Obiezione e aborto: storie di un paese incivile
Fonte: Internet
Nell'autunno del 1957 il corpo di una ragazza di diciassette anni veniva adagiato su un tavolo anatomico, nella penombra di una stanza dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Palermo. La giovane, in fin di vita, era stata trasportata dal suo piccolo paese nell'interno siciliano in un disperato tentativo di salvarla, ma era morta lungo la strada provinciale. Intorno al suo corpo, ormai cadavere, i medici cercavano di svelare il segreto di quella morte improvvisa. Unici indizi visibili due grandi cerotti applicati all'altezza dei reni, di quelli usati contro il mal di schiena, e i segni di una serie di ipodermoclisi sugli avambracci, a seguito di un lavaggio del sangue. L'autopsia accertò subito che da tre mesi la giovane era incinta, ma soprattutto che era morta avvelenata, perché nel suo corpo erano state rinvenute tracce di segala, un'erba che nei paesi di campagna veniva usata per interrompere le gravidanze. Solo dopo qualche tempo il caso venne denunciato all'autorità giudiziaria. Le indagini iniziarono a far luce sulla vicenda: la ragazza era fidanzata con un cugino di qualche anno più grande; quando questi capì che la cugina aspettava un bambino, consultò una vecchia "mammana" che, per tremila lire, gli procurò un mazzetto di erbe secche. La giovane, seguendo i consigli del fidanzato, iniziò ad applicare le erbe e a bere l'intruglio, un po' al giorno, ma dopo poco cominciò a star male, a vomitare e ad avvertire atroci dolori al ventre e ai reni. I genitori, ignari di tutto, dopo aver provato una cura casalinga con dei cerotti, si resero conto che il dolore della figlia peggiorava e chiamarono il medico di famiglia. Questi, pensando a una forma di avvelenamento, ma ignorando che la ragazza continuasse a bere il decotto, eseguì il lavaggio del sangue. La decisione del ricovero in ospedale avvenne quando ormai era troppo tardi.
La storia raccontata è solo una delle tante di aborto clandestino procurato degli anni precedenti all'approvazione della legge 194, e delle pochissime rese pubbliche grazie alla prima inchiesta di Milla Pastorino uscita su "Noi donne" nel 1961.
Nel 1978, in ritardo rispetto agli altri paesi europei più avanzati, giunse la legge. A distanza di più di trent'anni, una relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, riconosce una diminuzione del 50% (115 mila casi) rispetto al 1982, anno in cui fu registrato il più alto ricorso all'aborto, con ben 234 mila casi. Qualche giorno dopo l'approvazione di quella discussa legge, gli "indipendenti di sinistra", che avevano contribuito attivamente all'approdo finale, sostennero che il numero troppo elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici si sarebbe potuto trasformare in un "vero e proprio boicottaggio della legge". A loro avviso, andava puntualizzato che non avrebbe potuto fare obiezione di coscienza chi non partecipava direttamente all'aborto e che gli stessi obiettori avrebbero dovuto svolgere tutte le attività che non riguardavano l'intervento abortivo in senso stretto.
Le prime luci del giorno penetrano nella stanza di un ospedale romano dove una giovane donna è in lacrime nel suo letto. Si trova lì ormai da due giorni per subire un intervento abortivo. Siamo nel Duemila, già inoltrato da un bel po'. La vita che porta in grembo da più di venti settimane è affetta da una gravissima malformazione al cervello, tutti gli specialisti consultati le hanno sconsigliato di portare a termine la gravidanza. La procedura di induzione consiste nell’introduzione nell’utero di alcune "candelette" di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla dodicesima settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto. L'attesa della donna si è protratta tantissimo perché il giorno del ricovero erano di turno solo medici obiettori di coscienza. E tutti si sono rifiutati puntualmente di avviare la procedura. Alla donna non è rimasto che piangere ed attendere che iniziasse il turno di un medico non obiettore.
Questo è solo uno dei tantissimi casi di donne, documentato da una inchiesta di Cinzia Sciuto pubblicata su "D" di Repubblica, che, nonostante la legge lo stabilisca, hanno dovuto attendere moltissimo tempo prima di poter effettuare l'interruzione di gravidanza.
Quello dell'aborto sta diventando sempre più, proprio come alcuni avevano previsto nei giorni appena successivi all'approvazione della 194, un vero e proprio percorso ad ostacoli.
I dati parlano chiaro: i ginecologi obiettori di coscienza sono passati dal 58% del 1994 al 69% del 2006 fino al 70,7% del 2009; gli anestesisti obiettori sono passati dal 45% del 2003 al 51,7% del 2009; il personale non medico obiettore è passato dal 38% del 1994 al 44,4% del 2009. Va ricordato che percentuali di obiezione superiori all’80% tra i ginecologi si osservano in Basilicata, in Campania, in Molise e in Sicilia. Non esiste, inoltre, un elenco dei medici non obiettori. Secondo una indagine empirica fatta da un'associazione di volontari, risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sarebbero circa 150, molti dei quali in età avanzata, che presto andranno in pensione.
Di recente, alla luce di questi dati, qualcuno ha ritenuto che l'obiezione di coscienza all'aborto per i medici andrebbe addirittura vietata. E' evidente che oggi, chi decide di fare il ginecologo, sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, e che rientra nei suoi obblighi professionali. Gli ospedali non dovrebbero trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché si tratta di un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194. E' anche vero che non si può obbligare chi obietta, per cui andrebbe semplicemente bilanciato meglio, prevedendo procedure specifiche, il rapporto tra medici obiettori e non.
Nella riflessione di un medico che non ha obiettato, Giovanni Fattorini, si coglie la particolarità di un paese come il nostro, in cui chi fa coraggiosamente il proprio dovere rischia perfino di essere malvisto:
“Siamo stati in pochi, in questi anni, ad occuparcene nel concreto. All'inizio, quasi con titubanza, poco incoraggiati quando non malvisti da entrambe le parti: colpevoli “abortisti” per gli uni, poco difesi, quasi “imbarazzanti” per gli altri. Noi abbiamo continuato a incontrare centinaia di donne, ma anche uomini e bambini, quelli nati e quelli che non sono nati. In molti ci hanno rimesso la carriera, mente altri l'hanno fatta perché schierati “correttamente”. Certificare frettolosamente è facile, ragionare ed entrare in relazione con la singola donna, invece, è molto complicato. Operare nel concreto di ogni situazione, unica ed irripetibile, è difficile. Lo abbiamo fatto senza sentirci eroi, ma medici che hanno a cuore il proprio dovere: quello verso ogni persona e verso la propria comunità civile. Lo abbiamo fatto in condizioni ospedaliere proibitive.”
In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalità. Le donne che richiedono l'applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.
Fonte: Cronache laiche
Aborto: quando la realtà supera la fantasia
Fonte: Linkiesta
Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Così come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, né dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalità della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, né la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimità costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici.
Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate più di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cioè per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.
Fonte: Linkiesta
Il consultorio ovvero un ferito ai margini della strada
Fonte: Linkiesta
In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è il problema dei tanti bambini e ragazzi destinati a non diventare del tutto uomini o donne, cioè dei tanti bambini nati malformati, sordomuti, ciechi, per colpa di una mancata assistenza pre e post natale alla madre, o dei bambini cosiddetti "istituzionalizzati", cioè privati di quell'affetto necessario alla loro crescita, o ancora dei bambini violentati, non scolarizzati o avviati alla delinquenza e preda delle mafie. Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi, di fatto, "abortiti" per colpa della società e dello stato. A questo proposito, dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.
Il consultorio familiare venne istituito nel 1975 (anche se le prime proposte risalivano al lontano 1949), con la legge 405, grazie al movimento delle donne che lo aveva fortemente voluto, e alla convergenza dei partiti di allora, cattolico, socialista e comunista. Si trattava di un presidio pubblico con la finalità di assicurare informazione, consulenza e assistenza psicologica, sanitaria e sociale su argomenti fondamentali per le coppie e per le famiglie, cioè maternità, paternità, procreazione responsabile e salute sessuale. Con la legge 194 del 1978, poi, le competenze del consultorio inclusero anche l'assistenza all'aborto.
Fino a quel momento, gli unici centri di sostegno per queste problematiche regolarmente funzionanti erano stati solo quelli privati, con forti connotazioni religiose. I primi consultori prematrimoniali esistenti in Italia, infatti, erano sorti per iniziativa di alcuni sacerdoti o laici d'ispirazione cattolica, riuniti nel Ucipem (Unione Consultori Italiani Matrimoniali e Prematrimoniali), a cui erano poi seguiti consultori di gruppi volontari, di indirizzo politico diverso, come quelli dell'Aied (Associazione internazionale Educazione Demografica), del Cemp (Centro per l'Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale), e del Ced (Centro Educazione Demografica), che tendevano, per lo più, a favorire la conoscenza dei mezzi anticoncezionali. Fino a quel momento, le funzioni dei nascenti consultori, soprattutto dopo la soppressione dell'Onmi (Opera Nazionale per protezione Maternità e Infanzia) e dei servizi gestiti dal ministero della Giustizia, erano state delegate alle Regioni, anch'esse peraltro di recente nascita. La difficoltà organizzativa dei consultori si affiancava all'insufficienza delle istituzioni sanitarie del paese e spesso anche alla mancanza di un'adeguata specializzazione dei medici preposti. Sia l'assistenza alla coppia e alla famiglia, quanto le tecniche psicologiche e mediche finalizzate al controllo delle nascite, non potevano essere svolte con coerenza perché demandate a norme legislative regionali diverse.
La legge che faceva nascere il consultorio familiare pubblico metteva di fronte la capacità dello stato di gestire un problema di tale portata e l'attaccamento della Chiesa alla gestione delle problematiche relative alla famiglia, secondo la propria reiterata tradizione secolare. Si trattava, dunque, di un primo importante banco di prova e di un'occasione preziosa per cominciare un discorso di crescita, non solo a livello di organizzazione sociale, ma anche a livello dei rapporti tra società religiosa e società civile.
Quando nacque, il consultorio scontava subito tutta l'inadeguatezza della legge e delle strutture organizzative italiane: finì per essere gestito dai rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, figure, con tutta evidenza, troppo burocratizzate per poter assolvere alla loro funzione specifica, a scapito dunque del diretto coinvolgimento della società, cioè a dire delle famiglie, delle coppie e in particolare della donna. A questi meccanismi si provò ad affiancare, inizialmente, il volontariato, con la presenza, nel consultorio di donne che informavano e discutevano le varie problematiche relative alla vita sessuale della coppia. Ma una soluzione di questo tipo, se pure utile, non poteva che ritenersi provvisoria e monca. Permanevano, inoltre, enormi differenze tra le diverse regioni. In sostanza, si disse molto all'italiana, i consultori sarebbero diventati ciò che la politica e la società li avrebbero fatti diventare.
Vediamo allora, dopo 35 anni, cosa sono diventati. Dalla metà degli anni ottanta, il numero dei consultori familiari pubblici era continuato a crescere, nonostante la mancanza di un miglioramento della funzionalità e del livello del servizio offerto. Nel 1979, cioè un anno dopo l'approvazione della legge sull'aborto, erano circa 600 quelli pubblici e poco più di 200 quelli privati; nel 1981 si era passati ad un rapporto di 1456 contro 167. Nel 2006 il numero dei consultori notificato era pari a 2188 per quelli pubblici, mentre si erano ancora ridotti, a 103, quelli privati. Ma veniamo all'oggi.
Di recente il ministero della Salute ha pubblicato il primo rapporto nazionale sui consultori familiari pubblici presenti in Italia. La situazione è a dir poco preoccupante. Solo in poche regioni le Asl prevedono un capitolo di bilancio ad essi adibiti, ma più in generale, non hanno alcun interesse a valorizzare i consultori, come dimostra il mancato adeguamento delle risorse e degli organici. Il numero dei consultori è passato dai 2097 del 2007 ai 1911 del 2009, con un consultorio ogni 31 mila abitanti circa, contro un valore legale stabilito per legge di 1 ogni 20 mila in area urbana e 1 ogni 10 mila in area rurale. Mancherebbero all'appello, dunque, almeno 1000 consultori. Inoltre, la legge prevede un organico multidisciplinare, con figure professionali come ginecologo, pediatra, psicologo, ostetrica, assistente sociale, sanitario, consulente legale, infermieri. Nel rapporto si legge invece che solo nel 4% dei casi è coperto l'organico, in particolare l'andrologo è assente in tutti in consultori pubblici nazionali (ad eccezione che in Valle d'Aosta). La legge prevede che il consultorio disponga di locali per l'accoglienza utenti, la segreteria, la consulenza psicologica e terapeutica, le visite ginecologiche e pediatriche, le riunioni, l'archivio, mentre la realtà dice che il 15% dei consultori ha solo 1-2 stanze, ben 440 consultori non hanno una stanza per gli incontri di gruppo, ed addirittura 634 non possono inviare e ricevere mail. Inoltre il 9% dei consultori è aperto la mattina solo uno o due giorni a settimana e il 7% non risulta mai aperto la mattina, mentre il 14% non è mai aperto neppure il pomeriggio, mentre il sabato mattina è chiuso l'86% dei consultori italiani. Quanto ai contenuti, l'assistenza alla gravidanza è praticamente inesistente mentre il percorso prematriomoniale è fornito solo in tre regioni.
Per completare il quadro è bene ricordare che i consultori matrimoniali familiari fondati sul cosiddetto sul "counselling" (cioè sulla consulenza come relazione di aiuto tra consulente e coppia) risalgono alla fine degli anni Venti negli Stati Uniti, ed hanno avuto, da allora, un considerevole sviluppo in numerosi stati europei, in particolare in Inghilterra (1946), nei paesi scandinavi (1952), poi in altre nazione come Austria, Irlanda, Malta, Francia, Svizzera, Germania etc. Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta i consultori hanno poi avuto ampia diffusione e riconoscimento in quasi tutti gli stati dell'Europa occidentale e infine, anche da noi.
E' evidente che, oltre ad essere arrivati ancora una volta per ultimi a questo servizio di base per la cultura della famiglia e delle coppie, ci troviamo ancora oggi ad un livello di funzionalità e di fruibilità del servizio assolutamente inadeguato, se paragonato a quelli degli altri paesi. Non ci stancheremo mai di ricordare e di ripetere, dunque, che è su questi argomenti che si misura il grado di civiltà di uno stato. Forse, al di là delle fumose affermazioni di principio, è il caso che il governo tecnico di recente formazione inizi proprio col mettere mano a inadempienze e inadeguatezze come questa per meritarsi la nostra stima e la nostra simpatia.
Fonte: Linkiesta
Unioni civili e il vizio italiano di stare fuori dal mondo
Fonte: Linkiesta
Il riconoscimento giuridico delle unioni civili, e in particolare di quelle omosessuali, si è ormai esteso in quasi tutta l'Europa. Gradualmente ma senza particolari difficoltà, con una sempre crescente accettazione sociale da parte della popolazione, almeno della maggioranza, e con una attribuzione di diritti economici e sociali sempre maggiore, fino anche alla possibilità, in alcuni casi, di adottare bambini da parte delle coppie non sposate.
Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Austria, Spagna, perfino, più di recente, Ungheria, Portogallo, Irlanda, Islanda e Sud Africa sono paesi che hanno affrontato e risolto la questione, talvolta pacatamente, altre volte con scontri e polemiche, come è anche giusto che sia, nei rispettivi parlamenti. Ma non ci sono solo i singoli stati sovrani. Ci sono state anche deliberazioni più generali: nel 2003 una storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarava incostituzionali le legislazioni contro gli omosessuali, poi la stessa cosa stabiliva la Corte costituzionale tedesca; infine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vietava qualsiasi discriminazione fondata, oltre che sul sesso, la razza, la religione, la lingua, le opinioni, il patrimonio, l'handicap, anche le caratteristiche genetiche, appunto, cioè le tendenze sessuali del singolo cittadino europeo.
