Habemus Papam
Ieri ho visto l'ultima fatica di Nanni Moretti. Si tratta di uno dei pochi registi che con i suoi film ci ha abituati, da tempo, a interrogarci, in modo provocatorio, irriverente e ironico, a tratti surreale, su importanti e decisive tematiche del nostro tempo. Sulle ossessioni del Sessantotto e il malessere psicologico della vita post-moderna, sulla crisi delle ideologie dei partiti e in particolare del Pci e poi del centro-sinistra, sulla crisi dello stato di diritto e sull'opulenza e arroganza di un certo potere politico ed economico, sul significato della vita e della morte. Stavolta si cimenta a descrivere la crisi della chiesa e del mondo cattolico, in piena età di secolarizzazione ormai avanzata. Per la verità già in La messa è finita aveva indagato sulla crisi di un sacerdote di provincia intransigente,
depresso e demotivato per l'impossibilità di riuscire a cambiare le cose e le persone attorno a lui.
Adesso però allarga la questione addirittura alla massima personalità che rappresenta quel mondo, traendo spunto, nel tratteggiare il personaggio del papa, da alcuni dati biografici dei papi precedenti, attentamente dosati e sfumati. Viene fuori in modo autentico e spontaneo, con passaggi di alto lirismo e di acuta ironia, il dilemma della fede (non solo religiosa ma più in generale nelle idee) in sospeso, l'amore per l'umanità e il mondo visto però come dichiarazione di impotenza al mutare delle cose, la sostanziale solitudine di ognuno, il tentativo di fuggire alla proprie responsabilità, dopo tante infinite e ardue prove di volontà e impegno. Non era facile cimentarsi con un tema del genere senza scadere nel ridicolo o, di contro, nel serioso. Moretti ci mostra che esiste un ineluttabile punto di vedere le cose che può sempre chiamarsi critico. Basta mettersi a guardare di là, il mondo, gli uomini, i personaggi, che ci appaiono nel loro congegno interiore, e poi gli avvenimenti, la vita, che si spiegano da soli nell'incontro automatico dei singoli meccanismi. E' quanto accade nel dramma personale dell'uomo papa che si intreccia con l'ansia e le paure dei tanti, i cardinali e la gente che aspettano una guida, come per liberarsi da un peso. In questi casi il compito dello spettatore (così come nel caso del lettore per un libro di quelli di questa specie) diventa il più facile del mondo: acquisire e rielaborare, dal suo punto di vista, il materiale, emozioni e riflessioni, che il regista gli ha gentilmente fornito. In questo caso l'autobiografia si mescola chiaramente con l'analisi psicologica, con l'esplorazione interiore dell'uomo, senza concedere nulla all'esterno, alla politica per esempio, alla stessa religione intesa in termini di superficie e di apparenza. E anche l'evento macroscopico della cosiddetta fine della chiesa, fotografata nell'ultimo passaggio, quello dell'annuncio davanti al mondo intero della propria impotenza e impossibilità a svolgere un ruolo di enorme responsabilità e importanza, come quello di un papa, passa decisamente in secondo piano.
Al di là delle statistiche impietose, che vorrebbero, a fronte del 97% dei battezzati in Italia nel 1983 ben il 60% si dichiarava del tutto indifferente all'insegnamento religioso, percentuale cresciuta ancora al 75% nel corso dell'ultimo ventennio, l'interrogativo che emerge non è tanto se la chiesa come istituzione sia utile o meno al giorno d'oggi, ma se essa, completamente rinnovata e aperta al mondo, potrebbe avere un ruolo per la formazione delle nuove generazioni. Una cosa è certa. Opere come questa, a mio avviso, incidono più di centinaia di trattati e dissertazioni, di note episcopali e via dicendo. Le parole e le immagini possono, in casi rari, se la coscienza arricchisce, se si sollecitano riflessioni e si auspicano significati nuovi, essere esse stesse fatti. E comunque, per il solo fatto di porre interrogativi, suscitare scandalo, dividere l'opinione pubblica, Moretti, passando dal Caimano ad Habemus Papa e agli altri suoi film, dimostra che l'intellettuale forse può ancora avere un senso in questa triste e sempre più conformista società.
