L'11 settembre e la globalizzazione
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Premessa
Per tentare di abbozzare, a dieci anni di distanza, un' analisi di lungo periodo sulle conseguenze culturali, politiche, sociali dell'11 settembre, si deve assumere come polo interpretativo il ruolo della globalizzazione intesa non come categoria puramente economico-finanziaria ma secondo la sua più complessa accezione storiografica, percorrendo le tappe della sua evoluzione e analizzandola con l'ausilio delle scienze sociali. L'evento, infatti, al di là della spettacolarizzazione mediatica, è risultato eccezionale anche per ragioni storiche: mai, dal lontano 1812, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco diretto sul proprio territorio nazionale (in quel caso da parte dell'impero britannico).
La sfida lanciata dal terrorismo internazionale con gli attacchi dell'11 settembre, che ha segnato la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nell'età della globalizzazione, in realtà viene da lontano ed è collegata a processi precedenti, come la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, la rinascita di ideologie nazionaliste e populiste, talvolta a sfondo religioso. Nel caos internazionale che ne è derivato, dettano le regole del gioco organismi ed entità – tra cui multinazionali, Fondo monetario, G8 - che danno vita a rapporti trasversali di potere. Gli stati vengono sempre più condizionati da fattori internazionali, in cui l'azione politica è sottoposta ai dettami del mercato mondiale.
Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo di studio “Eisenhower” della Brown University, i costi dell'11 settembre sono stimati in termini umani in 225 mila persone rimaste uccise nel mondo, delle quali solo poco più di 31 mila appartenenti ad eserciti o a gruppi militari, e, in termini economici, in più di 4 mila miliardi di dollari. In realtà, come vedremo, i costi dell'11 settembre sono stati ben più alti ed abbracciano ben altri aspetti della vita di cittadini di tutto il mondo.
Contesto economico-finanziario
Dal punto di vista strettamente finanziario, il cosiddetto economic impact, dovuto agli attentati alle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan a New York, è stato calcolato in 200 miliardi di dollari. Già a partire dal 24 settembre 2001, dopo le prime ingenti perdite dovute alla paura della gente e, in particolare, degli investitori, le borse americane ed europee, a seguito della decisione della Banca centrale americana e di altre banche centrali europee di praticare una politica di denaro a basso costo e di inondare di liquidità il sistema economico-finanziario mondiale, ripresero a salire, per ritornare lentamente alla normalità alla metà del 2002. Se facciamo una comparazione, molto più traumatici sono risultati i danni di lungo periodo di quella scelta che finì col “drogare” virtualmente il sistema economico mondiale, portando alla cosiddetta “crisi dei mutui” e al grande “crash” di Wall Street del settembre 2008, con perdite fino a 3 mila miliardi di dollari, ben oltre dieci volte l’impatto immediato dell'attentato.
Con l'11 settembre sono cambiate anche le impostazioni del commercio estero. Prima di quella data si credeva che attraverso il liberismo economico la globalizzazione avrebbe diminuito le differenze tra i vari paesi, abbassando il tasso generale di povertà. Dopo, la globalizzazione si è diversificata: sono tornate le scelte protezioniste, per cui l'Europa preferisce commerciare con sé stessa o con la Russia, la Cina attira commercio in Asia e negli Usa, mentre questi ultimi esportano soprattutto negli altri stati americani, in particolare Canada e Messico. L’11 settembre ha inoltre introdotto una forte variabile sul prezzo del petrolio.
Instabilità è il termine che appare più indicato ad esprimere la situazione vissuta dagli stati sotto il profilo economico-finanziario.
Contesto militare-strategico
Dal punto di vista militare, l'11 settembre ha rappresentato un punto di non ritorno, in direzione opposta rispetto agli anni del disarmo nucleare e della cosiddetta distensione. Già a partire dal 2002 il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato, toccando la vetta di 343 miliardi di dollari.