In un simile contesto europeo e internazionale, va da sé che il parlamento italiano sia del tutto inadempiente, per non dire latitante, su una questione di siffatte implicazioni civili, morali, teoriche e pratiche, che non coinvolgono, come qualcuno potrebbe pensare, una sparuta minoranza degli italiani. Bastano due semplici dati per dare l'idea dell'entità della questione: oggi sono circa 650 mila nel complesso i conviventi effettivi; il numero degli omosessuali dichiarati si attesterebbe intorno al 5% della popolazione nazionale. Non esistono finora dati ufficiali; l'Istat ha previsto un primo censimento per il prossimo anno, il che la dice lunga sulla sottovalutazione dell'argomento qui da noi.
Si può fare solo un breve resoconto, alquanto striminzito peraltro, e non certo per colpa degli osservatori, ma per oggettive ragioni di carenza propositiva da parte delle forze politiche italiane.
I primi disegni di legge furono presentati nella metà degli anni Ottanta, sollecitati dall'associazione per i diritti degli omosessuali (Arcigay), e appoggiati, peraltro timidamente, solo da socialisti, radicali e indipendenti di sinistra. Negli anni Novanta le proposte di aggiornamento alle legislazioni più avanzate sono aumentate, sulla spinta delle richieste del parlamento europeo, ed hanno avuto una maggiore ricezione anche presso altre forze politiche più moderate, con parziali quanto velate aperture, in realtà esclusivamente teoriche, sia a sinistra che destra. Prima alcune città pilota (come Pisa), poi intere regioni (Toscana, Umbria, Emilia-Romagna), con le modifiche dei loro statuti, si sono dichiarate favorevoli ad una legge sulle unioni civili, istituendo i registri delle convivenze. Negli anni Duemila, durante il secondo governo Prodi, fu discusso alla Camera un disegno di legge presentato da Grillini che si richiamava ai Pacs francesi, poi si parlò di un'ipotesi di legge denominata Dico (Diritti e dove delle persone stabilmente conviventi), poi Cus (Contratto di unione solidale), infine Didore (Diritti e doveri di reciprocità dei conviventi). Sono cambiati i nomi, ma non la sostanza: tutte le proposte sono miseramente fallite, insabbiate da più fronti congiunti.
Nel 2010, però, la Corte costituzionale italiana ha stabilito la rilevanza appunto “costituzionale” delle unioni civili e omosessuali, cioè a dire la possibilità stessa del riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri di questo tipo di convivenze. Ora, stabilito questo principio giuridico, è evidente che per adeguare la costituzione occorre l'azione del legislatore, quindi del parlamento. Ma non si tratta certo di attuare una revisione costituzionale su un tema in Italia così controverso, per la quale occorrerebbero grandi convergenze politiche, assolutamente improbabili allo stato attuale, quanto di formalizzare la distinzione, già sancita peraltro dalla Carta dell'Unione, tra “diritto di sposarsi” e “diritto di costituire una famiglia”, anche tra persone dello stesso sesso.
Allo stato attuale, almeno in Italia, sono state spese tante belle parole, ma sono stati fatti davvero pochi fatti. Ad oggi l’ordinamento giuridico italiano non riconosce a chi convive senza essersi sposato, doveri di mantenimento, né di assistenza, né tanto meno, diritti. In mancanza di una legislazione generale coerente, nel corso del tempo, sono state riconosciute alcune eccezioni: succedere nel contratto di locazione, in caso di morte del convivente; in presenza di figli naturali, quando cessa la convivenza, ottenere dalle assicurazioni un indennizzo, come spetterebbe ad un coniuge; ricevere la pensione di guerra. Esiste, certo, la possibilità di stipulare con il convivente un accordo scritto privatamente, possibilmente redatto da un avvocato o da un notaio, in cui si indicano la ripartizione delle spese e la suddivisione dei beni in caso di rottura. Nient'altro. Roba da Medioevo.
In Italia però, si sa, c'è un potere, non direttamente riconducibile a un preciso partito o a un governo specifico, ma piuttosto ad una vera e propria istituzione, che, nel corso della storia, ha sempre condizionato, influenzato, a volte ridimensionato e addirittura bloccato certe leggi: si tratta, come si è ben capito, della Chiesa. Nel legittimo esercizio del suo magistero, la Chiesa si è sempre opposta, finora, salvo rare eccezioni, e come dimostrano i documenti della Congregazione per la dottrina della fede, a questo adeguamento della legislazione con l'evoluzione del quadro internazionale.
È solo uno dei tanti intricati capitoli dei rapporti tra stato e chiesa in Italia: un affare di coscienza, per una libertà religiosa in Italia, aveva scritto Alessandro Galante Garrone in un libro; Arturo Carlo Jemolo li aveva sintetizzati in una semplice frase “Gli anni della Repubblica non hanno visto, in materia dei rapporti tra Stato e Chiesa, nulla di sensazionale, nulla che ricordi le acri lotte del Risorgimento”. Questo giudizio, scritto nel 1965, può essere tranquillamente sottoscritto oggi.
A questo proposito, per rimanere nell'ambito del nostro argomento, può essere interessante fare un salto indietro nella nostra storia e vedere qual è stata la sua posizione in occasione della vicenda che ha portato, prima con la legge del 1970, poi con il referendum abrogativo, a far diventare legge anche in Italia lo scioglimento del matrimonio. Negli anni Sessanta nonostante il tanto esaltato miracolo economico, i costumi della società non avevano subito grandi trasformazioni dai tempi del fascismo. Erano ancora fondati sul ruolo centrale della famiglia tradizionale, dove i rapporti tra i coniugi erano finalizzati solo alla nascita della prole e a garantire la stabilità dell'ordine sociale.
Dall'entrata in vigore della Costituzione, ben poco era cambiato nel diritto di famiglia italiano, paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile, fondato su principi retrogradi come quelli della proprietà, dell'eredità, dell'autorità, del possesso, del privilegio del sangue, con l'esclusione dei figli generati fuori dal matrimonio e il non riconoscimento, ovviamente, delle coppie di fatto. Se si prende in considerazione, in quegli anni, non la situazione di una coppia sposata che volesse divorziare, ma, ad esempio, quella di giovane coppia di conviventi (esistevano anche a quei tempi), si capisce bene come, anche allora, la realtà fosse ben difficile e complicata. Conviventi e figli illegittimi erano sprovvisti di qualsiasi stato giuridico.
La Chiesa ha sempre esercitato la sua pressione sulle famiglie e sulla società richiamandole ai valori tradizionali e cristiani, a vari livelli, a partire dall'educazione dei bambini negli istituti religiosi, fino a quella delle coppie. La storia è nota: con la secolarizzazione e l'apertura ai modelli delle legislazioni europee, grazie all'apporto prima dei radicali e dei gruppi della società civile, come le femministe, poi con la mediazione delle sinistre di espressione laica (in particolare dei socialisti) e cattolica, in parlamento, si arrivò alla fatidica legge Fortuna-Baslini. Quella proposta si appellava a tutte le legislazioni straniere, ad esclusione dei soli casi arretrati di Spagna e Irlanda. Qualcosa di simile all'oggi.
Bene. Cosa c'entra la possibilità di divorzio con le unioni di fatto, chiederete voi. C'entra eccome. L'anello di congiunzione è presto detto: non tutto il mondo cattolico, anzi, si potrebbe dire, non tutta la chiesa, aveva la stessa monolitica posizione di chiusura nei confronti del divorzio. E qui ci viene in aiuto un elemento importante e condizionante, cioè la posizione espressa dai gesuiti italiani, che rappresentano una espressione, peraltro importante e autorevole, della chiesa stessa. Non ci furono dunque solo i gruppi del dissenso religioso, le comunità di base, l'associazionismo critico, ma storicamente, fu anche un'ala interna alla chiesa ufficiale, a manifestare delle aperture sull'argomento. Per quanto riguarda il precedente storico, basta ricordare un importante articolo di Aggiornamenti sociali uscito nel 1966, cioè 4 anni prima dell'approdo alla legge sul divorzio, dove i padri gesuiti abbozzavano una proposta ai laici fondata, in sostanza, sulla garanzia di parità dei coniugi e sulla presa in considerazione delle “unioni di fatto” (cito letteralmente) mediante il regolamento giuridico.
Se ci spostiamo alla questione delle unioni omosessuali, nel 2008, ancora una volta, la stessa rivista dei gesuiti ha invitato il mondo cattolico a ricordarsi che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell'assunzione pubblica della cura e della promozione dell'altro». Inoltre i gesuiti ha sottolineato, e mi pare questo un particolare molto significativo, che, riconosciuto il valore sociale della convivenza, sarebbe «contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso».
È proprio vero, dunque, che la storia, molto spesso, si ripete. Anche allora, per la legislazione sul divorzio, noi in Italia eravamo indietro rispetto a tutti gli altri paesi, proprio come oggi. Anche allora i gesuiti lanciarono aperture significative. C'è da ricordare, peraltro, che la legge sul divorzio, statistiche alla mano, non diede vita, almeno nell'immediato (e questo dimostra che i fattori di sfaldamento della famiglia tradizionale furono altri e non certo la singola legge) a quello stravolgimento dei costumi che alcuni avevano ventilato: si pensi che i divorzi passarono dal 5,3% del 1973 al 3,1% del 1975, fino ad appena il 3,3% del 1978.
Oggi le coppie di fatto sono in un trend di aumento esponenziale, secondo l'Istat: nel 2010, ben il 36% del totale (erano il 27% nel 2001, il 17% nel 1991, appena l'1,6% nel 1961) e ciò prescinde chiaramente da una legge sulle unioni civili che ancora non c'è. Questo dimostra che, oggi più che mai, in una società globalizzata, le chiusure a riccio sono inutili e non servono ad evitare cambiamenti nei costumi e negli atteggiamenti di vita della popolazione. Servono solo, purtroppo, ad allontanare il nostro paese dal novero delle nazioni civili che volgono il loro sguardo attento alla condizione e ai diritti di ogni persona umana in quanto tale, a prescindere da trattative politiche, favori a istituzioni, ammiccamenti a gruppi di interesse o di potere. A prescindere, insomma, da tutto il resto.
Fonte: Linkiesta
Concordato tra Stato e Chiesa: privilegi di ieri e di oggi
Fonte: Linkiesta
Dei presunti privilegi che la Chiesa godrebbe nei confronti dello Stato si sente spesso parlare. È un po' come una specie di leggenda metropolitana, tramandata di bocca in bocca da molta gente. Soprattutto in questi difficili mesi di crisi economica, in cui il governo chiede sacrifici a tutti, l'argomento dei privilegi ecclesiastici è tornato di moda e infiamma gli animi dei cittadini, non più dei soliti anticlericali, ma anche quelli di osservatori abitualmente ben più pacati.
Cosa siano i Patti Lateranensi è molto probabile che, anche per sentito dire, la maggior parte degli Italiani lo sappia. In cosa consistano realmente, a quali rapporti e relazioni tra Stato e Chiesa diano vita, invece, sono quesiti pressoché sconosciuti ai più, noti solo a qualche vecchio studioso e a pochi, interessati, addetti ai lavori. Per provare a fare un discorso aperto, a tutto tondo, non ideologico, sul Concordato, occorre rifarsi, come quasi sempre accade, alla storia e fornire dati comparativi. Possibilmente, partire dai precedenti, cioè dal considerare quale fosse la situazione che caratterizzava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa nell'Ottocento, prima dell'Unità d'Italia. Proviamo a farlo sinteticamente.
Ancora nell'Ottocento, la Chiesa provvedeva ai propri “bisogni” con un sistema di autofinanziamento, avendo un diritto di decima. Essa fruiva di donazioni, lasciti, ed era ricca al punto da non necessitare di aiuti da parte dello Stato. La sua presenza nella società era enorme: basti pensare anche solo al fatto che i servizi sociali, di assistenza e di istruzione, non erano forniti dai “piccoli” stati italiani ma erano gestiti dalla “grande” Chiesa.
Con l'Unità d'Italia, lo Stato italiano prende in mano tutti questi servizi, ma con essi anche le rendite in base alle quali la Chiesa esercitava quei compiti. Questo meccanismo mise la Chiesa in condizioni di maggiore difficoltà sotto il profilo patrimoniale. Le parti si erano dunque invertite: se prima lo Stato si serviva della Chiesa per supplire alle proprie carenze, da quel momento in poi fu la Chiesa a doversi appoggiare alle strutture pubbliche per poter esercitare, grazie al suo aiuto, alcuni dei suoi precedenti compiti. Ci furono confische, espropri, passaggi di beni e denaro a favore dello Stato.
Si giunse dunque al Concordato, con questo retroterra che non va dimenticato. Mussolini, firmando il famoso accordo nel 1929, davanti al cardinal Gasparri in rappresentanza di Pio XI, garantiva alla Chiesa la libertà e l'indipendenza del suo governo spirituale, stabiliva che lo Stato pagasse una enorme somma di denaro come risarcimento, concedendole una zona del suo territorio, il Vaticano, ammetteva il matrimonio cattolico e l'insegnamento religioso nelle scuole, riconoscendo giuridicamente gli ordini religiosi e concedendo alcuni privilegi ai membri del clero. In particolare, confermava la congrua, cioè che lo Stato si accollasse una parte dello stipendio dei sacerdoti, per giungere, infine, a concedere un vero e proprio stipendio statale a quei preti che svolgessero funzioni pubbliche, come nell'esercito o nelle scuole (ancora oggi, peraltro, sono scelti dalle diocesi ma assunti e retribuiti dalle regioni o dallo Stato).
Dopo la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, tutti i partiti furono sostanzialmente d'accordo nell'evitare di chiedere la denuncia degli accordi lateranensi. Per i leader dei principali partiti bastò inserire in un articolo della Costituzione, il famigerato articolo 7, un riferimento preciso alla continuità sulla questione del Concordato. L'impressione, ormai consolidata dalla storiografia, è che la Dc, poco interessata a questioni culturali e religiose, dovesse, in qualche modo, restituire il favore dell'appoggio fornito dalla Chiesa alle elezioni, mentre i comunisti, per mantenere la pace religiosa nel paese, non avessero alcuna voglia di imboccare la via dell'anticlericalismo. I socialisti affermarono addirittura che anche la più piccola delle riforme agrarie interessasse loro più della revisione del Concordato. All'assemblea costituente, infatti, solo una sparuta minoranza, qualche ex azionista e qualche cristiano-sociale, aveva osato protestare. Nient'altro.
Il problema in sostanza venne accantonato per più di un decennio, fino a quando non fu riproposto dalla rivista il Mondo (quella di Ernesto Rossi, per intenderci) in occasione di un convegno, organizzato nell'aprile 1957. In quell'occasione fu lanciata la prima proposta pubblica di abrogazione del Concordato, suscitando ovviamente forti proteste nel mondo cattolico.
La questione veniva nuovamente messa a tacere, per essere ripresa negli anni Sessanta, dal nascente movimento dei radicali di Pannella. Il vento della secolarizzazione iniziava a spirare e preannunciava le storiche battaglie sui diritti civili. Ne era passata, d'altronde, di acqua sotto i ponti e da “oltre Tevere”, qualcuno “in alto", aveva iniziato a capire che con lo Stato era forse giunto il momento di trattare.
Sondaggi e opinioni a parte, le forze politiche, ancora negli anni Settanta, non erano affatto convinte di volersi impelagare in una sorta di battaglia campale contro la Chiesa e preferivano impegnare il parlamento a costituire una commissione di studio sul problema e il governo a intraprendere contatti diretti con la Santa Sede. Era, con tutta evidenza, un modo per rinviare sine die il problema.
