Obiezione e aborto: storie di un paese incivile
Fonte: Internet
Nell'autunno del 1957 il corpo di una ragazza di diciassette anni veniva adagiato su un tavolo anatomico, nella penombra di una stanza dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Palermo. La giovane, in fin di vita, era stata trasportata dal suo piccolo paese nell'interno siciliano in un disperato tentativo di salvarla, ma era morta lungo la strada provinciale. Intorno al suo corpo, ormai cadavere, i medici cercavano di svelare il segreto di quella morte improvvisa. Unici indizi visibili due grandi cerotti applicati all'altezza dei reni, di quelli usati contro il mal di schiena, e i segni di una serie di ipodermoclisi sugli avambracci, a seguito di un lavaggio del sangue. L'autopsia accertò subito che da tre mesi la giovane era incinta, ma soprattutto che era morta avvelenata, perché nel suo corpo erano state rinvenute tracce di segala, un'erba che nei paesi di campagna veniva usata per interrompere le gravidanze. Solo dopo qualche tempo il caso venne denunciato all'autorità giudiziaria. Le indagini iniziarono a far luce sulla vicenda: la ragazza era fidanzata con un cugino di qualche anno più grande; quando questi capì che la cugina aspettava un bambino, consultò una vecchia "mammana" che, per tremila lire, gli procurò un mazzetto di erbe secche. La giovane, seguendo i consigli del fidanzato, iniziò ad applicare le erbe e a bere l'intruglio, un po' al giorno, ma dopo poco cominciò a star male, a vomitare e ad avvertire atroci dolori al ventre e ai reni. I genitori, ignari di tutto, dopo aver provato una cura casalinga con dei cerotti, si resero conto che il dolore della figlia peggiorava e chiamarono il medico di famiglia. Questi, pensando a una forma di avvelenamento, ma ignorando che la ragazza continuasse a bere il decotto, eseguì il lavaggio del sangue. La decisione del ricovero in ospedale avvenne quando ormai era troppo tardi.
La storia raccontata è solo una delle tante di aborto clandestino procurato degli anni precedenti all'approvazione della legge 194, e delle pochissime rese pubbliche grazie alla prima inchiesta di Milla Pastorino uscita su "Noi donne" nel 1961.
Nel 1978, in ritardo rispetto agli altri paesi europei più avanzati, giunse la legge. A distanza di più di trent'anni, una relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, riconosce una diminuzione del 50% (115 mila casi) rispetto al 1982, anno in cui fu registrato il più alto ricorso all'aborto, con ben 234 mila casi. Qualche giorno dopo l'approvazione di quella discussa legge, gli "indipendenti di sinistra", che avevano contribuito attivamente all'approdo finale, sostennero che il numero troppo elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici si sarebbe potuto trasformare in un "vero e proprio boicottaggio della legge". A loro avviso, andava puntualizzato che non avrebbe potuto fare obiezione di coscienza chi non partecipava direttamente all'aborto e che gli stessi obiettori avrebbero dovuto svolgere tutte le attività che non riguardavano l'intervento abortivo in senso stretto.
Le prime luci del giorno penetrano nella stanza di un ospedale romano dove una giovane donna è in lacrime nel suo letto. Si trova lì ormai da due giorni per subire un intervento abortivo. Siamo nel Duemila, già inoltrato da un bel po'. La vita che porta in grembo da più di venti settimane è affetta da una gravissima malformazione al cervello, tutti gli specialisti consultati le hanno sconsigliato di portare a termine la gravidanza. La procedura di induzione consiste nell’introduzione nell’utero di alcune "candelette" di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla dodicesima settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto. L'attesa della donna si è protratta tantissimo perché il giorno del ricovero erano di turno solo medici obiettori di coscienza. E tutti si sono rifiutati puntualmente di avviare la procedura. Alla donna non è rimasto che piangere ed attendere che iniziasse il turno di un medico non obiettore.
Questo è solo uno dei tantissimi casi di donne, documentato da una inchiesta di Cinzia Sciuto pubblicata su "D" di Repubblica, che, nonostante la legge lo stabilisca, hanno dovuto attendere moltissimo tempo prima di poter effettuare l'interruzione di gravidanza.
Quello dell'aborto sta diventando sempre più, proprio come alcuni avevano previsto nei giorni appena successivi all'approvazione della 194, un vero e proprio percorso ad ostacoli.
I dati parlano chiaro: i ginecologi obiettori di coscienza sono passati dal 58% del 1994 al 69% del 2006 fino al 70,7% del 2009; gli anestesisti obiettori sono passati dal 45% del 2003 al 51,7% del 2009; il personale non medico obiettore è passato dal 38% del 1994 al 44,4% del 2009. Va ricordato che percentuali di obiezione superiori all’80% tra i ginecologi si osservano in Basilicata, in Campania, in Molise e in Sicilia. Non esiste, inoltre, un elenco dei medici non obiettori. Secondo una indagine empirica fatta da un'associazione di volontari, risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sarebbero circa 150, molti dei quali in età avanzata, che presto andranno in pensione.
Di recente, alla luce di questi dati, qualcuno ha ritenuto che l'obiezione di coscienza all'aborto per i medici andrebbe addirittura vietata. E' evidente che oggi, chi decide di fare il ginecologo, sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, e che rientra nei suoi obblighi professionali. Gli ospedali non dovrebbero trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché si tratta di un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194. E' anche vero che non si può obbligare chi obietta, per cui andrebbe semplicemente bilanciato meglio, prevedendo procedure specifiche, il rapporto tra medici obiettori e non.
Nella riflessione di un medico che non ha obiettato, Giovanni Fattorini, si coglie la particolarità di un paese come il nostro, in cui chi fa coraggiosamente il proprio dovere rischia perfino di essere malvisto:
“Siamo stati in pochi, in questi anni, ad occuparcene nel concreto. All'inizio, quasi con titubanza, poco incoraggiati quando non malvisti da entrambe le parti: colpevoli “abortisti” per gli uni, poco difesi, quasi “imbarazzanti” per gli altri. Noi abbiamo continuato a incontrare centinaia di donne, ma anche uomini e bambini, quelli nati e quelli che non sono nati. In molti ci hanno rimesso la carriera, mente altri l'hanno fatta perché schierati “correttamente”. Certificare frettolosamente è facile, ragionare ed entrare in relazione con la singola donna, invece, è molto complicato. Operare nel concreto di ogni situazione, unica ed irripetibile, è difficile. Lo abbiamo fatto senza sentirci eroi, ma medici che hanno a cuore il proprio dovere: quello verso ogni persona e verso la propria comunità civile. Lo abbiamo fatto in condizioni ospedaliere proibitive.”
In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalità. Le donne che richiedono l'applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.
Fonte: Cronache laiche
Aborto: quando la realtà supera la fantasia
Fonte: Linkiesta
Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Così come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, né dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalità della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, né la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimità costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici.
Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate più di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cioè per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.
Fonte: Linkiesta