Può apparire interessante comparare, in chiave storica, le spese militari dei vari paesi in età diverse: secondo i dati dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, un anno prima dell'11 settembre, le spese militari statunitensi assommavano a 283 miliardi, contro i quasi 57 della Russia (un quinto circa della potenza bellica statunitense, proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio prima), i 40 del Giappone e i quasi 39 della Cina. Si tenga presente che, nel 1900, le spese militari dell'impero britannico, compreso tutto il suo apparato coloniale, erano pari a poco più di 100 milioni di sterline, contro i 24 milioni dei francesi e i 20 dei tedeschi. Le proporzioni, come si vede, rispecchiano sempre la simmetria tra la posizione e il ruolo del paese leader militare e gli altri, e confermano la tesi della continuità di un'economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare.
Nel 2009, secondo lo Stockholm Intenational Peace Research Institute, le spese militari erano così ripartite: Usa 663 miliardi, Cina 98 miliardi, Inghilterra 69 miliardi, Russia 61 miliardi, India 36 miliardi. Una sempre più accentuata instabilità sembra dunque accompagnare la leadership degli Usa che si esprime ancora con forza sulle spese militari, ma che li ridimensiona molto nelle relazioni commerciali internazionali.
Si è giunti, rispetto al secolo precedente, ad una maggiore frammentazione degli stati, passati dai 40 del 1900 ai 180 circa attuali, e ad un aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 1480 al 1800 scoppiava un importante conflitto internazionale all'incirca ogni mesi, mentre, dopo l'11 settembre,aumentano i conflitti locali tra gli stati e tra i gruppi armati non convenzionali.
Va detto, però, che è cambiato molto, negli ultimi tempi, il modo di fare la guerra. In un volume del 1999 dal titolo Le nuove guerre, ben prima dell'11 settembre, Mary Kaldor aveva già individuato nelle più recenti guerre caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, legata soprattutto all'idea della conquista o della difesa territoriale. Le nuove guerre si fondano su elementi di identità (nazionale, etnica, religiosa) e su diversi metodi di combattimento, come le tecniche di guerriglia o la spettacolarizzazione mediatica dei conflitti. L'analisi di Kaldor si concentrava, in particolare, sulle guerre civili “internazionalizzate”, nei Balcani, nel Caucaso, in Asia centrale, nel Corno d'Africa, in Africa centrale e occidentale. Nell'era della globalizzazione e della delocalizzazione, si delocalizzano anche le guerre, soprattutto in paesi con un'economia debole, e gli stessi terrorismi. Quando i terroristi globali hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nestlé, la Nike o la Pepsi: si spostano altrove.
Anche gli attentati di New York e Washington sono stati definiti “atti di guerra. Le guerre classiche contrapponevano stati nazionali o quantomeno entità politiche chiaramente identificabili, mentre gli attentati dell’11 settembre non sono stati ufficialmente rivendicati, sono stati attuati da nemici senza un preciso volto.
La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti, bensì la modificazione dei loro caratteri. È questa una sorta di guerra globale, una “guerra delle reti” (“netwar”), per riprendere l’espressione coniata nel 1996 da David Ronfeldt e John Arquilla in The advent of netwar, in cui il concetto-chiave è quello di asimmetria, intesa da un punto di vista degli obiettivi strategici, dei mezzi utilizzati, della natura psicologica, e in cui i limiti territoriali e gli spazi esterni vengono annullati e la zona di guerra si confonde con l'intero pianeta. Alla “guerra fredda” succede una sorta di “pace calda”.