(Archivio Alinari)
Qualche pensiero dalle Oblate
Stamattina ho letto che Asor Rosa sul manifesto sostiene che non c'è più tempo, perché un gruppo di criminali e affaristi ha preso il potere e una maggioranza corrotta e indegna vota qualsiasi cosa. Occorrerebbe, quindi, a suo avviso, un intervento del capo dello Stato che, appoggiato dalle opposizioni e coadiuvato dalle forze dell'ordine, sciolga le camere e sospenda le immunità parlamentari. Parole pesanti, sicuramente estreme, ma che devono far riflettere sulla situazione che stiamo vivendo.
Nel pomeriggio, poi, ho ascoltato Rodotà che ha chiesto alla magistratura di resistere per tenere in piedi quel poco di stato di diritto che è rimasto e che ha smentito la filastrocca ricorrente che vorrebbe maggiori poteri all'esecutivo per fare finalmente le riforme: ha spiegato, lucidamente, che negli anni settanta le riforme più importanti per la storia di questo paese
le ha fatte tranquillamente il parlamento, altro che esecutivo forte.
Asor Rosa e Rodotà non sono due estremisti scalmanati. Uno è stato critico letterario, l'altro un giurista. Entrambi hanno fatto diverse esperienze politiche nella sinistra, conoscono la storia del paese, non sono due sprovveduti.
La situazione, a loro avviso, sta indubbiamente precipitando.
Oggi, alla Camera, quantomeno, le opposizioni sono state compatte, il che potrebbe far sperare in un minimo di unità di azione. Voglio ricordare che le piaghe, che oggi si sono incancrenite sui processi, in realtà vengono da lontano: dall'approvazione del decreto Berlusconi bis, a cui il Pci non fece un'opposizione adeguata, al rimando continuo del conflitto di interessi, su cui i governi di centro-sinistra dei vari Pds, Ds, Margherita, etc fino al Pd, hanno enormi responsabilità. Questo va detto semplicemente per dovere di cronaca o di storia che sia.
Che fare dunque? Io credo che l'opposizione debba riflettere su quello che sta succedendo in Italia dal 1984 ad oggi. Non certo fermarsi a contemplare il passato, ma volgersi verso il futuro, e non per lanciarsi in un frenetico attivismo di piazza, ma riconoscendo che si è creata una situazione del tutto nuova, perché si delegittima tutto, la Corte costituzionale, il Csm, il parlamento, la presidenza della Camera, quella della repubblica. E' necessario risolverla con il consenso di una nuova maggioranza. Per esempio, fare un'attenta critica dei propri errori e delle proprie recenti e meno recenti azioni, porterebbe alcune persone a riavvicinarsi alla politica e a questa opposizione. Riconoscere, ad esempio, che il proprio linguaggio politico è ormai inadeguato, è sprofondato per intero nel passato. Non si può sperare neppure nella sola magistratura, né tanto meno nella rivoluzione: gli italiani sono dei rammolliti, non l'hanno mai fatta, figuriamoci se la farebbero oggi.
No, occorre riprendere l'iniziativa a livello locale, riunirsi nelle singole città, mettere alcune regole sull'elezione della nuova classe politica, non solo il divieto di candidatura a seguito di condanne a vario livello, ma anche, a questo punto, il divieto di ricandidatura a chiunque abbia finora svolto incarichi politici ufficiali a tutti i livelli, dai comuni di 2 mila abitanti al parlamento. Mettere un limite di età per candidarsi, tipo 60 anni. Si potrebbe, ad esempio, ricominciare da qui per rinnovare completamente la classe dirigente. Qualcuno dirà che potrebbe anche essere un rimedio inutile. Si, è vero, ma peggio della politica che abbiamo oggi non potrebbe mai essere. E quindi varrebbe comunque la pena di provarci. Sarebbe quanto meno un modo per diminuire il drastico tasso di disoccupazione giovanile di circa mille unità.