Solo la sinistra socialista (con Basso), i repubblicani (con Spadolini) e gli indipendenti di sinistra (con Parri) continuavano a proporre una revisione a tappeto del Concordato, sottolineando gli aspetti cruciali della questione: le “finte innovazioni”, evidenti ad esempio nella falsa rinuncia della Chiesa alla definizione della religione cattolica come “unica religione di Stato”, elemento, per la verità, decaduto in Italia fin dal 1948; l'accettazione da parte dello Stato dell'autorità della Chiesa sulla attribuzione automatica dei finanziamenti pubblici e anche sulla sua scelta di insegnanti e docenti nelle scuole e università private cattoliche; i privilegi per enti e beni ecclesiastici.
Era quello un copione che più volte, nel corso degli anni, si riproponeva all'attenzione degli Italiani. Grandi questioni di principio, ma poi, nei fatti, nessuna modifica di sostanza.
Il Concordato era infatti uno degli esempi più classici di come la Chiesa, arroccata a difesa delle sue posizioni di privilegio, iniziasse a perdere terreno e consenso tra la gente comune, come avrebbero dimostrato, nei decenni successivi, il calo inesorabile dei fedeli praticanti e delle stesse “vocazioni”. Ed era anche un terreno che, se avesse visto la compattezza e la giusta convinzione da parte del fronte laico, avrebbe potuto riservare spiacevoli sorprese alle gerarchie ecclesiastiche. Ma la vicenda prese, come vedremo, una ben diversa piega.
Il punto era che democristiani e comunisti, cioè a dire la maggioranza dei seggi in parlamento, non erano d'accordo a inimicarsi la Chiesa con forti scelte di laicità che intaccassero non tanto i principi ideali, quanto i suoi stessi interessi economici e finanziari. Per dare un'idea di quali fossero questi interessi, basti riportare qualche breve passo tratto da due “storici” articoli, uno pubblicato su il Mondo (dicembre 1976) e l'altro sul Corriere della Sera (gennaio 1977):
“Solo a Roma è stato calcolato che le proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici ammontano a oltre 80 milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della città. In Italia, secondo un'approssimazione per difetto, superano i 400 mila ettari... Gli enti ecclesiastici godono di un regime fiscale di favore che comprende non solo la proprietà ma anche le attività costruttive e di esercizio. Gli acquisti sono esenti dalle imposte e dalle tasse di registro, successione e di ipoteca, da quelle sull'asse ereditario e di donazione, dalla tassa di riscossione governativa per l'accettazione di liberalità o per atti a titolo oneroso. Le proprietà sono esenti da contributi di miglioria, dalle imposte sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili... La Chiesa cattolica riceve ogni anno dallo Stato una serie di finanziamenti diretti. Somme ragguardevoli sono iscritte nei bilanci dei vari ministeri, soprattutto dell'interno e del tesoro. Il bilancio del ministero dell'interno a favore del culto nel 1976 è stato di 39 miliardi di lire. L'anno prossimo è prevista una cifra pari a 46 miliardi”.
Fu chiesta la costituzione, dagli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, di diverse commissioni di studio di politici, specialisti, studiosi e furono coinvolte delegazioni della Santa Sede, ma ogni volta i punti cruciali rimanevano inalterati. La solita “grande novità” di principio, vecchia ormai di decenni, relativa cioè alla religione cattolica non più religione di Stato. Il solito rinvio sulle questioni più scottanti. In poche parole, la famosa “bozza di revisione” compiva, da anni, una specie di percorso carsico: per la maggior parte del tempo segreta, invisibile, sotterranea, riemergeva improvvisamente di quando in quando, prendeva una boccata d'aria, non sempre in parlamento, ma passata sottobanco alla stampa, da guardarsi di sghimbescio, per poi far perdere nuovamente le proprie tracce. La Chiesa non era intenzionata, in alcun modo, a cedere i suoi privilegi. Inoltre, col passare del tempo, fu sempre più esautorato il ruolo del parlamento sulla questione, limitando la possibilità di critica dei singoli deputati, e demandando tutto agli accordi diretti tra governo e Vaticano.
Questo almeno fino al 1984, quando a Villa Madama il “decisionista” Craxi e monsignor Casaroli in rappresentanza di Giovanni Paolo II, firmavano un accordo di modifica del Concordato lateranense, secondo la stessa prassi usata tra Stato e Chiesa ai tempi di Mussolini, cioè senza alcuna possibilità di intervento da parte del parlamento. Veniva così varato solennemente un nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, votato da tutto l'arco costituzionale (con la sola astensione dei liberali e il voto contrario di radicali, Pdup e Sinistra indipendente).
Più che un evento storico di eccezionale rilevanza, come venne subito dipinto sulla stampa, il nuovo Concordato fu un'occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche da parte del governo. Uno dei tanti compromessi politici della storia d'Italia, probabilmente il più grande, quanto a forze in campo coinvolte e a interessi finanziari, fatto, come tante altre volte, sulla testa del cittadino.
Il nuovo Concordato fondava un regime che non era né quello della separazione tra Stato e Chiesa, né quello dello stato confessionale. Cosa si stabiliva? In teoria, grandi affermazioni di principio: si aboliva l’ormai anacronistico (oltre che anti-costituzionale) riferimento al cattolicesimo come sola religione ufficiale; si assicurava allo Stato una propria autonomia nelle questioni di diritto familiare, l'insegnamento della religione nelle scuole diventava facoltativo e non più obbligatorio; si aboliva la congrua per i sacerdoti.
Nei fatti però, la libertà della Chiesa faceva un indubbio passo avanti, quella dello Stato rimaneva sostanzialmente quale era, mentre le sue finanze, con buona probabilità, diminuivano. Proviamo a spiegare brevemente perché.
Nelle scuole l'insegnamento della religione veniva impartito da insegnanti nominati dall'autorità ecclesiastica, ma pagati dallo Stato. Era introdotta l'ora di religione nelle scuole materne. Si stabiliva che le scuole private cattoliche avessero un trattamento scolastico uguale a quelle statali, senza però precisare i loro obblighi nei confronti dello Stato. Si prevedeva il finanziamento da parte dei cittadini, aprendo la strada al sistema dell'8 per mille del gettito Irpef (con il meccanismo della donazione automatica alla Chiesa cattolica per il cittadino che non avesse espresso alcuna scelta). Era sancito l'obbligo per lo Stato di finanziare le attività, il personale e il funzionamento della Chiesa cattolica, con le sue decina di migliaia di istituti religiosi, parrocchie ed enti di varia natura, che avessero dichiarato di svolgere un “servizio sociale”. Veniva garantita l'esenzione dall'Iva e dall'imposta su terreni e fabbricati e sulle successioni. Erano accollati allo Stato, infine, gli oneri per la costruzione e la manutenzione di edifici di culto, per la tutela del patrimonio artistico gestito da enti e istituzioni ecclesiastiche.
Sul momento tutti parlarono di evento epocale, di accordi che avrebbero giovato sia alla Chiesa che allo Stato e dipinsero Craxi e gli artefici di quel trattato, tra cui anche l'attuale ministro Tremonti, come una sorta di eroi nazionali.
Sono passati 27 anni dal quell'evento storico, abbastanza per valutarne gli effetti concreti.
Nel 2007 l'Unione Europea chiedeva spiegazioni all'Italia sui troppi privilegi della Chiesa in materia fiscale, frutto del nuovo Concordato, sollevando un polverone tra le file cattoliche e religiose. Già durante gli anni precedenti, con i primi governi Berlusconi, e poi in maniera propulsiva negli anni a seguire, sono stati introdotti altri provvedimenti che si potrebbero definire “di favore” nei confronti della Chiesa: l'esenzione dall'Ici (le prime esenzioni furono peraltro inaugurate nel 1992 dal governo Amato), per una somma compresa fra i 400 e i 600 milioni di euro; quella dall'Ires (portata al 50% per gli enti assistenziali), con un risparmio annuo di circa 900 milioni; i finanziamenti alle università private e all'editoria cattoliche; le convenzioni privilegiate con istituti ed enti nel settore della sanità. E altro ancora.
Probabilmente le indicazioni dell'Ue avrebbero dovuto essere tenute in conto anche da altri governi, se è vero che oggi la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico.
Se paragoniamo i dati forniti negli articoli del 1976 e quelli di oggi, ci rendiamo conto di quanto il nuovo Concordato abbia inciso, ma non certo a favore dello Stato.
Secondo i più recenti calcoli, nel complesso, un gettito di circa 3,5 miliardi di euro all'anno, se si considerano i finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e il mancato gettito fiscale.
Da dieci anni a questa parte, infatti, solo con l'8 per mille ammonta a circa 1 miliardo di euro l'anno e nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni. Non si dimentichi il particolare che questa cifra affluisce nella casse della Chiesa solo sulla base di una apparente volontà maggioritaria dei cittadini italiani: solo il 44% dei contribuenti indica a chi attribuirlo e di questi solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Tuttavia, grazie al meccanismo risalente al nuovo Concordato, le quote dell'8 per mille non espresse, cioè quelle di coloro che non hanno fatto alcuna scelta, non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartite tra le confessioni religiose, in base alle percentuali ottenute. In questo modo la Chiesa cattolica percepisce l'85% dei contributi.
A questi vanno sommati i 360 milioni per gli stipendi degli insegnanti dell'ora di religione, 460 milioni per esigenze di culto e pastorale, 235 milioni per interventi caritativi, altri 700 milioni circa versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Si aggiunga che questa è una particolarità tutta italiana. In Spagna, ad esempio, le quote non espresse del 5 per mille restano allo Stato. In Germania i cittadini possono scegliere di versare l'8 o il 9 per cento del proprio reddito alle diverse chiese. Nel resto dei paesi europei vige il principio della volontarietà del contributo, senza trucchi.
Alla luce di questa sintetica ricostruzione storica e dei dati di comparazione forniti, mi pare che si possa già abbozzare una prima valutazione di fondo, sia sui mancati benefici venuti dal rinnovo del Concordato, sia in termini di libertà e di laicità per lo Stato (acuiti dai provvedimenti dei governi successivi), sia -soprattutto- sulle pesanti ripercussioni in termini concretamente economici sui cittadini italiani, credenti e non.
Fonte: Linkiesta
Bacheche vuote e crocifissi appesi
Fonte: archivio privato
Ho letto, di recente, che negli Stati Uniti, per l'esattezza in un campus dell'Università del Wisconsin, un professore ha ricevuto delle minacce da parte della polizia ed è stato censurato dai vertici dell'ateneo, con la motivazione di "cattiva condotta". Pare abbia affisso sulla bacheca del suo ufficio alcuni fogli personali. Cosa c'era scritto? Uno parafrasava il personaggio di un noto telefilm americano con frasi che incitavano alla violenza. L'altro, prendendo spunto dall'immagine di un cartone animato, ipotizzava il famigerato ritorno del fascismo. "Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini e degli animali” - aggiungeva.
Questa notizia mi ha indotto a due riflessioni, una semiseria, l'altra un po' meno.
La prima è che in terra americana, patria della libertà di pensiero e di opinione, censure di questo tipo stridano un po con l'età in cui viviamo. L'uso, molto in voga nei paesi anglosassoni, di attaccare vignette, foto, manifesti, volantini, sulla bacheca del proprio ufficio, potrà anche non piacere a qualcuno, se inteso come utilizzo privato di uno spazio pubblico, ma almeno dà l'idea di una certa vitalità e scambio, seppure scherzoso e ironico, tra docenti e studenti. Ben vengano foto divertenti e post-it con tanto di botta e risposta. Qui da noi purtroppo, negli uffici degli atenei, e da un bel po' ormai, le bacheche risultano completamente vuote. Simboleggiano, meglio di qualsiasi altra cosa, la lenta agonia di un'istituzione, dopo i tagli del governo. Non ci saranno certo violazioni di diritti, ma, con tutto il rispetto, a guardarle mettono davvero tristezza.
La seconda invece concerne, più in generale, l'utilizzo di immagini o di simboli, religiosi o di altra natura, come emblemi o rappresentazioni ufficiali di intere popolazioni, per esempio quelli appesi alle pareti. Qui il discorso si fa più scivoloso. Prendiamone non uno a caso, ma il più celebre: il crocifisso.
In alcuni paesi europei l'uso del crocifisso in luoghi pubblici, e in particolare nelle aule scolastiche, è vietato, perché si garantisce così, non solo teoricamente, la parità tra la religione cattolica e gli altri credi religiosi professati dalla popolazione. Negli Stati Uniti i simboli religiosi non sono vietati nei luoghi pubblici quando esposti in modo appropriato e passivo, semplicemente perché i tribunali americani riconoscono il valore non solo di fede ma anche culturale e civile dei simboli religiosi. Nella fattispecie, il crocifisso è visto come simbolo cristiano ma anche del sacrificio militare. Questo ultimo aspetto mi porta ad affrontare, sinteticamente, la questione della presenza del simbolo cristiano del crocifisso nei luoghi pubblici in Italia. Lasciamo da parte la questione se è giusto che un paese laico dia la preferenza ad un simbolo religioso, che pure rappresenta una parte fondamentale della sua storia, piuttosto che ad altri. Proviamo invece a svolgere una riflessione di carattere psicologico e antropologico.
Mi pare che si debba partire dall'asserzione che il significato di un simbolo non sia oggettivo e unilaterale ma debba essere liberamente lasciato all'interpretazione di chi lo guarda.
Faccio un esempio in proposito. Una persona, magari di famiglia musulmana, regala ad un'altra un tessuto indiano coloratissimo, splendidamente ricamato con immagini floreali. Ai suoi occhi appare bellissimo, originale. Alla sua mente ricorda una storia ancestrale di popoli lontani, di usanze misteriose e sconosciute ai più. L'effetto indotto sull'altro, qualora sia, per esempio, di origine ebraica, può essere però devastante e provocare reazioni sdegnate. Ciò accade nel momento in cui in quel mosaico di forme e colori, l'altro vada subito ad individuare una piccola croce uncinata, simbolo solare diffuso in Oriente. La persona ricevente lo interpreterà, piuttosto, come una svastica nazista, con tutti i collegamenti logici del caso.
Questo piccolo esempio serve per dimostrare che qualsiasi simbolo, religioso o meno, essendo aperto a interpretazioni diverse, non potrà mai rappresentare il pensiero di un'intera nazione.
E' evidente che per alcuni cattolici, più o meno praticanti, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, rappresenti il simbolo dell'amore e del sacrificio eminentemente cristiano, ma per altri possa rappresentare, ad esempio, il potere esclusivamente temporale e politico della chiesa.
In sintesi: se da un lato, missionari, sacerdoti, gente di buona volontà hanno diffuso pacificamente e con tolleranza, spesso con il crocifisso in pugno, la parola di Cristo tra la gente, dall'altro, a qualcuno quel simbolo potrebbe suggerire alla mente le stragi di islamici durante le Crociate, gli eccidi degli albigesi, i massacri dei valdesi, le torture dell'Inquisizione, lo sterminio dei nativi sudamericani, perpetrate proprio con la croce impressa sugli scudi.
Il simbolo religioso, nella fattispecie il simbolo cristiano per eccellenza, è carico di valori soggettivi e, come tale, non può rappresentare tutta la cristianità italiana, né tanto meno la cristianità mondiale, ma forse, solo i cattolici. Ad esempio, per gli ebrei, per gli islamici, ma anche per molti cristiani, esso è indice di idolatria.
Ecco, per questa semplice motivazione psicologica e antropologica, e non per ragioni politiche, teologiche o di puro principio filosofico, uno stato laico non dovrebbe consentire, né tanto meno imporre che il crocifisso, così come qualsiasi altro simbolo religioso, sia esposto nelle sue sedi pubbliche, e in particolare nelle scuole. Il suo posto è nelle chiese.