Il terrorismo internazionale ha trovato terreno fertile nella prospettiva della globalizzazione. Se è vero che il mondo intero è entrato nell'era delle reti (finanziarie, industriali, dell'informazione, ma anche criminali) e si evolve secondo continui spostamenti di flussi e di interconnessioni (di informazioni e immagini), è altrettanto vero che questo nuovo terrorismo risulta composto da varie centinaia di organizzazioni esistenti proprio sotto forma di reti. Si tratta di strutture fluide, decentrate, non obbligatoriamente gerarchiche, ma spesso formate da gruppi eterogenei, che svolgono operazioni di guerra di varia natura, senza una precisa guida a monte, che sono in contatto senza alcuna base territoriale precisa, la cui velocità di elaborazione e distanza fisica le rende quasi inattaccabili.
E' interessante, a questo proposito, riportare l'esempio dell'apparato strategico cinese, secondo quanto descritto nel volume del 2001 di Liang e Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. In Cina, ben prima dell'11 settembre, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999, hanno sviluppato, in modo completamente rivoluzionario, i concetti di guerra asimmetrica e armi “senza limiti”, soluzioni per opporsi allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti. Questa nuova “arte della guerra” si propaga con la modalità tipica delle reti, cioè con i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico (come quello dell'antrace usato come arma batteriologica).Gli speculatori in borsa, come si intuisce bene in questi giorni, possono mettere a rischio la finanza globale. Un hacker senza alcuna professionalità militare è in grado, di compromettere i sistemi di sicurezza di un esercito o di un paese in poche azioni mirate.
La possibilità di usare come vere e proprie armi anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile è un elemento di un certo interesse, se si tiene conto che l'iniziativa di guerra asimmetrica alternativa proviene da una nazione come la Cina che agli inizi del Duemila impegnava, in proporzione, quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (5,3% del Pil) rispetto ad altre nazioni come gli Usa (3%), l'Inghilterra (2,4%), la Russia (5%), ma soprattutto perché mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate.
Contesto socio-culturale
Dal punto di vista culturale e sociale, i costi dell'11 settembre risultano davvero rilevanti. Basti prendere in considerazione, sinteticamente, l'impatto immediato avuto sul diritto internazionale e sulla questione dell'immigrazione.
Dopo il drammatico evento, molti paesi, compresi parecchi di quelli che normalmente consideriamo “democratici”, Stati Uniti in testa, hanno introdotto delle legislazioni speciali di emergenza internazionale, allo scopo dichiarato di combattere o prevenire il terrorismo, contenenti misure che hanno intaccato, quando non violato apertamente, la sfera dei diritti umani. In realtà, l’indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in precedenza, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. Lo stesso, dopo l'11 settembre, è accaduto in Afghanistan e in Iraq. Questo atteggiamento di diffidenza verso forme di collaborazione sovranazionale ha avuto modo di manifestarsi anche in altre importanti tematiche globali, come quella del rifiuto americano di sottoscrivere il protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti nell'ambiente. A esemplificazione di un certo modo di intendere i diritti umani è stato identificato simbolicamente, se pure condannato ufficialmente dall'amministrazione americana, il carcere di Guantánamo, eretto in una base militare cubana per torturare deliberatamente i terroristi catturati.
La necessità immediata, proclamata al mondo dagli Usa, di combattere con ogni mezzo il terrorismo internazionale, ha comportato l'applicazione di misure di sorveglianza e di controllo con severe restrizioni delle libertà pubbliche, di espressione e di comunicazione, che sono state accettate passivamente dall’opinione pubblica quanto più sono state presentate come misure necessarie alla loro stessa “sicurezza”. Quindi, se da un lato, la lotta al terrorismo ha accelerato il declino dello stato-nazione, dall’altro ha finito con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e la crescita di una società di “sorveglianza globale”.
Lo stesso processo di chiusura si è verificato riguardo ai flussi migratori e al fenomeno dell'asilo umanitario.Dopo l'11 settembre, l’emigrazione è diventata un questione di sicurezza nazionale: l'immigrato viene generalmente associato ad uno status di illegalità, per cui il trattamento giuridico che gli viene riservato, anche in molti stati europei, lo esclude dall'area dei diritti civili basilari, includendolo, a sua volta, nel vortice delle economie illegali.