Allo stato attuale, non sappiamo cosa diventerà domani questo paese, quali saranno le dimensioni di questa crisi economica, politica, sociale, culturale e adesso anche dello stato di diritto. Manca solamente che l'esercito prenda il potere e non ci saremmo fatti mancare nulla. Ma in Italia l'esercito conta quanto il due di coppe quando la briscola è a spade e poi sarebbe chiedere troppo vivere un vero golpe come nei film.
Qualunque cosa accada bisogna prendere atto che la società italiana, dagli anni ottanta in poi, è molto cambiata, ha allentato i suoi anticorpi democratici, è stata plasmata e indirizzata verso una deriva populista nazional-popolare mediatica plebiscitaria. Purtroppo questo è un dato di fatto. Lo si è visto a partire dai referendum sulla conferma dell'ergastolo, ai mancati quorum per certe leggi sui diritti civili, fino ad alcune votazioni con i vari simboli ad personam, con la sinistra a rincorrere la destra, lo dimostrano perfino i dati dell'audience di raiuno in prima serata, qualsiasi cosa mettano in programmazione, sempre gli stessi. Occorre semplicemente prendere atto di ciò e provare a ricostruire un tessuto connettivo nuovo, partendo da certi capisaldi: i diritti sanciti nella nostra costituzione, una delle migliori del mondo, gli esempi di certe democrazie straniere, sul versante della politica economica, del welfare, del lavoro, il fermento di vita e di speranza proveniente dal sud del mondo. Non rimane che mettersi dunque all'opera, ognuno nel suo orizzonte.
(Archivio Alinari)
A proposito del cambiare opinione politica
(Fonte Internet)
“Il Psi mirava a recuperare il tempo perduto che portò nel 1946-47 tutta la sinistra italiana a essere subalterna al liberismo, perchè la sua cultura riteneva che l'alternativa fosse o sovranità del mercato o pianificazione globale, trascurando le tematiche del Welfare state, della piena occupazione, delle riforme sociale. Uno degli aspetti più paradossali della situazione di quegli anni fu proprio nel fatto che il Psi abbandonò queste tematiche alla sinistra democristiana di Dossetti... Il Psi si deve misurare in prima persona con il nodo della governabilità e con quello conseguente della centralità o meno di non voler dar luogo a una serie di elezioni anticipate fino al collasso delle istituzioni...La governabilità non è un dato tecnico e neutro di pura macchina politica e di potere. La governabilità è fatta di rapporti con le altre forze politiche e con le forze sociali. Il Psi al governo deve misurarsi con il problema di tenere il collegamento con i sindacati. Nel parlamento e nel paese bisogna fare i conti con il Pci. A qualcuno potrà non piacere, ma questa constatazione non è una manifestazione di subalternità, bensì di realismo politico... C'è una centralità socialista che consiste nello spostare a sinistra, su posizioni programmatorie, razionalizzanti, innovative, settori di ceto medio, di borghesia imprenditoriale, portandoli però a una saldatura con una classe operaia matura, capace di graduare le sue politiche rivendicative, in grado con i sindacati di mettersi sul terreno della democrazia industriale, della partecipazione, di una programmazione che sia insieme riforma dello stato, nuova politica industriale, confronto con i vincoli e le compatibilità. E qui sorgono altri problemi. Non c'è riformismo, non c'è laburismo, senza classe operaia...Ma qui emergono i nodi strutturali e politici. Una politica seriamente riformista (basta pensare al fisco, al credito , alle partecipazioni statali), viene inevitabilmente a scontrarsi con il sistema di potere della Dc...Un'ipotesi riformista, per tutte queste ragioni, non può risolversi nell'integralismo socialista, nella riproposizione dell'autosufficienza socialista."
Così scriveva Cicchitto in un articolo dal titolo "Il nuovo corso del Psi: che fare perchè non si cada nel centro-sinistra", pubblicato su Paese Sera il 20 luglio 1980. Mi pare non ci siano da fare commenti. Altro che "responsabili" odierni, viene da pensare qualcosa del tipo "trasformisti di tutte le epoche, unitevi!". Una sola cosa, forse, è il caso di dire: sarebbe bene che gli elettori sapessero a quale livello di piroette programmatiche può arrivare un uomo politico, prima di votarlo.