Questo, peraltro, non significa affatto mettere in discussione i valori umani e sociali insiti nell'insegnamento del Vangelo e nella figura di Cristo. Anzi, va detto che, proprio attraverso una riforma e una revisione dell'impostazione data, ad esempio, all'ora di religione nelle scuole, esso potrebbe acquistare ulteriori motivi e momenti di studio, di analisi comparata rispetto alle altre religioni, in una sorta di nuova ora di storia delle religioni del mondo, come sosteneva, tra gli altri, l'antropologo Alfonso Di Nola. Ciò arricchirebbe fortemente, a mio avviso, il messaggio stesso del cristianesimo. Lo si affronterebbe, infatti, non in modo simbolico, emotivo e dogmatico, cioè a dire attraverso un crocifisso appeso al muro, ma in modo storico, analitico, sociale. Voler diffondere il messaggio cristiano a colpi di crocifisso significa avere una visione gretta, limitata, assolutamente incompatibile con la realtà di oggi, momento in cui occorrerebbe, più che mai, una chiesa capace di aprirsi alle novità delle nuove generazioni.
A questa spiegazione rigorosamente culturale, ne aggiungerei un'altra di carattere storico. Il crocifisso è previsto da un decreto risalente addirittura all'Unità d'Italia, confermato poi dalla monarchia nel 1908, ma è stato imposto nelle scuole statali solo dal regime fascista nel 1924, anno del delitto Matteotti, e poi passato automaticamente indenne nel Concordato del 1929.
Ora, a quell'epoca, il simbolo del crocifisso non era esclusivo nelle pareti delle scuole, ma era affiancato, alla sua destra, dal ritratto del Re d'Italia, e alla sua sinistra, da quello del Duce. Ed aveva un senso proprio in quel preciso contesto. Già prima, ad esempio durante il Risorgimento e per tutto il primo periodo post-unitario, la questione della libertà religiosa era stata affrontata e dibattuta con una serietà ed un rigore morale completamente sconosciuti al regime, tanto che vari governanti e politici, fino a Giolitti, non accettarono mai la pretesa dei cattolici di imporre il crocifisso nei luoghi pubblici. Successivamente, nei decenni repubblicani, la scelta di mantenere quel simbolo religioso come emblema dell'italianità fu dovuta a questioni di semplice opportunità politica, per ingraziarsi le alte sfere ecclesiastiche, prima da parte degli spesso poco religiosi e moralmente corrotti dirigenti democristiani, poi da parte dell'altrettanto corrotto leader socialista. Oggi, nella cosiddetta “seconda repubblica”, seppure in una società ormai completamente secolarizzata, l'atteggiamento di supina sudditanza e riverenza di maggioranza e opposizione nei confronti della Chiesa, continua (si prenda, ad esempio, il recente articolo di Veltroni sul “Foglio” di Ferrara, dal titolo “Io sto col Papa”).
Vivaddio, la storia d'Italia, fino a prova contraria, non è stata fatta solo da Mussolini, Andreotti e Craxi, ma anche da Mazzini, Garibaldi e Cavour. E non tutti hanno permesso che il crocifisso fosse assurto a simbolo dell'italianità e presente immancabilmente nei luoghi pubblici, come spesso qualcuno cerca di far credere agli italiani.
Forse in un futuro prossimo, una classe politica completamente rinnovata, attenta, critica, fatta da giovani con una mentalità aperta al nuovo contesto globale e multiculturale, ma non per questo contraria pregiudizialmente a certi valori religiosi, e tanto meno digiuna dei principi (l'art. 3, 8 e 19) che definiscono incompatibile la presenza di qualsiasi simbolo religioso in posizione di monopolio con il dettato costituzionale, deciderà di equiparare finalmente il nostro paese, anche su questo argomento apparentemente futile o astratto, ma in realtà carico di significati, agli altri più avanzati paesi europei. Non sarebbe affatto un modo per sminuire il valore della religione cattolica, ma piuttosto per darle uno “scossone”, nel tentativo di renderla più viva e vitale, e non così arroccata su se stessa e separata dalla società in cui viviamo.
Fonte: Cronache Laiche
Adozione dei minori. Per una legge che rifletta i cambiamenti della società
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Di recente il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha riconosciuto, in Italia, un provvedimento di adozione per un bambino africano di 7 anni (dello Zambia) da parte di una donna siciliana (nubile, di professione medico), che lo aveva avuto in affidamento quando aveva solo pochi mesi. Si tratta di un' adozione "particolare", concessa a un singolo genitore, non coniugato: in questo caso con la motivazione che il piccolo è orfano di entrambi i genitori ed ha avuto un rapporto preesistente stabile e duraturo con la donna. Se un marziano avesse messo piede sul nostro paese proprio subito dopo quel riconoscimento, avrebbe subito pensato di trovarsi in un luogo all'avanguardia in tema di diritti civili e in particolare dei minori. "Visto" , avrebbe detto, "voi italiani state sempre a lamentarvi del profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica, insensibile agli effettivi problemi e ai bisogni della gente, e il mondo vitale della società impegnato nella quotidianità! State sempre lì a dire che il parlamento è indotto a legiferare sulla base solo di spinte corporative e gruppi di pressione, e comunque sempre e solo a seguito dell'esplosione dei problemi, quando si sono incancreniti, e mai prima! E invece avete delle ottime leggi, che noi marziani non possiamo far altro che invidiare." Purtroppo, al di là di questo simpatico siparietto tra il marziano e gli italiani, la questione si pone in termini ben diversi. L'adozione del bimbo africano da parte del medico siciliano è un caso rarissimo. In realtà, anche sotto questo punto di vista, purtroppo, l'Italia appare una nazione del tutto arretrata, bloccata, poco competitiva, rispetto agli altri paesi europei. Scopriamo il motivo, ripercorrendone sinteticamente le tappe storiche.
A dire il vero, all'inizio della storia, le cose erano andate piuttosto bene. Si è quasi corso il rischio, nella seconda metà degli anni sessanta, di essere considerati un paese civile e all'avanguardia. Fu proprio quello della riforma sull'adozione dei minori e l'introduzione dell'adozione "speciale" il primo vero banco di prova che funzionò come apripista per la legislazione sui diritti civili e familiari nel nostro paese, come dimostrarono poi divorzio, obiezione di coscienza e aborto. Prima della nuova legge, approvata nel 1967, non era raro che migliaia di coppie senza figli rinunciassero ad adottare un bambino abbandonato per i ritardi burocratici o per non correre il rischio di vederselo togliere più avanti. Secondo i dati dell'Istat di allora, nel 1964 esistevano circa 150 mila bambini ricoverati in istituti di assistenza. Accadeva spesso che un bambino abbandonato venisse affidato a una coppia senza figli e che, dopo anni, si facesse vivo il genitore naturale a chiedere una cifra mensile "per non creare difficoltà". Poteva accadere perfino che una ragazza incinta invece di lasciare il bambino al brefotrofio in vista dell'adozione, decidesse di contattare, attraverso un intermediario, una coppia senza figli e glielo facesse avere come "legittimo", presentandosi semplicemente in clinica con un padre non tale. Per ovviare a situazioni incresciose come quelle, il parlamento seguì in quel caso un iter legislativo diverso da quello di quasi tutte le altre norme. Quel percorso rappresentava, infatti, un caso raro nella storia parlamentare italiana, perché si verificava una spontanea convergenza tra i partiti, pur partendo da posizioni fortemente distanti di cattolici e laici, nonché il favore della Chiesa, decisa a promuovere un'adeguata legislazione. Dopo vari studi sui casi esteri di Usa, Inghilterra e Olanda, quella legge prendeva il meglio, differenziando il caso dei minori dai maggiorenni, diminuendo il limite di età per poter adottare (da 50 a 35 anni), fissando in 20 anni la differenza di età con l'adottato, stabilendo l'organo competente nel Tribunale per i minori (e non più la Corte d'appello), prevedendo, infine, un periodo pre-adottivo di 2 anni. Dopo i 5 anni di prova, la legge aveva dimostrato di funzionare, ma privilegiava ancora troppo l'interesse degli adulti su quello dei minori. Inoltre, non aveva evitato del tutto la compravendita di bambini che aggirava l'intervento dei tribunali, non rompeva abbastanza il legame tra minore e famiglia di origine, prevedeva ancora formalità burocratiche e lungaggini. Mentre il numero famiglie adottive era indubbiamente cresciuto, facendo diminuire sensibilmente i minori abbandonati o istituzionalizzati, quello delle adozioni era rimasto esiguo rispetto ai minori adottabili di fatto.
Sedici anni dopo, nel 1983, una speciale sottocommissione senatoriale, dopo aver ascoltato il parere degli operatori del settore, di magistrati, associazioni ed enti che si occupavano da anni dei problemi dell'infanzia e della famiglia, proponeva alcune importanti modifiche alla legge, sulla base dei disegni di legge presentati dai democristiani e dai comunisti, in particolare aumentando la differenza di età tra adottante e adottato e diminuendo i cavilli che davano vita alle lungaggini burocratiche. Nonostante le imperfezioni e le difficoltà sorte nella sua applicazione, la riforma aveva introdotto finalmente il principio del prevalente interesse del minore e invertiva le finalità dell'adozione: dal dare un erede ad adulti che non potevano averne, al dare invece una famiglia ad un bambino che purtroppo ne era privo. Più di un decennio dopo, veniva regolata, anche in Italia, l'adozione internazionale, secondo la Convenzione dell'Aia, e poi con una legge del 1998 che prevedeva l'adottabilità anche per i conviventi, ma solo dopo un certo numero di anni. Nel 2001, però, venivano apportate alcune modifiche alla disciplina dell'adozione nazionale, in particolare l'innalzamento da 40 a 45 anni dell'età che doveva intercorrere tra genitore e minore da adottare e, oltre al matrimonio, una convivenza di almeno 3 anni come criterio di adottabilità, nonché la graduale chiusura degli istituti di ricovero per minori.
La legge italiana perseverava, dunque, nel vietare l'adozione ai semplici conviventi. A differenza di ciò che accade all'estero, in cui si prediligevano le coppie più giovani per l'adozione, e in certi casi anche quelle non sposate. Che la famiglia costituisse ancora negli anni novanta in Italia il luogo privilegiato nel quale emergevano clamorosamente tutte le contraddizioni, gli antagonismi e in conflitti di una società secolarizzata ma ancora alle prese con la forte influenza e il potere della chiesa cattolica, è un elemento di tutta evidenza. Proprio nel campo delle problematiche familiari la chiesa trovava infatti l'elemento cardine su cui costruire la difesa di certi valori tradizionali. Ma questo arretramento legislativo, a fronte delle iniziali aperture dei decenni precedenti, portava, in alcuni casi, anche a conseguenze drammatiche: per esempio, nel giugno del 2000, quando un'ordinanza di un giudice costringeva i carabinieri a effettuare un "blitz" presso un casolare grossetano, allo scopo di sottrarre una bimba alla coppia a cui era stata provvisoriamente affidata per destinarla a una famiglia "in regola". La legge sulle adozioni, infatti, privilegiava ancora come principio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto disagiata essa fosse. Bastavano, inoltre, le sporadiche visite di un parente perché un minore restasse fisso in una casa famiglia, senza che potesse essere dichiarato lo stato di abbandono che portava all’adottabilità.
La legislazione italiana sui criteri necessari all’adozione se da un lato è molto rigorosa e cauta rispetto a quella internazionale, e pone al centro dell'adozione il bene del bambino (e non l'interesse di chi desidera adottarlo), dall'altro, però, rischia di essere superata dai tempi e di non riuscire a far fronte alla richieste di una società sempre più in movimento. I dati parlano chiaro: se nel 1968 ci furono circa 4 mila 400 tra affidamenti e dichiarazioni di adottabilità, nel 1999 le domande di adozione rimanevano altissime, circa 23 mila, ma solo circa 7 mila venivano accolte. Nel 2005 le domande di adozione erano 15 mila e passavano a 20 mila nel 2007, delle quali ancora solamente poco più di 4 mila erano accettate. Nel 2008 ne venivano accolte appena 5 mila, nel 2009 nuovamente in ribasso, circa 4 mila, mentre si registrava, dal 2004 al 2008, un forte aumento dei minori stranieri adottati (67%) contro i minori italiani (32%), mediante l'adozione internazionale, molto più rapida e funzionale: ben 3420 minori stranieri nel 2007. Dal 1995 ad oggi questo tipo di adozione è molto cresciuta, non solo in Italia, ma in particolare in Spagna, Svezia, Norvegia. Anche se i nuovi criteri per l'accreditamento delle agenzie di intermediazione all'adozione introdotti da Russia, Ucraina e India hanno contribuito ad un rallentamento negli ultimi anni.
In ogni caso, il rapporto attuale tra richieste e accettazioni di adozione è di cinque a uno: per la maggioranza dei bambini, allora come oggi, ciò che resta è l'attesa. Un alto numero di famiglie o coppie rinunciano, ancora oggi, a seguito di lentezze burocratiche e attese infinite proprio come negli anni sessanta. Eppure in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infanzia abbandonata crescono, e anche in Italia esiste un numero enorme di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che avrebbero bisogno di una famiglia: 26 mila bambini, secondo le recenti statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per non parlare poi delle coppie che preferiscono andare all'estero direttamente, pagando la cifra che serve. Dagli anni sessanta ad oggi, a fronte di un aumento costante delle famiglie adottive, dell'aumento dell'intermediazione con gli enti (ovvero consultori familiari ed enti autorizzati Ai.bi), non aumenta la percentuale media delle accettazioni di adozione, non diminuisce l'età media degli adottanti (39 anni per le donne, 41 per gli uomini), a differenza degli altri paesi. Rimane costante la percentuale dei motivi di adottabilità del minore, cioè a dire l'abbandono per il 41% e la perdita della potestà genitoriale per il 43%, mentre si diversificano gli stati di provenienza dei bambini (oggi soprattutto Russia, Ucraina, Polonia, Brasile, Etiopia, Colombia. Vietnam e India).
Se da un lato dunque è giusto rifarsi a criteri di adottabilità equilibrati e cauti, è necessario, tuttavia, che le leggi riflettano i cambiamenti della società in cui viviamo. Una legge "elastica", che sa distinguere i singoli casi, che crea un’eccezione e riconosce, formalmente, una famiglia atipica, come nel caso della donna medico siciliano e del bimbo africano è di buon auspicio per il futuro. Sarebbe bene che questa eccezione costituisse un precedente importante. Come ha già fatto presente una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, è auspicabile, infatti, un rapido intervento da parte del parlamento italiano in modo da ampliare i casi di adozione non solo da parte delle famiglie formalmente riconosciute, ma anche delle coppie e dei single. Anche se per la verità, l'attuale classe politica italiana sembra presa da altri più stringenti problemi, ad esempio su come riuscire a mantenere intatti i propri privilegi di casta. Staremo a vedere.
Fonte: Linkiesta
Omofobia. Se questa è una persona
(Fonte: Internet)
Qualche giorno fa, per la seconda volta nel giro di due anni, il parlamento italiano, accogliendo le pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Udc, Pdl e Lega, ha fermato la legge che inasprisce le pene nei confronti dell'omofobia. Si tratta di un provvedimento in contrasto con lo stesso accoglimento da parte italiana dei punti contro la discriminazione sessuale presenti nel trattato di Lisbona.
La verità è che, al di là delle fumose affermazioni di principio, il mancato rispetto della diversità, fomentato da dichiarazioni di esponenti politici di questo governo, di questa maggioranza, e adesso anche attraverso leggi in parlamento, è l'ennesimo campanello di allarme, che si va a sommare all'arretratezza tutta italiana su temi come testamento biologico, diritti dell'infanzia, delle donne, dei migranti, sul più generale versante dei diritti civili in Italia.