Scontro di civiltà o dialogo?
Dopo l'11 settembre, portando alle estreme conseguenze una tesi espressa nel libro di Samuel Huntington The Clash of civilization, uscito nel 1996, si è diffuso il concetto di “scontro di civiltà”. La risposta degli Stati Uniti di George W. Bush all'11 settembre ha insistito sullo stereotipo di uno scontro frontale tra Islam e Occidente, esasperandone i contenuti, e creando pregiudizi e paure spesso ingiustificate tra la popolazione.
Una tale visione semplicistica, molto forte a livello mediatico, implica una rappresentazione erroneamente unitaria e impermeabile delle culture dei diversi popoli e dei singoli, tendendo a cancellare, da un lato, le differenze, ad esempio, tra Europa e Stati Uniti, e, dall'altro, a fare dell’Islam un insieme compatto e monolitico. Come ha sostenuto, invece, Edward Said in Covering Islam, un volume del 1997, “quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo”, nel senso che geograficamente e politicamente il termine “Islam” non esiste, così come non esiste quello di “Occidente”.
D'altra parte, già da tempo gli Stati Uniti avevano assunto nello scacchiere internazionale una posizione sempre più unilaterale, pronta a difendere i propri interessi e a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento dall'alto della propria indiscussa superiorità economica e militare, come hanno dimostrato le vicende in Somalia, Nicaragua, Haiti, El Salvador, Repubblica Dominicana, Panama, Sudan, Afghanistan e Iraq. La retorica dei “diritti dell’uomo” e della “democrazia occidentale da esportare” ha accompagnato la maggior parte di questi interventi unilaterali che, se non appaiono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, hanno esposto a rischi migliaia di civili in altre parti del mondo.
A conti fatti, dunque, la strumentalizzazione del legittimo risentimento suscitato nell'opinione pubblica dopo l'11 settembre e indirizzato, in modo generalizzato, contro l'immigrazione e il mondo musulmano, l’idea di una superiorità naturale dell'Occidente, la tesi dello scontro di civiltà, l'idea secondo cui il liberismo economico costituirebbe per tutte le culture l'unico orizzonte di progresso, rappresentano, a ben guardare, i migliori alleati per il terrorismo internazionale.
Hannah Arendt, nel suo The origins of Totalitarism, del 1973, ha scritto che ogni regime totalitario ha bisogno di un “nemico metafisico”. Di certo non è possibile considerare gli Stati Uniti e l'Occidente alla stessa stregua di un regime totalitario, ma è evidente che, dall'11 settembre in poi, anche essi hanno scelto il loro nemico metafisico, ovvero il terrorismo internazionale, utilizzato spesso per coprire interessi economici.
Nuovi scenari
A dieci anni dall'11 settembre, l’intero sistema delle relazioni internazionali è stato sconvolto proprio dalla lotta contro il terrorismo globale. Dopo l'11 settembre, per guidare la lotta al terrorismo internazionale e nel tentativo del mantenimento di un ordine globale, gli Stati Uniti si sono alleati provvisoriamente con paesi storicamente ad essi ostili, come India, Cina e Russia (contro cui aveva combattuto la precedente guerra in Afghanistan del 1979).
Ma a partire dal 2008 e, in particolare, nel 2010, lo scenario globale ha cambiato ancora aspetto. La crisi finanziaria ha rivelato la debolezza degli Usa, quando ancora erano in corso le guerre in Afghanistan e in Iraq. Con la presidenza di Barack Obama doveva prendere il via un’ asse strategica cinese-americana che avrebbe reso tutti gli altri stati meno influenti. Ma la Cina, in politica internazionale, preferiva orientarsi per un ordine mondiale multipolare, in cui la propria forza avrebbe potuto contare ancor di più.
