessi prendono consapevolezza del ruolo che hanno rispetto allo scenario del mondo futuro e chiedono il rispetto dei propri diritti.
In realtà, oggi, a parte le lamentele per il governo che non governa e per l'acutissima crisi economica, a pochissimi verrebbe in mente di pensare che nel nostro civilissimo paese i diritti dell'infanzia vengono troppo spesso ignorati e, comunque, continuano ad essere fortemente limitati. Pensare che, in tema di diritti civili e umani, l'Italia non stia peggio degli altri paesi europei più importanti, è un banale luogo comune. Una ulteriore prova di ciò è l'arretratezza in cui versiamo nel campo dei diritti dei bambini.
In un libro scritto nel lontano 1974, dal titolo emblematico, “I figli non sono nostri”, il magistrato e presidente del Tribunale per i minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, forniva una documentata requisitoria contro lo stato di abbandono, rifiuto e mis-conoscenza in cui l'allora vigente legislazione e il costume sociale confinavano i bambini, spingendoli, in molti casi, al disadattamento e alla devianza, salvo poi intervenire con sanzioni repressive. Secondo il codice civile italiano, ancora negli anni Settanta, i figli avevano solo il dovere di onorare i genitori; per il resto, essi erano paragonabili più a ombre e fantasmi che a persone in carne ed ossa.
Da allora sono passati ormai quasi quarant'anni, ma se incrociamo i dati estrapolati da alcuni rapporti forniti da Unicef, Save the children, Amnesty International, Caritas-Migrantes, Istat, Cies (Commissione indagine esclusione sociale) e Crc (Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza), scopriamo in modo inequivocabile che l'Italia è un paese incredibilmente in ritardo anche su questo delicato tema.
Secondo quanto è stato sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia (1989) e dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (1996), provvedimenti che hanno portato felicemente a compimento il cammino iniziato con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), i primi fondamentali diritti umani riguardano proprio quelli dei bambini. Il parlamento italiano era andato nella giusta direzione quando, nel 1997, aveva approvato una legge dal titolo Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e l'adolescenza che si poneva il problema non solo in riferimento a situazioni di degrado sociale, ma anche a condizioni di normale esistenza. Si trattava di garantire ai bambini e agli adolescenti, la libertà di scelta e di espressione, il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla sicurezza sociale, al ricongiungimento familiare per minori stranieri, all'affidamento e all'adozione familiare, la lotta all'abuso e allo sfruttamento sessuale e lavorativo, l'accesso ai servizi in ospedale, in particolare per i disabili, la sicurezza contro gli abusi in carcere. Ma da allora in poi, complice il non rifinanziamento del progetto, l'incidenza di quella buona legge nella realtà si è praticamente dissolta.
Il rischio di discriminazione pesa soprattutto riguardo all'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari da parte di bambini in condizione di svantaggio sociale o disagio economico, appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose, stranieri, specialmente se non accompagnati, richiedenti asilo o rifugiati, diversamente abili, nati al di fuori del matrimonio, senza famiglia, reclusi in istituti penali.
Se consideriamo il grado di benessere materiale dei bambini, a fronte della fascia più alta di paesi come Svizzera, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia (con una disuguaglianza inferiore alla media Ocse), l'Italia si colloca nella fascia più bassa, insieme a Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria, Stati Uniti e Slovacchia. Se prendiamo in considerazione la variabile dell'istruzione dei bambini, ben lontano da paesi come Finlandia, Canada, Danimarca e Svezia, il nostro paese si colloca ancora nella fascia più bassa, insieme a Lussemburgo, Repubblica Ceca, Grecia e Stati Uniti. In relazione, infine, al benessere nella salute dei bambini, a differenza di paesi avanzati della prima fascia come Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svizzera, l'Italia si trova sempre nella fascia più bassa insieme a Grecia, Spagna, Stati Uniti e Ungheria.
Sembra incredibile ma ci posizioniamo al ventesimo posto sui 24 paesi Ocse quanto a livello di benessere materiale dei bambini, al ventunesimo sul benessere educativo, e al penultimo posto nel campo della salute. Aggregando gli indici delle tre fasce si ottiene una classifica che vede Danimarca e Finlandia in testa, Italia e Grecia in coda.
I minori in condizione di povertà relativa in Italia sono circa 1 milione e 728 mila, ossia il 23% della popolazione povera; ben il 61% di loro ha meno di 11 anni; il 72% risiede al Sud, dove si concentra il 65% delle famiglie povere; nonostante nel Sud risieda soltanto il 32% del totale.
Come testimoniato da un dossier della Caritas, i minorenni stranieri che vivono in Italia (1 su 5 del totale) raggiungono livelli di istruzione molto bassi: meno del 25% continua gli studi dopo il diploma, contro il 40% degli italiani; hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari di base (1 migrante su 3 non ha il tesserino sanitario); il 90% non è in grado di convertire il permesso di soggiorno, al raggiungimento della maggiore età. La conseguenza è l'allontanamento, oppure il passaggio alla invisibilità sociale. Le recenti politiche sull'immigrazione hanno alimentato sempre più condizioni di precarietà esistenziale e culturale nelle famiglie straniere e si sono rivelate dannose per la maturazione psicologica e lo sviluppo sociale dei figli dei migranti, cioè dei giovani italiani di domani. Emerge, più in generale, una grave carenza sul principio di partecipazione dei bambini, richiamato nell'art.12 della Convenzione del 1989: la scuola non riesce a svolgere alcun ruolo significativo nello sviluppo dei processi partecipativi dei minori, e non tiene affatto in considerazione le opinioni, le indicazioni, le aspettative degli alunni.
In questo contesto così sconfortante, le uniche forme di “interesse” da parte della società (non solo italiana) nei confronti del comportamento dei bambini, sembrano indirizzasi su strade completamente sbagliate. Nel 2010 un gruppo di ricercatori dell'università della California ha pubblicato sul “Journal of Nutrition Education and Behavior” una indagine dal titolo Characteristics of Food Industry Web Sites and “Advergames” Targeting Children. La ricerca è stata condotta su circa trecento pagine web di aziende e catene di ristorazione, allo scopo di esaminare le strategie da esse adottate per prolungare il tempo di permanenza dei bambini sui loro siti. La tendenza riscontrata è stata l'uso di videogiochi on-line assolutamente diseducativi, che catturano l'interesse dei bambini, irretendoli dentro forme di pubblicità invasiva. La tecnica pubblicitaria si chiama advergames e fa uso di software on line, spesso costruiti con tecnologia flash, con grafiche coloratissime e famosi personaggi di fumetti e film di animazione. In mezzo al gioco, all'improvviso e in maniera prolungata, compaiono spot pubblicitari che riguardano cibi altamente calorici, come caramelle e cioccolato. Questi meccanismi sono usati, con tutta evidenza, per tenere i bambini incollati allo schermo del pc, affinché interiorizzino messaggi pubblicitari ingannevoli.
E' evidente, dunque, che non siamo poi così lontani dal quadro di arretratezza e di ingiustizia che lamentava Meucci quarant'anni fa: ancora oggi i bambini (poveri e stranieri) in Italia sono considerati alla stregua di meri strumenti senza diritti, tutt'al più, oggetti di consumo.
Fonte: Linkiesta