Non molti ricorderanno la vicenda del docente Aldo Braibanti che, nel lontano 1968, fu processato per plagio di minori, ma in realtà condannato per la sua omosessualità pubblicamente dichiarata. La stessa condanna "morale" veniva riservata, in quegli anni, allo scrittore Pier Paolo Pasolini. E' evidente che alla fine degli anni sessanta esisteva ancora in Italia, da un punto di vista legislativo, un divario fortissimo nei confronti di altri paesi più avanzati sul diritto di famiglia e sul diritto della persona. Basti pensare che nel 1956 non fu approvata per un soffio addirittura una legge che configurava l'omosessualità come un reato punibile fino a due anni qualora la relazione fosse "notoria". Quella incredibile legge non entrò in vigore solamente perché la revisione del codice penale non ebbe luogo. Però già nel 1960 venne approvata una legge in materia di censura che definiva l'oscenità, in relazione alla "diversità", in senso ancora più restrittivo di quanto già non lo fosse. Era il segno dei tempi: le stesse coppie di conviventi e i figli illegittimi erano privi di stato giuridico, esclusi da tutta una serie di benefici che spettavano invece ai coniugi. Figuriamoci, dunque, cosa accadeva nel caso degli omosessuali.
Il punto è che all'arretratezza giuridica si sommava a quella della mentalità comune, che non aiutava certo il loro inserimento in società né aiutava quelle minoranze politiche interessate ad affrontare coraggiosamente la questione, a far sentire con forza la propria voce in parlamento e nel paese. La Chiesa esercitava la sua pressione "moralista" sulla società e sulle famiglie, a partire dall'educazione dei bambini, agli insegnamenti alle coppie in procinto di sposarsi, ma l'invito alla repressione sessuale trovava terreno fertile quando si trattava di tollerare e accettare comportamenti "diversi", specie se provenienti da sparute minoranze quale erano allora gli omosessuali. In quel contesto di dogmatismo "familista" si inseriva la sessuofobia, e in alcuni casi addirittura il giudizio di "abominio sociale" di molti vescovi e sacerdoti nei confronti della diversità, in particolare dell'omosessualità (che pure esisteva all'interno della stessa comunità religiosa e che, invece, in tal caso, veniva ampiamente coperta e tollerata), mentre parallelamente la questione iniziava ad essere approfondita in ambito medico (allora era diffusa addirittura l'idea che l'omosessualità fosse una malattia) oltre che sociologico.
A ispirare questi comportamenti censori e intolleranti era, nel caso della chiesa (ma con un'incidenza enorme a livello governativo, attraverso la Dc) , la poca conoscenza della sfera sessuale, ma anche la sensazione che tutta una serie di dispositivi sociali e di aperture, recepite dai paesi europei del nord, potessero, in un certo senso, incrinare e aprire qualche breccia nel vincolo del sacramento del matrimonio. Il collegamento, alquanto forzato, che veniva fatto a più livelli, era che il fenomeno "deviante" si manifestasse negli ambienti più evoluti economicamente a seguito dell'edonismo e del consumismo della società moderna. Non che l'omosessualità rimanesse sommersa per colpa del giudizio intollerante della società, ma che fosse addirittura contagiosa, fomentata dalla dissoluzione dei costumi e dal mercato, oltre che dall'individualismo più sfrenato. Per fortuna, non solo alcuni importanti sociologi, psicologi, medici, sessuologi come Manganotti e Santori dimostrarono che non c'era nulla di contagioso biologicamente, ma va detto che neppure tutta la comunità religiosa si trovava su posizioni così intolleranti: basti pensare che alcuni intellettuali cattolici e dei sacerdoti come don Liggeri e don Grasso, andando oltre le reazioni moralistiche, avevano iniziato a promuovere convegni di studio e ricerche in direzione di un approfondimento serio e scientifico della questione della diversità.
E' evidente che tutti questi condizionamenti, pressioni, interpretazioni forzate e strumentali, nel lungo periodo, dopo decenni, si sono sedimentate ed hanno contribuito a formare una opinione pubblica molto arretrata su tematiche come questa. Eppure, oggi, nel 2011, credo sia legittimo porsi questa domanda anche in Italia: è giusto escludere le persone omosessuali dal riconoscimento dei diritti fondamentali della persona?
Paesi come Stati Uniti, Spagna, Olanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Portogallo hanno già risposto un definitivo "no" su più aspetti della questione. Rimanendo al tema recente dell'omofobia, intesa come atto violento o anche come semplice incitamento all'odio psicologico, essa è punita anche in Danimarca, Francia, Islanda, ed esistono esplicite norme antidiscriminatorie in Brasile, Australia, Canada, Israele, Sudafrica, Austria, Cipro, Finlandia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Svizzera, Ungheria, Inghilterra, Repubblica Ceca, Serbia, Montenegro e perfino Colombia, Ecuador e Isole Fiji.
Non è solo una questione di eguaglianza e democrazia, ma anche di dignità, come chiede esplicitamente la costituzione europea e come stabilisce anche la nostra stessa costituzione italiana. Ora, alla luce di questa breve analisi storica e comparazione con gli altri paesi, non solo per una questione democratica di principio ma anche per un motivo ben più pragmatico , visto che gli omosessuali producono, consumano e pagano le tasse come tutti gli altri cittadini italiani (e gli stranieri), non è forse il caso di adeguare e aggiornare anche la nostra legislazione in modo da provare a combattere, attraverso una legge dello stato, l'odio ingiustificabile verso il diverso?
Fonte: Linkiesta
Referendum e svolte mancate
Un'analisi comparata sui dati dei 3 referendum
che hanno fatto la storia del nostro paese
Se compariamo questo referendum alle due precedenti storiche tornate referendarie del 1974 e del 1981, scopriamo che esistono molti elementi in comune a spiegare che la società civile è più avanti della politica e della classe dirigente che la governa. Sono i cittadini, i movimenti, le associazioni che, storicamente, danno la svolta. E' accaduto in passato, accade oggi. Il punto è che queste formidabili ondate progressiste la sinistra non è mai riuscita a incanalarle, fornendo risposte concrete su un versante politico.
Il primo referendum abrogativo della storia d'Italia, nel 1974, non fu promosso, come qualcuno potrebbe pensare, dai radicali o da giovani rivoluzionari di sinistra, ma dalla chiesa e dai democristiani, che, dopo l'approvazione della legge Fortuna-Baslini del 1970, diedero seguito all'idea di alto prelato, un monsignore, che aveva avanzato, alcuni anni prima (L'Italia, 17 aprile 1966), la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica cosìdelicata.
Non si creda però che l'esito di quel primo referendum fosse, alla vigilia, così scontato.
(Fonte Internet)
Il governo Rumor era appena caduto, a seguito della crisi economica e delle dimissioni del ministro del tesoro La Malfa. Basta prendere in considerazione i manifesti elettorali dell'epoca (“Pensa a tuo figlio”, “Non mescolare il tuo voto con i fascisti”) o la copertina di un libro uscito proprio in quei giorni (in cui campeggiavano le facce di Gabrio Lombardi e Loris Fortuna), per capire quanto forte fosse la contrapposizione tra i due fronti. favore della riconferma della legge si schierarono, trasversalmente, la lega italiana per il divorzio, il movimento liberazione delle donne, quelli del manifesto, i pidiuppini, la lega degli obiettori di coscienza, i radicali, le comunità di base, i cristiani per il socialismo, i cattolici democratici, gli indipendenti di sinistra, e poi i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri, Pli. Tra i quotidiani e le riviste appoggiarono il divorzio il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Paese Sera, l'Unità, Il Secolo XIX, La Nazione, Il Giorno, Panorama, L'Espresso, L'Europeo, Grand Hotel, Amica e Noi donne. Per l'abrogazione si espressero, dall'altro lato, i missini, la Dc, la Cei, il Papa, con Famiglia cristiana, Avvenire, La Discussione, L'Osservatore Romano, La Civiltà cattolica, Il Popolo, Il Gazzettino, Il Tempo, mentre tutta la Rai, allora l'unico mezzo di informazione veramente capillare, evitava accuratamente di far sentire la voce dei divorzisti.
Alla fine, con una sonora risposta all'alto prelato che l'aveva chiamato in causa, il popolo, dunque, si espresse, dando inizio a quel processo di secolarizzazione che ha avvicinato l'Italia agli altri paesi europei più evoluti sul versante dei diritti civili. L'affluenza fu incredibilmente alta, circa 33 milioni e 29 mila elettori, l'88,1% degli aventi diritto. I “sì” all'abrogazione della legge sul divorzio il 40,9% mentre i “no” superarono il 59%.
La clamorosa novità fu la fortissima tenuta anti-divorzista nelle campagne e nelle province, tra le donne, tra gli operai e tra i cattolici. Una enorme affluenza al voto e le più alte percentuali del “no” furono in Val D'Aosta (75%), Liguria (72%), Emilia Romagna (70%), poi in Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio, mentre tra le città, a Livorno (77%), Torino (76%), Ferrara (74%), Siena (74%), Trieste (73%), ma anche Bologna, Genova, Firenze, Reggio Emilia. Alte percentuali anti-divorziste si raggiunsero, sorprendentemente, anche nelle regioni del Sud, in testa Sardegna e Sicilia (e in particolare le città di Siracusa e Ragusa). Un'affluenza più bassa e le percentuali più alte del “sì” a Benevento, Lecce, Vicenza, Caserta, Avellino, Reggio Calabria, Potenza e Messina.
Il quadro sociologico e regionale emerso fu evidente. Il trend positivo, una sorta di traino, si ripercuoteva direttamente alle successive elezioni amministrative e regionali: rispetto alla disponibilità di voti degli schieramenti, Dc e Msi, uniti al referendum, avevano perso il 6,6%, circa 2 milioni e 700 mila voti, e infatti, nel 1975, la Dc calava e si attestava al 35% (e il Msi al 6%), mentre la sinistra era in crescita, con il Pci che aumentava del 5% e passava al 33,4%, il Psi + 2% e arriva al 12%, e il centro-sinistra insieme raggiungeva quota 45%, circa il 4% sopra il centro-destra. L'incredibile voto referendario e la evidente crescita di consensi elettorali della sinistra non erano però tramutati in un concreto risultato politico.
(Fonte Internet)
Anche nel 1981 la promozione del referendum che intendeva abrogare la legge sull'aborto del 1978 fu monopolizzata dai movimenti cattolici e in particolare da un ex giudice, divenuto presidente del Movimento per la vita. Anche in quell'occasione la contrapposizione nel paese fu fortissima, da un lato i radicali che rivendicavano l'aborto libero, dall'altro gli appelli delle parrocchie, dei parroci durante le omelie, e delle organizzazioni cattoliche, perfino le veglie di preghiera e le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum, mentre in casi estremi anche le statue del santo patrono sfilavano accompagnate dal cartello vota “sì”.
La campagna referendaria fu segnata da una certa sproporzione mediatica delle forze in campo. A favore del referendum anti-aborto o, comunque, per un'astensione diretta contro la riconferma della legge 194, si schierarono in una specie di santa alleanza, la Dc, il Msi, il Papa, la Cei, il Mpv, Comunione e liberazione, La Civiltà cattolica, L'Osservatore Romano, l'Opus Dei, Azione cattolica, le Acli, la Cisl, Il Sabato, il Corriere della Sera, Il Popolo, La Discussione, Il Tempo, mentre la Rai si trovò in evidente imbarazzo a parlare di “194” e di interruzione di gravidanza. Uniti in difesa della legge Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, Sinistra indipendente, Pdup, e poi i movimenti dell'Udi, l'Mld, i gruppi del dissenso cattolico (Cdb e Cps), l'Arci, e i giornali Paese Sera, La Stampa, la Repubblica, l'Unità, il manifesto, Il Messaggero, L'Espresso.
Il risultato fu una sberla contro Chiesa e Dc e la conferma di un paese indirizzato verso una maggiore laicità, quantomeno di principio. Le donne, anche quelle cattoliche, i movimenti e i partiti uniti a difesa della legge, nonché il discutibile referendum radicale pro aborto, furono gli elementi che contribuirono a quell'indimenticabile risultato. L'affluenza fu, anche in quel caso, molto alta, con il 79,6%. Si espresse per il “sì” all'abrogazione della legge sull'aborto il 32,1% mentre per il no ben il 67,9% degli italiani.
Ancora una volta le percentuali più alte a favore della legge furono in regioni come Val D'Aosta (77,3%), Umbria (76,9%), Emilia Romagna (76,8%), Liguria (76,1%), Toscana (75,4%), Piemonte (73,9%), mentre quelle più alte del “sì” si ebbero in Trentino e Alto Adige 50,3%, Veneto 43,4% e Molise 39,7%. Rilevante apparve il fatto che in paesi di montagna e piccole province, dove la Dc aveva ottenuto alle precedenti elezioni anche il 70%, i voti contro la legge furono appena il 50%, mentre al Sud, in particolare in Calabria e in Basilicata, ci fu un'incredibile alta percentuale di astensioni, sommata alle tante schede bianche. Non è un caso dunque che alle successive elezioni politiche, quelle del 1983, la Dc ottenne il 32% dei consensi, cioè a dire il suo minimo storico, con addirittura – 8% rispetto alla precedente tornata elettorale. Anche questa volta però, il senso anti-governativo del voto, verso un partito e un sistema che iniziava a risentire degli scandali della corruzione, non venne affatto concretizzato dalla sinistra, che ottenne sì un discreto risultato elettorale, ma che non fu in grado di fornire una proposta alternativa di governo. Non a caso il Psi abbracciò la Dc per dar vita a quel pentapartito che fece epoca negli anni ottanta.
Infine arriviamo all'oggi.
Stavolta i comitati che hanno promosso i referendum su acqua pubblica, nucleare e giustizia erano espressioni variegate, poco etichettabili, gruppi e movimenti della società orientati tendenzialmente a sinistra (ma non solo), decisi a far conoscere i quesiti referendari alla cittadinanza con ogni mezzo a loro disposizione. E' stata chiara, infatti, fin dall'inizio, la sproporzione mediatica delle forze contrapposte. Per l'astensionismo o per il “no” all'abrogazione delle leggi governative si è dichiarata la presunta maggioranza degli elettori, cioè a dire ilPdl, la Lega, Fli, l'Udc, ma anche la Cisl, la Confindustria, e poi quasi tutta la stampa televisiva, cioè la Rai (Tg1 e Tg2) e Mediaset, quella dei giornali, Il Corriere della Sera, Sole24ore, Giorno/Resto del Carlino/Nazione, Il Giornale di Sicilia, Il Gazzettino, Il Giornale, Il Mattino, Il Tempo, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Padania, Liberoe Panorama. Per i referendum, in modo trasversale, si sono schierati i comitati promotori sull'acqua pubblica e contro il nucleare, movimenti e gruppi come Legambiente, WWF, Italia Nostra, Arci, Protezione Civile, la Rete degli Studenti, Emergency, Donneinmovimento, Libertà e Giustizia, Cultura Sviluppo e Legalità, Medici per l’ambiente, gruppi sindacali come Cgil, Fiom, Cobas, l'Azione cattolica, le Acli, gli scout di Agesci, Pax Christi, poi i partiti Pd, Idv, Sel, FdS, socialisti, tra le tv solo la7, tra i giornali, Avvenire, Il Fatto quotidiano, il manifesto, l'Unità, la Repubblica, La Stampa, Famiglia cristiana, Il Messaggero, L'Espresso.