La crisi economica globale, e in particolare quella dei paesi dell'Unione europea, hanno reso gli Stati Uniti ancora più deboli, di fronte al colosso economico cinese e alle “tigri” asiatiche, che viaggiano a ritmi di crescita e produttività insostenibili per gli occidentali.
Dal 2011 le due grandi potenze sono in aperta rotta di collisione. Il nemico principale per gli Stati Uniti, dunque, non è più il terrorismo fondamentalista islamico (da qui la recente cattura e l'uccisione di Bin Ladin) ma un nuovo ben più temibile e potente nemico, contro il quale occorre orientare europei, giapponesi dalla propria parte e mantenere neutrali indiani e russi. Inoltre, di recente, la rivolta dei popoli del Maghreb (ma anche della Siria) che chiedono l'abbattimento dei regimi e l'instaurazione di nuove repubbliche democratiche, ha stravolto ancor più il quadro. Se la rivolta dovesse prender piede in Arabia Saudita, gli Usa, tenuto conto delle sue crescenti difficoltà economiche, sarebbero costretti a concentrarsi solo lì, dove esistono i maggiori pozzi petroliferi del mondo, perché il barile di petrolio potrebbe salire oltre i 200 dollari, con conseguenze ancora più imprevedibili e disastrose sull’economia mondiale.
Fonte: “Per la Storia”, B. Mondadori, n. 47, dicembre 2011
Aborto: quando la realtà supera la fantasia
Fonte: Linkiesta
Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Così come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, né dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalità della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, né la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimità costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici.
Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate più di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cioè per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.
Fonte: Linkiesta
All'alba si chiudono gli occhi. Il fenomeno dei suicidi sul lavoro
Fonte: Linkiesta
Ogni tanto qualcuno manca all'appello. Si è tolto la vita. Di solito, nei film, è all'alba che succede. In realtà, l'orario, mai come in questi casi, è un particolare con poco significato. Di recente è accaduto a Lucio Magri. Era stato un intellettuale e un comunista (non quando lo erano in tanti, ma quando era molto meno di moda). Si sarebbe dovuto parlare di lui, come si fa quando muore una personalità che ha avuto un certo ruolo nella società e nella cultura, o anche come si parla di qualsiasi altra persona comune quando viene a mancare. Parlare cioè, nel bene e nel male, di quello che ha fatto in vita. Punto. Nei giorni seguiti al suicidio (assistito) di Magri, invece, ne hanno scritto in tanti, direi in troppi. Da destra a sinistra, dal mondo laico a quello cattolico, tutti strumentalizzando, chi più chi meno, una morte. Roba da far venire il voltastomaco. L'unico motivo per cui, forse, sarebbe stato corretto parlare di un tale personalissimo, e come tale non giudicabile, gesto, poteva essere, semmai, l'immediata approvazione in parlamento di una legge netta, chiara, definitiva, sul fine vita. Per nessun'altra ragione sarebbe stato giusto parlarne nel modo, a dir poco invasivo, spettacolare, roboante, come se ne è parlato. In primis, per rispetto dello stesso Magri, che non avrebbe voluto. Ma soprattutto per un'altra ragione.
Chi ha qualche anno di età, o chi magari ha studiato un po' la storia, o semplicemente ha ascoltato la canzone Primavera di Praga di Francesco Guccini, ricorda e sa chi fu Jan Palach, il patriota cecoslovacco che si bruciò vivo il 19 gennaio 1969 in piazza Venceslao a Praga per protestare contro la repressione sovietica. Quel suicidio fu, oggettivamente, un gesto rivoluzionario, perché assurse ad emblema, a simbolo, andò oltre il significato specifico e personale della singola, quanto peraltro importante, vita umana, ma valse per una moltitudine, fu qualcosa di corale. Come sappiamo la storia, a volte, si ripete. Ecco che allora Mohamed Bouazizi, il 17 dicembre 2010, si dava fuoco in una strada della Tunisia per protestare contro lo stato e la polizia che non gli permettevano di esercitare quello che, a ragione, riteneva un suo diritto: la possibilità di lavorare per guadagnarsi da vivere. Quel gesto di protesta estremo, quel suicidio, come fu nel caso di Palach, è altrettanto rivoluzionario, perché ha innescato una rivolta collettiva, che ha dato il via alla Primavera araba. Dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia partiva quella lotta di liberazione, a livello di massa, che, al grido di "Pane e libertà", si espandeva un po' dappertutto nel Maghreb e poi fino in Siria. Circa un mese fa, Dawa Tsering, un monaco tibetano, si è bruciato vivo nei pressi del monastero di Kardze, invocando la libertà per il suo popolo dall'oppressione cinese. Un gesto che riporta alla mente l'immagine dei monaci buddisti che, durante la guerra del Vietnam, si davano fuoco a Saigon per protestare contro la guerra. Lasciarsi morire con una determinazione e un distacco impressionanti. Azioni apparentemente contro se stessi ma che in realtà sono contro l'ingiustizia sociale e la mancanza di diritti nel mondo intero. Tutti suicidi rivoluzionari, simbolici, come a volere dire che la vita materiale è un nulla, un'inezia, di fronte alle idee, ai pensieri dell'umanità. Nulla da dire, insomma, tanto di cappello.
Ho fatto questi esempi per ricordare solo alcuni suicidi davvero straordinari, che, credo, abbiano fatto epoca e storia in ognuno di noi. Ma l'ho fatto solo, ritornando alle tante, anzi troppe, parole spese per commentare il gesto di Magri, per arrivare al cuore di ciò di cui, in realtà, voglio parlare. E cioè che ci vuole rispetto per tanti altri suicidi non meno gravi, significativi, emblematici. Forse è una cosa che sanno in pochi, ma oggi, in tutto il mondo, e anche nel paese dove viviamo, cioè qui in Italia, nel silenzio generale, nell'indifferenza assoluta di stampa e media di ogni tipo, esiste un malessere di vita molto più comune e generalizzato, legato al mondo del lavoro, che rischia di diventare un vero e proprio detonatore. I sociologi e gli psicologi più avvertiti ne parlano come di una sorta di moderna malattia di massa delle società avanzate. La crisi economica e finanziaria di questi ultimi anni ha reso ancor più preoccupante e grave questa condizione.
Si tratta del suicidio da lavoro. Il "normale" suicidio da lavoro, che purtroppo non fa mai notizia, e di cui non parlano mai i vari opinionisti e osservatori di turno, è un fenomeno incredibilmente in crescita. Coinvolge tutti i ceti sociali e tutte le categorie lavorative, senza distinzioni. Detto così sembra, effettivamente, un'esagerazione. Bene, ecco qualche esempio, per rimanere solo ai casi più recenti e più incredibili, per modalità e motivazioni. Un dirigente della Gifas Electric di Lucca, da poco licenziato, prima uccide due suoi colleghi, perché non era riuscito a raggiungere i traguardi prefissati dai vertici dell'azienda, poi si spara nel bagno della ditta. Un giovane trentenne di Ragusa, appena licenziato da una catena di supermercati con l'accusa di aver cambiato cinque buoni sconto da 1 euro invece di utilizzarli direttamente, si suicida lasciando moglie e un bambino piccolo. Un imprenditore di una ditta di intonaci vicentina, che non riusciva più a pagare gli stipendi ai suoi venti dipendenti e l'amministratrice di una fabbrica di rivestimenti plastici a tecnologia avanzata, che aveva dovuto far ricorso alla cassa integrazione per tutti i suoi lavoratori, si tolgono la vita nell'indifferenza più totale delle rispettive comunità. Alcuni forse ricorderanno il caso dell'infermiera dell'ospedale San Paolo di Napoli, quella che si prelevava il sangue in quantità progressiva, fino a morirne, per protestare contro il mancato pagamento del suo stipendio. Ancor più grave, in questo caso, perché vittima suicida dell'inadempienza di un'istituzione pubblica. E ancora, il magazziniere di un mobilificio di Pordenone suicidatosi dopo aver saputo che non gli avrebbero rinnovato il contratto, o l'operaio della Fincantieri di Castellammare di Stabia licenziato in tronco e uccisosi davanti ai familiari. Molto di recente, un assistente di polizia penitenziaria di Battipaglia, a causa delle pressioni psicologiche inflittegli dai carcerati e dai suoi superiori, ha deciso di farla finita. Infine, ma l'elenco potrebbe continuare a lungo, un laureato con lode in filosofia a Palermo si è gettato dal settimo piano della facoltà di lettere: dopo il dottorato ormai conseguito in filosofia del linguaggio, il tutor gli aveva fatto intendere chiaramente che non aveva futuro dentro l'università perché i posti venivano assegnati solo ed esclusivamente per raccomandazione e non certo per merito. Il giovane ha lasciato un foglio con scritto "La libertà di pensare è anche la libertà di morire".