Un ruolo decisivo è stato giocato dalla rete, attraverso il passaparola, che ha saputo raggiungere luoghi e persone diverse, creando una mobilitazione “alternativa”. Interessante il dato proveniente dall'analisi del “Battiquorum” su facebook che alla mezzanotte del 12 giugno, su un totale di 3 milioni e 635 mila utenti circa, dava il 65% come indifferente, cioè la famosa massa grigia che non vota, il 21,8% formata da attivisti pro referendum, mentre appena il 12,4% addirittura contrario. Morale della favola, il paese reale è risultato ben più avanti rispetto allo stesso popolo di facebook, che pure rappresenta oggi un termometro socio-culturale del quale qualunque nuova forma di politica non potrà non tener conto.
L'affluenza del 57%, circa 29 milioni di elettori, e le percentuali tra il 94% e il 96% dei sì ai quesiti sono già storia. Anche in questo caso la maggiore affluenza è al Nord, con le regioni Trentino (64,6%), Emilia Romagna (64%), Toscana (63,5%), Marche (61%), con le città Firenze (67%), Bologna (66%), Trento e Bolzano (65%), Torino (61%), Venezia, Genova e Ragusa (60%), Roma (59%). Le più basse percentuali invece confermano un Sud più pigro, con la regione Calabria 50% e le città di Crotone (45%), Catania, Reggio Calabria, Foggia (49%), Caserta e Palermo (50%).
Donne, giovani, precari, studenti, credenti e non, Nord più consapevole e Sud critico, tutti protagonisti di un referendum che è in perfetta continuità con i referendum storici e che ha tutto il diritto di entrare nella storia della democrazia partecipativa del nostro paese. Emerge, infatti, ancora una volta, un chiaro dato che è ormai una costante: la richiesta da parte della società di partecipazione e di apertura sul versante dei diritti e della difesa dell'ambiente. Saprà stavolta la sinistra all'opposizione incanalare e dar voce a queste diffuse trasversali spinte progressiste?
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Sui nuovi referendum. Rimaniamo dentro la storia
(Archivio Alinari)
Vorrei condividere con voi un semplice ragionamento sul significato dei referendum abrogativi e sul quorum, partendo dalla storia.
Non tutti sanno che l'istituto del referendum in Italia è stato approvato nel 1970, subito dopo l'entrata in vigore della legge sul divorzio, su spinta della chiesa e della democrazia cristiana proprio in funzione anti-divorzista.
Non si immagini, dunque, che a impugnare l'utilizzo di questa nuova arma popolare fosse un giovane rivoluzionario e o un provetto masaniello. Era stato, molto più sommessamente, un alto prelato, un monsignore, per la prima volta ("L'Italia", 17 aprile 1966), ad avanzare la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica così delicata.
Cosa accadde al primo referendum abrogativo della storia d'Italia , nel 1974, (altro conto è quello arci-noto tra monarchia e repubblica) è risaputo: vittoria schiacciante del fronte divorzista, amara sconfitta per democristiani e chiesa, inizio del processo di secolarizzazione anche in Italia. E' interessante sottolineare però, ai fini del nostro discorso, la percentuale dei votanti a quel primo referendum: qualcosa di assolutamente impensabile oggi, cioè a dire votarono in 33 milioni e 29 mila cittadini (su 39 milioni iscritti nelle liste), cifra pari addirittura all'88,1%.
Il secondo importante appuntamento referendario (c'era stato nel frattempo quello del 1978 sul finanziamento pubblico ai partiti, che aveva visto un quorum del 81,2% e la vittoria del "no") fu organizzato e monopolizzato anche stavolta dai movimenti cattolici per tentare di abrogare la legge sull'aborto: ad aizzare le masse, in quel caso, non furono esponenti dei radicali o giovani estremisti, come si potrebbe credere parlando vagamente del tema "referendum popolari", ma fu piuttosto un ex giudice, presidente del Movimento per la vita. Quella volta votarono il 79,6% degli aventi diritto, con un'alta partecipazione di credenti che disattesero le indicazioni delle alte gerarchie ecclesiastiche, un dato in calo rispetto alla tornata precedente, che confermarono la validità della legge, dando un colpo mortale al tentativo di Comunione e Liberazione e Mpv di riaggregare il mondo cattolico intransigente. Già in quell'occasione, dove si erano accorpati al referendum sull'aborto anche altri quesiti (come ordine pubblico ed ergastolo), i più avvertiti tra gli esponenti dei radicali fecero autocritica per un utilizzo dello strumento referendario totalmente travisato rispetto alle origini: la strategia dei pacchetti referendari espressi in modo poco chiaro e difficilmente assimilabile dall'opinione pubblica, gestiti peraltro fuori dalle elezioni politiche, con enorme spreco di denaro pubblico, appariva totalmente errata.
Il calo della percentuale dei votanti al referendum proseguì imperterrita nel 1985 con il referendum sulla scala mobile (77,9%), nel 1987 su responsabilità civile dei giudici e nucleare (65,1%), ma il quorum era stato comunque sempre raggiunto fino a quel momento. Il motivi erano, evidentemente, l'uso di argomenti chiari e la mobilitazione dei partiti e dei movimenti presenti nel paese.
A partire dal 1990 in poi la cosiddetta strategia dei pacchetti referendari, proseguita dai radicali, portò ad un utilizzo smodato e indiscriminato dell'istituto, su problematiche come la caccia, la riduzione dei deputati, le droghe, l'abrogazione di ministeri, le concessioni televisive, gli orari degli esercizi commerciali, l'obiezione di coscienza, le carriere dei magistrati, l'ordine dei giornalisti, etc, tutti argomenti che avrebbero dovuto essere risolti, se il parlamento avesse funzionato regolarmente come in qualunque altro paese civile, attraverso leggi ordinarie.
Il calo dei votanti fu, tornata per tornata, continuo e progressivo: dal 43% del 1990 al 30% del 1997, dal 49% del 1999 al 32,2% del 2000. Fino a toccare il fondo, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita del 2005, quando la chiesa e molti partiti di governo (ma non solo) avevano consigliato l'astensionismo, per cui andavano a votare solamente il 25% degli italiani. E il distacco dalla politica era confermato ancora nel 2009 con un calo ulteriore dei votanti al 23% in occasione dei quesiti tutti tecnici sulle liste elettorali.
Ma veniamo all'oggi. Questo appuntamento referendario, per la tipologia dei quesiti (nucleare, acqua pubblica, giustizia), per il percorso politico che lo ha preceduto, per la mobilitazione che, soprattutto in questi ultimi giorni, ha suscitato nella popolazione, sembra rientrare, di diritto, nella storia originaria e gloriosa dell'istituto del referendum abrogativo. Con la differenza che, stavolta, le forze popolari e anche i partiti, che li hanno promossi, non sono la chiesa e i movimenti cattolici intransigenti, ma piuttosto sono quei movimenti che hanno fatto sentire fortemente la propria voce in occasione, negli ultimi tempi, contro i provvedimenti del governo, contro le "uscite" del premier, e infine, durante la campagna elettorale per le ultime amministrative. Si tratta di un blocco sociale ricomposto, di una spinta popolare proveniente dal basso, con grandi protagonisti i giovani e le donne, che ha costretto, incredibilmente, i partiti di opposizione ad accodarsi, a non bloccare o smorzare come al solito l'entusiasmo, insomma si tratta di una novità per la storia recente del nostro paese. Una novità che però ha almeno tre importantissimi e gloriosi precedenti storici: le vittorie dei movimenti progressisti, laici e cattolici, in occasione dei referendum su divorzio (1974), aborto (1981) e nucleare (1987).
A questo punto è doveroso un appello a tutti. In quelle occasioni storiche il quorum fu, come ho già accennato, rispettivamente, dell'87%, del 79% e del 65%. Facciamo in modo di rimanere dentro la storia e facciamo sì che, anche questa volta, il quorum sia raggiunto e diventi una spinta propulsiva e incontenibile verso il (peraltro già vicino e ormai auspicabile) cambiamento di questo nostro paese.
La democrazia alla prova
Non si tratta di una biografia. È piuttosto la ricostruzione di una vicenda che intreccia mondo cattolico e mondo laico nel secondo dopoguerra. In mezzo a questi due mondi si colloca Gozzini, ma non solo. Personalità politiche, intellettuali, religiose di rilevanza nazionale sono gli indiscussi protagonisti del volume, che intende ripercorrere le tappe cruciali del dialogo tra i settori più avanzati del mondo cattolico, socialista e comunista, nella storia dell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ci si avvale di una documentazione completamente inedita, di lettere di importanti personaggi del Novecento italiano: da Turoldo, Milani e Mazzolari a Balbo, La Pira, Ossicini, Pistelli e Balducci; da Ingrao e Lombardo Radice a Longo e Berlinguer, fino a Parri, Enriques Agnoletti, Anderlini, Antonicelli e tanti altri. Il periodo cruciale della questione del dialogo si colloca nel quinquennio 1963-1967, in cui avvennero alcuni incontri decisivi tra dirigenti politici comunisti e socialisti, intellettuali cattolici e alte cariche religiose, che alimentarono un vasto movimento di idee che ha ben poco a che vedere con il successivo compromesso storico tra DC e PCI, negli anni della “solidarietà nazionale”. Fu piuttosto un vivo confronto tra personalità indipendenti e laiche, ex azionisti, comunisti, cattolici, socialisti e gruppi spontanei, uniti nella critica all’esperienza politica del centro-sinistra. Un dialogo che fu inizialmente segreto ma che divenne pubblico, maturato, culturalmente, nella
vicenda del “dialogo alla prova” e, concretizzatosi politicamente, anche se solo in parte, nella nascita del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente. Una convergenza nata sulle solide e sperimentate basi dell’antifascismo, accantonata dopo il varo della Costituzione della Repubblica e rilanciata circa venti anni dopo, nel 1967.
Tutto sarebbe rimasto nel chiuso dei circoli culturali, delle parole forbite di alcuni intellettuali, apparse su riviste più o meno note, se non fossero intervenuti due fattori determinanti: l’irrompere delle esperienze della contestazione, del dissenso religioso, dell’“autunno caldo”; e l’intervento del maggiore partito della sinistra italiana, il PCI, o almeno di una parte dei suoi vertici dirigenti. Ciò permise di dare concretezza a una non piccola rivoluzione: portare in Parlamento, per la prima volta, grazie alla spinta propulsiva della Sinistra indipendente, problemi
di grande portata culturale e politica che coinvolsero in prima persona tutta la società civile, e non solo, grazie all’istituto referendario sostenuto dalle sinistre radicali.
Questa democratica rivoluzione nella legalità contribuì a rinsaldare, in un difficile momento storico per la società, negli anni dell’eversione nera e del terrorismo brigatista, il vincolo dell’antifascismo culturale tra cattolici, comunisti, socialisti e indipendenti, che, così come aveva permesso di sconfiggere il regime fascista, sancì la fine della strategia della tensione,
mettendo letteralmente alla prova la democrazia italiana.
Pasolini disse che la Resistenza e il movimento studentesco furono «le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto» (Il Caos, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 41). È una valutazione polemica che si può condividere, a patto di non sottovalutare il significato anticipatore delle idee conciliari nel mondo cattolico, il proseguimento della tensione utopica nel mondo
laico, svolto dal “dialogo alla prova”, e la saldatura del legame antifascista, messa in atto dalla nascita della Sinistra indipendente.
(Archivio di “Red” Giorgetti)
Il volume, oltre a chiarire gli episodi che videro protagoniste le maggiori forze politiche e le componenti della società italiana, intende analizzare anche alcune vicende che fanno solo apparentemente da sfondo a decisioni più direttamente politiche: il mondo delle avanguardie cattoliche e laiche, le riviste e i movimenti d’opinione, alcune singole personalità, meno note, che ebbero invece un ruolo
rilevante in occasione di cruciali momenti della storia d’Italia; dalle elezioni del 18 aprile e l’affermarsi, anche in Italia, della guerra fredda, al XX Congresso del PCUS, che riaccese gli entusiasmi per una “via italiana al socialismo”; dalla crisi del centro-
sinistra e dalla rinascita spirituale del Concilio Vaticano II al Sessantotto e al dissenso religioso.
Attraverso l’ausilio delle lettere, dei manoscritti, degli appunti dei protagonisti, uniti all’esame delle più importanti riviste d’avanguardia cattolica, della pubblicistica comunista e socialista, e dei quotidiani più diffusi, ricostruire una vicenda intellettuale
come quella di Gozzini significa ripercorrere più di una stagione del movimento cattolico fiorentino e nazionale, di un cattolicesimo nascosto, non ancora del dissenso (anzi, che da questo tendeva a differenziarsi proprio nel momento in cui si manifestava), ma già cosciente della profonda crisi in atto nella Chiesa e del rischio che implicava per tutta la società, non solo per i credenti, la perdita di credibilità di un
discorso cristiano strumentalizzato dal potere politico. Un cattolicesimo consapevole anche del rischio di integralismo dovuto a quella visione totalizzante che comportava l’obbligatorietà dell’unità politica di tutti i cattolici. Viene fuori con chiarezza il ruolo
decisivo che ebbero alcuni intellettuali cattolici nella proposta di un rapporto tra società e Chiesa che in parte anticipò e che sicuramente contribuì agli sviluppi conciliari, senza nulla togliere al significato innovatore del papato giovanneo.
Ma significa anche entrare dentro il mondo comunista e socialista, nelle sue diverse sfaccettature, per verificarne le basi di pluralismo, di apertura a un discorso volto al superamento di una visione ideologica, spesso integralista e totalizzante; e, specialmente dopo il 1956, chiarire quali furono le sue correnti più movimentiste, i suoi protagonisti più avvertiti, che, in qualche modo, anticiparono certe dinamiche
avanzate e moderne della odierna sinistra progressista. Appare qui evidente l’inconsistenza della tesi che vorrebbe relegare a un ruolo marginale, al rango di «utili idioti», quel gruppo di intellettuali che diede vita alla Sinistra indipendente, il quale ebbe invece una grande rilevanza non solo in molte vicende interne allo stesso PCI ma, soprattutto,
nel dare inizio a un rapporto più aperto e pluralista tra politica e società civile.
Significa infine affrontare il rapporto tra cultura e politica, tra intellettuali e partiti, in particolare attraverso le vicende di quegli indipendenti, provenienti da varie matrici culturali, giellisti, ex azionisti, liberaldemocratici, social-democratici, accomunati dall’esperienza della Resistenza e dell’antifascismo, che aderirono all’appello di Ferruccio Parri. Questi accettarono, nel 1968, la proposta del Partito comunista
italiano di mettere a disposizione le proprie liste per la creazione di una formazione politica completamente indipendente, che rappresentò il primo e unico esperimento politico in Europa di questo tipo (che ha ben poco a che vedere con l’esperienza dei fronti popolari o della federazione unitaria), e che prese il nome, appunto, di Sinistra indipendente. Anche sotto il profilo della storia dei movimenti politici e delle forze intellettuali, oltre che dal punto di vista della storia sociale, il Sessantotto
si conferma ancora una volta un momento essenziale e decisivo di cesura.
È una storia, complessivamente, non unitaria, di difficile ricostruzione, di cui si devono delineare ancora le tappe, fatta di percorsi individuali. Piccoli gruppi e riviste, interessanti non solo come capitolo dell’organizzazione della cultura italiana e per la
riflessione sui rapporti tra fede, Chiesa e società civile che hanno svolto un utilissimo ruolo di “cerniera” con la politica, pur non essendo direttamente legati ad essa, anticipando e portando a maturazione importanti battaglie civili successive.
Il periodo cronologico della ricerca si chiude agli inizi degli anni Settanta, che coincidono, nella trattazione, con la preparazione della prima vera battaglia parlamentare della Sinistra indipendente, che spaccò in due il paese su un tema di grande portata civile: il divorzio. Anni che rappresentano anche l’inizio della tensione civile, del brigatismo e del compromesso storico, tutti eventi che necessitano di
precise ma diverse chiavi di lettura, per una società completamente mutata.