Ho riportato questi casi di comuni e normalissimi suicidi, se paragonati agli esempi dei nomi famosi, tanto celebrati, per riportare il dibattito, come meriterebbe, ad una maggiore serietà e onestà intellettuale da parte di tutti. Sono forse meno morti queste di quella di Magri? Vada pure che ci sia una scala di importanza per i diversi ambiti e settori della realtà lavorativa, dove conta solo chi ha soldi, chi è famoso, chi ha visibilità, ma che questa esista anche relativamente al togliersi la vita, mi pare un po' troppo. Si potrebbe dire, allora, riportando tutto meschinamente su una scala di confronti e di paragoni, che un suicidio di getto, d'impeto, magari eclatante, tipo dandosi fuoco o sparandosi alla tempia o in bocca, sia più dignitoso o valoroso di un suicidio assistito? Suvvia, non scherziamo. Una volta si diceva che la morte ci fa tutti uguali, ma evidentemente, nella società iper-mediatica non è nemmeno più così. Peraltro questo problema dei suicidi di massa nel mondo del lavoro, messi in atto da parte di gente comune, è un fenomeno globale, nel senso che riguarda tutto il mondo, e deve interrogarci tutti, nessuno escluso. Basti citare il caso della France Telecom, dove, negli ultimi due anni ci sono stati una cinquantina di dipendenti di diverso ordine e grado che si sono tolti la vita, per motivi vari, cioè per depressione, stress, clima lavorativo opprimente, competizione, fatica fisica e psicologica. Ma ce ne sono molti altri, in Usa, in Cina, un po' dappertutto. E c'è di più: la Mazda di Tokio, con una storica sentenza, è stata costretta a risarcire con milioni di euro i familiari di un giovane che si era suicidato per "eccesso di lavoro". Si è giunti ad un punto, così paradossale e allucinante, che, per tutelarsi da questo problema, una filiale della Apple a Shenzhen ha chiesto addirittura ai suoi lavoratori di sottoscrivere un contratto in cui si impegnano a non uccidersi in cambio di un aumento del 30% dello stipendio. Insomma, saremmo alla farsa, se non fosse, purtroppo, una questione drammaticamente seria.
Ecco allora, alla luce di quanto raccontato, non credete, cari opinionisti e tuttologi di turno, che sia più deontologicamente corretto stare in silenzio di fronte a certi drammi o eventualmente parlare del malessere e della condizione drammaticamente complicata di tanti giovani e meno giovani lavoratori in questa società post-moderna, che arrivano fino all'estremo atto di uccidersi, piuttosto che accanirsi a giudicare il motivo per cui Magri decida di essere lui solo, non lo stato, non i giudici, non la chiesa, e neppure la società o i suoi amici e parenti nel salotto di casa, ad avere il diritto di stabilire se continuare o no a vivere in questo mondo?
Fonte: Linkiesta