L’idea del volume è nata dallo sfoglio delle carte Gozzini, depositate presso l’Istituto Gramsci toscano a Firenze: un intellettuale a cui è toccato, fin da vivo, ma anche dopo la morte, il singolare destino di essere molto noto a Firenze ma pressoché sconosciuto
a livello nazionale, il cui nome è rimasto limitatamente legato solo a una legge parlamentare sulla riforma carceraria. Eppure le sue carte comprendono centinaia di lettere di vari interlocutori, quasi tutte le copie di quelle da lui spedite, una grande mole di documenti (manoscritti e dattiloscritti), che hanno rappresentato una vera novità storiografica, ricca di risvolti significativi. La storia si fa beffe, così,
della cronaca, e permette di ristabilire la giusta misura della sua opera, ma soprattutto di lanciare nuove e interessanti prospettive di ricerca su alcune vicende della storia dell’Italia repubblicana, a dimostrazione che certe idee, in apparenza sommerse, rimangono depositate sotto le macerie dell’attualità politica, sempre pronte a tornare vive.
(Introduzione tratta da: “La democrazia alla prova.
Cattolici e laici nell’Italia repubblicana degli anni cinquanta e sessanta” (Carocci, Roma)
Veltroni, la laicità e i santi in paradiso
Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.
(Tratto da: “Diario della settimana”)
Vincono i no sulla 194 e l'ergastolo. Gli italiani chiedono maggiore sicurezza
Dopo l’entrata in vigore della legge, a detta della stampa laica pareva avesse avuto inizio l’era della libera civiltà, mentre da parte cattolica sembrava fosse iniziata l’epoca dell’anarchia più sfrenata. Ma a parte i soliti eccessi verbali, si trattava, piuttosto, di fare in modo che le procedure previste dalla legge venissero applicate, subito e nel migliore dei modi, dagli enti locali e dalle Regioni. In effetti, la legge era stata approvata in un'atmosfera molto tesa, con un Paese che sembrava quasi non accorgersene, preso com’era dal sequestro, dall'uccisione di Moro e dalla crisi economica (che aveva visto, dopo l’instaurazione del doppio sistema del cambio, l’aumento dei prezzi, la svalutazione della lira, la costante crescita dell’inflazione), scosso, di lì a poco, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Leone, e dalla morte di ben due Papi, con l’elezione di Giovanni Paolo II.
Iniziava così, a partire dal 1979, tutta una serie di attacchi alla legge “194”, da parte del mondo cattolico quanto dei radicali, che lasciava presagire che la battaglia sull'aborto si sarebbe rilevata molto più dura e lunga del previsto.
Agli inizi del 1980, alcuni dati, a livello europeo e mondiale, apparivano però incontrovertibili. La Francia, che aveva messo in prova per cinque anni la sua legge del 1974, l'aveva resa definitiva perché l'esperienza passata dimostrava che, con le garanzie sanitarie, il tasso di complicazioni relative agli aborti era diminuito di più del 50%, ed era sparito quasi del tutto quello di mortalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, ben trenta paesi avevano introdotto la legalizzazione dell’aborto: dal Regno Unito (1967) alla Danimarca (giugno 1973), dalla Repubblica Federale tedesca (giugno 1976) all’Italia (giugno 1978). Nella Comunità europea rimanevano ancora legati a leggi restrittive sull’aborto solamente il Belgio e l’Irlanda, mentre perfino le “cattolicissime” nazioni, Spagna e Portogallo, avevano posto la questione all’ordine del giorno. Secondo le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano comunque quasi 50 milioni, ogni anno, gli aborti nel mondo, almeno 20 milioni dei quali clandestini. Malgrado questa cifra impressionante, alla fine del 1979, l’aborto non occupava più il primo posto, ma il terzo, come strumento di controllo delle nascite, dopo la sterilizzazione volontaria e la contraccezione (il problema assumeva però dimensioni catastrofiche in tutti quei paesi dove, per motivi religiosi o legislativi, l’aborto non era sotto controllo medico,
in particolare in America Latina, nel Medio e nell'Estremo Oriente).
Alla fine del 1980, si profilava il successo della raccolta di firme per un referendum contro la legge, messa in atto da parte dell'Mpv, con ben due milioni di consensi, espressione della protesta popolare del mondo cattolico. Il primo referendum dei cattolici intransigenti, quello “massimale”, richiedeva il divieto di aborto in generale, ad eccezione del pericolo di vita per la madre. In questo caso le obiezioni del fronte opposto si incentravano sul rischio del cosiddetto vuoto legislativo. Per questa ragione l'Mpv aveva presentato una seconda proposta di referendum, “minimale”, che proponeva non la soppressione ma la riduzione del diritto d’aborto (art. 4,5 e parzialmente del 6 della legge). Anche in questo modo veniva comunque azzerata la legge “194” nell’autodeterminazione della donna e si ammetteva soltanto l’aborto terapeutico, stabilito dal medico, prevedendo un ritorno alla legislazione precedente. Esisteva però, sul fronte opposto, una richiesta di referendum da parte dei radicali, che mirava a raggiungere la piena liberalizzazione dell’aborto, mentre da parte socialista, il deputato Fortuna segnalava quelle che gli parevano due delle carenze più gravi della legge: il problema delle minorenni che potevano abortire esclusivamente col consenso del padre o del giudice tutelare, e l’esclusione della possibilità di abortire nelle case di cura private.
La questione dell’aborto, che aveva sviluppato un vasto dibattito tra i partiti e nella Chiesa, in prossimità della data del referendum, diventava un tema sempre più appassionato di discussione nella società civile, sentito, per ovvie ragioni, in particolare dal movimento delle donne. Il movimento femminista era andato incontro ad una sostanziale modificazione: dalla prima fase più estremista, era passato, gradualmente, ad una seconda fase, più meditata, di radicamento culturale nella società, deciso a difendere la legge e a migliorarla, senza però farsi intrappolare nello schema riduttivo del “si o no”. Dall'unità di intenti di questi gruppi della società, dei partiti politici della sinistra tradizionale e dei cattolici democratici indipendenti, sarebbe nata la mobilitazione
a favore del mantenimento della legge durante la campagna referendaria.
(Archivio Alinari)
Intanto, dopo la discesa in campo di Papa Wojtyla contro la legge, si incrementavano gli appelli dei vescovi, delle parrocchie (molti parroci tenevano discorsi non solo dai pulpiti, ma addirittura dai palchi predisposti nelle piazze) e delle organizzazioni cattoliche per il “sì”. Nel Sud d'Italia si moltiplicavano le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum proposto dall'Mpv; in qualche caso estremo, anche la statua del santo patrono sfilava incoronata da un cartello con su scritto “Vota sì”.
I risultati del referendum del 17-18 maggio 1981, preceduto dall'attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche), furono netti: il “no” contro la proposta radicale di revisione della legge ottenne l’88,5%,
mentre quello contro la proposta dell'Mpv raggiunse il 67,9%.
I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della secolarizzazione della società italiana. Gli italiani avevano votato contro le tentate imposizioni della Chiesa su un argomento di così rilevante carica morale e civile. Non solo era stata messa in gioco, dopo la precedente sconfitta sul divorzio, l’incidenza politica della Chiesa in Italia, ma la sua stessa influenza culturale. Colpiva, infatti, la quasi coincidenza tra le percentuali provvisorie dei “sì”, intorno al 30%, e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale che, dal 69% del 1950, erano calati al 28% circa del 1980. L’opinione pubblica aveva rivelato, inoltre, una notevole misura di autonomia dai partiti, a fronte di un loro eccessivo coinvolgimento, con forme visibili di politicizzazione, durante la campagna referendaria.
Il voto non era solo la conseguenza di un'affermazione di libertà, pluralismo e autodeterminazione, ma poteva essere letto anche come motivo di preoccupazione per l'indifferenza che toccava non solo la sensibilità religiosa, ma anche quella civile. Una chiara contraddizione era infatti la contemporanea vittoria del “no” all’abrogazione dell’istituto dell’ergastolo. Se davvero il referendum sull’aborto avesse avuto quelle motivazioni culturali e civili che i vincitori gli avevano attribuito, la vittoria avrebbe dovuto essere accompagnata dall’abrogazione dell’ergastolo e non dalla sua conservazione a schiacciante maggioranza. Per la verità, l’appoggio popolare alla possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell’ergastolo contro i delitti più gravi rappresentavano una crescente richiesta di sicurezza da parte degli italiani, che dimostravano il disinteresse verso problemi morali e di principio, e mettevano in evidenza sempre più quel “vuoto etico” verso il quale il recente processo di secolarizzazione, pur benefico e positivo per certi punti di vista, aveva spinto il Paese.
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194
La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceità dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrità e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.
(Archivio Alinari)
La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione più aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.
Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la più autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenità e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era più perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava così il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
La biografia politica di De Gasperi
Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.
- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.
(Archivio Fondazione De Gasperi)
- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilità di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].
- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.
- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).
(Tratto da: “Passato e Presente”, n. 78)
Di Nola, l'antropologia e le religioni
Riproporre le idee di Alfonso Di Nola a dieci anni dalla sua morte, è un modo utile per affrontare seriamente, e in maniera profondamente laica, lo studio del fenomeno religioso, superando due imperdonabili errori in cui troppo spesso si cade: la manipolazione dei dati sul mondo religioso, attuata in primo luogo dalla chiesa cattolica e messa in atto per dimostrare la superiorità del cristianesimo; la scorretta angolatura da cui esso si osserva, ovvero la proliferazione dei pregiudizi sulle altre religioni che si acquisiscono con l'insegnamento nelle scuole italiane e la parallela banalizzazione svolta, molto spesso, da alcuni giornali e dai media. In Italia, ancora oggi, malgrado la grande scuola facente capo (con tutte le differenze del caso) a Raffaele Pettazzoni, Ernesto
De Martino e, appunto, di Di Nola, è sottovalutata,
per non dire ignorata, l'antropologia religiosa.
L'antropologia religiosa è un metodo di studio della religione che tiene conto della sua interazione con il mondo e dei molteplici contesti culturali, quindi anche politici ed economici, in sui essa si manifesta. Secondo Di Nola infatti attraverso la religione «l'uomo esprime e supera la sua fondamentale angoscia esistenziale ed economica attraverso meccanismi che egli stesso crea per sopravvivere e per evitare il crollo nella non-storia» (A. Di Nola, Antropologia religiosa, p. 14). Si tratta, con un contributo di indubbia originalità, di qualcosa di simile a ciò che De Martino chiamava «crisi di presenza», quando cioè tutto avviene come se l'uomo non ci fosse. La religione vista come un modo, messo in atto da parte dell'uomo, per dominare la sua angoscia esistenziale.
In una recensione al libro di Di Nola Antropologia religiosa, Pier Paolo Pasolini scriveva: «L'insegnamento antropologico ha aiutato a vincere e a vanificare la grave tara etnocentrica e culturocentrica e, nella fattispecie, la "violenza immorale" (in Italia) del neo-idealismo e del crocianesimo, che portano alla negazione della comprensione di ogni uomo (non occidentale) come portatore diversità e di alienità» (P. Pasolini, Alfonso Di Nola. Antropologia religiosa, in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, vol. 2, Mondadori, Milano 1999, p. 2135).
Non è un aspetto da sottovalutare e soprattutto, per il periodo in cui veniva individuato, appare davvero lungimirante. L'antropologia culturale e religiosa, secondo l'accezione data da Di Nola, consente dunque di riconoscere il diritto di cittadinanza all'interno della storia a quegli uomini "diversi" dalla cultura occidentale che vivono la propria vita secondo esperienze differenti da quelle nostre. Ogni espressione religiosa, ogni rappresentazione mitica e ogni comportamento rituale si sono presentati come fondati su elementi reali, su quella realtà che una cultura presume come tale: «il che consente di qualificare vere, culturalmente vere, tutte le religioni ed educa ad evitare la costruzione di scale mistificatorie di valori di maggiore o minore verità all'interno di esse» (A. Di Nola, Antropologia religiosa, pp. 16-18). Al fondo di questo ragionamento, decisivo, oggi più che mai, per il dialogo tra le diverse religioni nel mondo, sta l'idea che ogni esperienza religiosa è culturalmente reale, vera, ed ha diritto di pari cittadinanza nel mondo. Prima o poi la cultura italiana italiana dovrà chiarire quanta riconoscenza l'antropologia culturale deve
attribuire ad Alfonso Di Nola [...]
(Archivio Fondazione Di Nola)
D'altra parte non è affatto facile raccogliere l'eredità di Di Nola: per lui il confine tra storia delle religioni e antropologia era estremamente labile, il che fa storcere il naso ai seguaci degli specialismi e, più in genrale, al mondo accademico. Lo studioso gragnanese sostiene, infatti, proprio nell'introduzione generale all'Enciclopedia: «Le strutture religiose sono state analizzate nella loro dinamica di rapporto con tutte le componenti umane cui appartengono, al di fuori di ogni schematizzazione precostituita: respingendo la prospettiva che isola la vita religiosa in una sua presunta autonomia assoluta». Si capisce subito quanto sia difficile rinchiudere in uno spazio disciplinare specifico un'opera e una personalità, a dir poco complessa e duttile, tendente all'eclettismo, come quella di Alfonso Maria Di Nola. Approdato dal marxismo critico allo studio della psicanalisi, poi all'illuminismo laico e intransigente, passando per l'incontro con Croce, le lotte sindacali al fianco dei preti operai francesi e la condanna di Pio XII, negli anni Settanta Di Nola divenne Professore di Storia delle Religioni e Antropologia culturale prima all'Università di Arezzo, poi all'Istituto Orientale di Napoli e, infine, all'Università di Roma. Nelle sue opere traspare tutta la sua versatilità di interessi. In La morte trionfata e La Nera Signora tratteggia due grandi affreschi sul lutto; in Lo Specchio e l'olio descrive e analizza le superstizioni degli italiani, con rigore scientifico misto a sferzante ironia, sovvertendo i tradizionali giudizi sulla loro negatività, e da lui definite, piuttosto, "rassicuranti", "innocue" e "positive"; nel saggio Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana ricostruisce, gramscianamente, il rapporto tra cultura cattolica dominante e cultura popolare, scoprendo, per esempio, che in Toscana andavano dalle maghe anche operai di buon reddito, da sempre iscritti al Pci; in L'inchiesta sul diavolo ricostruisce le vicende di Satana e la sua universale e malefica presenza presso tutte le religioni e i popoli dall'antichità ai nostri giorni, come personificazione del Male.
Di Nola fu soprattutto un maestro di laicità, libero pensatore in un paese come l'Italia dove l'egemonismo cattolico più intransigente si sente unico interprete dei problemi religiosi. Viene da chiedersi: per quanto tempo ancora?
(Estratto da: “Il Ponte”, n. 5-6)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)
Unità nella diversità
(Archivio Alinari)
“E’ chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di don Milani per chi (…) sia stato istruito nella contrapposizione tra cattolici e comunisti, tra progressisti e reazionari, fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista (…) Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, non una contrapposizione, ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico, non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perchè non ha riferimenti attuali, non interviene nell’ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva”.
Sono parole di Michele Ranchetti, che chiariscono il motivo per cui Mario Gozzini, citando don Milani, in più di un’occasione, non si conformasse semplicemente a quella che era, ormai, specialmente dopo il Sessantotto, una consuetudine diffusa all’interno del mondo cattolico e di quello laico, anche comunista; ma attingesse direttamente dall’intimo significato dei suoi scritti, attraversandoli con la propria azione intellettuale, e lottando proprio contro quelle contrapposizioni cui accennava Ranchetti. L’incontro tra i due, come si è visto, fu breve e non ebbe seguito, ma diede certamente i suoi frutti successivamente. L’ “Unità nella diversità”- come l’aveva chiamata qualcuno, matura i risultati migliori nel lungo periodo.
Prendendo in esame la vicenda del rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, figure così diverse per linguaggio, formazione culturale, interlocutori, pur operanti, almeno fino a un certo momento, nello stesso terreno d’azione del mondo cattolico, non si può prescindere da un chiarimento riguardante la cosiddetta “unità nella diversità”. Anzi, più corretto sarebbe parlare di due facce diverse ma complementari della volontà riformatrice e rinnovatrice di un preciso, seppur esiguo, cattolicesimo italiano. Una faccia più culturale, equilibrata e poi politica, quella di Gozzini; più colloquiale e direttamente sociale, senza mediazioni di sorta, culturali, storiche, civili, alla verità religiosa,
quella di don Milani.
Può essere utile, a tal fine, tornare indietro di qualche anno, e accennare ad uno scambio d’idee tra Elio Vittorini e Carlo Bo. Alla fine del 1945, Vittorini, dalle colonne de “Il Politecnico”, lanciava un appello per una “nuova cultura” che contribuisse alla ricostruzione politica e sociale del paese. Fra i capisaldi di questa “nuova cultura”, Vittorini inseriva di diritto il nome di Cristo. Bo, dalle pagine di “Costume”, lo invitava a “credere nella vita che è Cristo, fuori da ogni modo di cultura e di società”. In risposta, Vittorini lo chiamava a “far valere il più possibile, nel comune lavoro degli uomini cristiani e non cristiani, (…) la sua effettiva importanza storica, la sua importanza, anche potenzialmente sociale, la sua importanza, in una parola, culturale”. Bo aveva dunque risposto alla sollecitazione di Vittorini con una richiesta di conversione, dimostrando di non aver colto il senso del suo appello. Ma qualcuno avrebbe presto raccolto la “sfida” lanciata dal non cattolico Vittorini, e avrebbe provato a dare una risposta non solo teorica, ma sulla propria pelle, dentro la propria stessa vita quotidiana. “Cristo è o non è, anche, cultura?” E’ una domanda che Gozzini e don Milani, per altri versi, affronteranno durante tutta la loro opera. Don Milani guarderà sempre con sospetto alla cultura, agli intellettuali, e proporrà una cultura “altra”, quella della “sua” scuola. Gozzini, e su questo punto si consumerà, come vedremo, il mancato sviluppo del rapporto tra i due, è ben saldo dentro un tipo di azione culturale, forse più tradizionale nei metodi, ma non per questo meno rivoluzionaria nei contenuti. Entrambi credono sicuramente nell’importanza storica di Cristo e quindi nel suo valore culturale. Ma l’intuizione di Vittorini chiamava in causa un altro tema decisivo per i due nostri autori, quando faceva riferimento alla legittima possibilità di introdurre la democrazia nella chiesa:
“Per gli uni (cattolici, n.d.a.) la chiesa è al di sopra della vita. Per gli altri (non cattolici, n.d.a.) è semplicemente fuori dalla vita. Ed entrambi hanno torto allo stesso modo; entrambi non vedono la grande importanza che essa ha nella vita.”
La grande importanza che la chiesa, una chiesa giusta, onesta, democratica, può avere nella vita, nella realtà, per tutti. Don Milani ha insistito spesso su questo punto. Ma è questo un argomento ricorrente nella storia del cattolicesimo italiano: chi lotta all’interno del mondo cattolico, affinchè si cerchi di introdurre nella chiesa un modo più democratico, magari provando ad iniziare un confronto aperto con il mondo dei non credenti, collaborando con loro, finisce per essere attaccato ed accusato o di essere un ex prete, se parte della chiesa, o di essere “passato ai barbari”, se laico. Don Milani sarà accusato, in vita, di essere un prete rosso, di essersi “venduto” ai comunisti (in particolar modo dalla stampa cattolica o di destra), di essere un “alienato”, da parte della stessa chiesa. La stessa accusa di essersi “venduto” toccherà Gozzini nel ’76, dopo il “dialogo alla prova” e l’impegno da “indipendente” accanto al Pci. Il Concilio Vaticano II c’era stato da un pezzo, ed aveva, in parte, dato alcune risposte alle domande di democrazia che si levavano verso la chiesa. Eppure, come si può ben capire, ancora discriminazione e pregiudizio rimanevano intatte costanti di certi reiterati giudizi.
Questa “resistenza” nella diversità è ripresa con la stessa appassionata volontà riformatrice, sia da don Milani, sia, successivamente, da Gozzini. E’ nota la “resistenza” di don Milani prima nella comunità limitrofa di San Donato, poi dall’eremo di Barbiana. Don Milani sfugge ogni irrigidimento in schemi, ogni etichetta. Non è stato un prete dissidente o un sovversivo, non è stato un “cattolico di sinistra”, non è stato l’anti-intellettuale. Per questo è così difficile parlare di lui, accostarlo ad altri personaggi o vicende, ma è da qui, soprattutto, che nasce il fascino entusiasta di parlarne. Obbediente a Dio, alla chiesa, al primato della coscienza; ma di un’obbedienza che si è manifestata agli atei come prova di rigorosa coerenza, come radice indiscutibile di testimonianza, che si è manifestata a molti preti e cattolici come la via per restare fedeli alla chiesa ma non ai privilegi borghesi, agli ordinamenti “fascisti”. La sua è una resistenza “obbediente” ma, come tale, paradossalmente, è rivoluzionaria.
Gozzini invece è ancora tutto da studiare. Anche se non sfugge, perfino ad uno primo sguardo sulla sua opera, il ruolo di coscienza critica interna, di ricettacolo di confronto, dialogo, pluralismo, prima dentro al mondo cattolico, poi dentro a quello comunista.
In effetti, don Milani e Gozzini si posero, tra i tanti temi affrontati, alcuni problemi analoghi: è possibile una forma di “democrazia” dentro la chiesa? Può la speranza di una salvezza ultraterrena, dare il tempo, segnare il ritmo, all’azione, tutta terrena, dell’uomo? E’ vero che la maggiore forza dello spirito cristiano, ben più della relativa e mutevole ideologia, è rappresentata dalla cosiddetta “riserva critica”, ovvero ciò che non permette di fermarsi mai su nessun assetto storico come qualcosa di immutabile e di assoluto? E se sì, su questa base, si può riuscire ad avviare un confronto critico o anche un dialogo tra due mondi, appunto, “diversi”, per cultura, religione, tradizioni, come quello cristiano e quello comunista?
Eppure il rapporto tra questi due uomini, la loro coerente “diversità”, il recupero di certe istanze e peculiarità nel lungo periodo, vanno studiati per cogliere il significato di quella battaglia comune, non solo per una chiesa più democratica ma per un mondo più giusto, portata avanti, anche in nome di quella stessa diversità. Diversità, non solo di idee (e, a volte, ideologie) ma, più in generale, di religioni, di culture, di popoli, e attraverso la quale, forse, si potrà finalmente risolvere la questione dell’incomunicabilità, della guerra, tra i diversi, e gettare le basi per nuove, più solidali e democratiche, città del mondo.
(Estratto da: “Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2)
Il disagio dei cattolici e la miopia della sinistra
(Archivio Alinari)
In questi giorni ricorre il trentennale del referendum del 1981 che sancì la conferma della “194” , la legge che introduceva per la prima volta in Italia, in ritardo rispetto a molti altri paesi europei, la regolamentazione dell'interruzione della gravidanza. Promossa dal deputato socialista Loris Fortuna, dal movimento organizzato delle donne e dai radicali, pur con le varianti limitative introdotte, volute dai comunisti e dai cattolici democratici, la legge era stata votata in Parlamento da Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e Sinistra indipendente, con la contrarietà di Dc (seppure con molte defezioni) ed Msi. Il Parlamento italiano era giunto a quel voto dopo un dibattito lungo ma di alto livello culturale, con un Paese fortemente diviso nelle piazze: non, come si è soliti semplificare, tra abortisti e anti-abortisti, quanto tra sostenitori e oppositori di una legge che voleva limitare al massimo il drammatico fenomeno degli aborti clandestini.
Dopo la promulgazione, la polemica pubblica si indirizzava sul tema dell'obiezione di coscienza all'aborto, prevista dalla legge, ma utilizzata strumentalmente dalle forze intransigenti e, in particolare, dal nascente Movimento per la vita (Mpv), per boicottarne la corretta applicazione. Durante il confronto che precedette il referendum, i fronti contrapposti videro schierate, da un lato, a favore della legge, le forze laiche presenti in Parlamento, dall'altro, le gerarchie ecclesiastiche, la Dc (la cui segreteria, peraltro, decise di non spendersi molto durante la campagna referendaria), alcuni movimenti cattolici come Mpv e Comunione e Liberazione (Cl). Rappresentarono una variante significativa ai fini di spostare il voto di una buona parte dell'elettorato dei credenti a favore della legge, gruppi, riviste, personalità cattoliche che decisero di seguire la propria coscienza e di votare in maniera difforme alle direttive ecclesiastiche e ai richiami di Papa Wojtyla. Oltre alle prese di posizione contrarie al referendum abrogativo manifestate dai Cristiani per il socialismo, dalle Comunità di base, dai candidati cattolici indipendenti, spiccarono, durante il dibattito referendario, le dichiarazioni controcorrente, da un lato, di Pietro Scoppola, che, pur avendo appoggiato in precedenza i gruppi della sinistra cattolica che avevano mediato per l'approdo alla legge, decise di schierarsi a favore; dall'altro, l'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Norberto Bobbio che si espresse,
seppure con motivazioni esclusivamente ideali, contro la legge.
A parte le dichiarazioni di principio dei rappresentanti della Dc, dell'Azione cattolica e della Chiesa , ad un'analisi più attenta, emergeva una posizione del mondo cattolico nient'affatto allineata e tanto meno compatta. Se i documenti episcopali emanati in prossimità del referendum presupponevano una società italiana non ancora secolarizzata, in cui il modello soggettivo di fede era confuso con quello proposto come ufficiale dalla chiesa, in una visione completamente superata dai fatti, l'orientamento di movimenti come Acli e Cisl era stato di distacco, per cui si propendeva per un timido “sì” al referendum ma si dava agli aderenti la possibilità di votare secondo coscienza. Lo stesso atteggiamento aveva assunto, in sostanza, la Dc.
Lo scollamento di un mondo cattolico sempre più inquieto di fronte a problematiche morali di così vasta portata dava un esito referendario sorprendente (segnato anche dall'attentato al Papa), che riportava il 32% per il “sì” contro il 68% di voti che riconfermavano la legge. Colpisce la quasi coincidenza tra la percentuale del “sì” e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale, che dal 69% del 1956 era calata al 30% nei primi anni ottanta (nonostante l'ancora altissima percentuale degli italiani battezzati, circa il 97%). La società appariva largamente secolarizzata e notevolmente autonoma rispetto alle indicazioni dei partiti. Va ricordato, inoltre, il dato di altissima partecipazione da parte del mondo cattolico al Centro e al Nord, fortemente mobilitato dalle sinistre laiche e dai cattolici democratici, contrapposto invece alla forte astensione al Sud, nelle zone rurali ad alto tasso di voto democristiano. La Chiesa appariva la grande sconfitta del referendum: cresceva il numero di coloro che, pur dichiarandosi credenti, non ritenevano di essere obbligati a seguire le sue indicazioni su questioni morali che toccavano da vicino la vita di tutti i cittadini.
A distanza di trent'anni dall'esito di quel referendum, risulta ormai un dato di fatto il significato positivo di quella battaglia: l'Italia ha oggi il tasso di abortività più basso del mondo, cioè a dire 8,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne (e diminuisce ancora tra le minorenni al 4,8), mentre, più in generale, gli aborti sono calati del 50%, passando dai 231 mila del 1982 ai 116 mila del 2009 (di cui ben il 33% è dovuto alle immigrate, quindi la percentuale degli aborti tra le donne italiane è ancora inferiore). Appare più interessante, invece, fare un confronto con il mondo cattolico, la chiesa e le forze di sinistra odierne. Dopo la fine della Dc, le gerarchie ecclesiastiche hanno avuto la possibilità di “fare politica” a tutto campo, rivolgendosi non solo al centro, ma anche a destra e a sinistra indistintamente, nel tentativo di condizionare i programmi e incassare provvedimenti legislativi favorevoli alla chiesa. Questo scenario si è rivelato in tutta la sua portata in occasione della enorme astensione del mondo cattolico al referendum del 2005, quello relativo alle modifiche alla legge “40” sulla fecondazione assistita. Nella stessa direzione - nel senso di ingraziarsi la Chiesa - vanno le più recenti prese di posizione del governo di centro-destra, con l'appoggio trasversale dell'Udc, su alcuni temi: l'opposizione all'utilizzo delle cellule staminali nella ricerca scientifica, in opposizione a quanto indicato da tutta la comunità scientifica internazionale; l'indicazione contraria alle direttive anticipate di trattamento sul testamento biologico, che non devono essere vincolanti per il medico, secondo cui l'idratazione e la nutrizione artificiali non possono essere sospese perché considerate forme di sostegno vitale; il “no” fermo a ogni forma di eutanasia; la contrarietà all'utilizzo e alla diffusione della pillola abortiva Ru486. Le ragioni del favore fatto dal governo alla Chiesa non sono solo di principio e di ordine morale ma anche di business.
A differenza del passato, però, su questi punti è venuta a mancare la compatta e coerente opposizione da parte della maggiore forza dell'opposizione e del centro-sinistra, il Pd, rilevatosi incerto e contraddittorio, per il timore di rompere con il mondo cattolico ad esso più vicino. A questo punto si tratta di analizzare meglio questo rapporto, con un mondo cattolico sempre più inquieto, confuso sulle opzioni politiche proposte, propenso all'astensionismo, diviso tra cattolici progressisti e intransigenti, e con le gerarchie ecclesiastiche, decise invece ad appoggiare un governo con sempre meno appeal, pur di incassare i suoi interessi sui temi cosiddetti non negoziabili. Guardare al mondo cattolico nella sua interezza è un errore grossolano. Lo fa oggi il Pd, così come lo faceva il Pci di Togliatti, quando non distingueva tra questione cattolica e questione democristiana. L'episcopato, ormai dalle vicende del referendum sull'aborto, anche se la scomparsa del partito democristiano lascerebbe ipotizzare il contrario, non rappresenta realmente il portavoce politico di tutti i credenti. Occorre distinguere sempre, infatti, tra credenti intransigenti e credenti che decidono di riservare il primato delle scelte su questi temi alla propria coscienza. E proprio su questo punto il Pd e tutta la sinistra dovrebbe impostare un approccio completamente diverso, intanto mettendo da parte la soggezione e il senso di inferiorità dimostrato nei confronti della chiesa, poi cercando di compattare e unificare le visioni di molti cattolici che, su temi come un testamento biologico ispirato all'autodeterminazione, come la regolamentazione delle coppie di fatto etero e omosessuali, come la difesa della “194”, si trovano sostanzialmente d'accordo.
Un po' quello che accadde, come si è visto, nel caso della battaglia referendaria sull'aborto.
Questo mondo cattolico, indispettito dal silenzio nei confronti del governo e dal conformismo verso la maggioranza imposto dalle gerarchie ecclesiastiche, aspetta un interlocutore politico serio. Si tratta di persone credenti impegnate nel quotidiano, presenti nelle parrocchie, nelle associazioni, nelle scuole, che esprimono un bisogno di moralità, di onestà, di serietà istituzionale, allo stesso modo di tanti altri non credenti. Tutto ciò poco ha a che vedere con la prospettiva di alleanza strategica con il terzo polo, fatta sulla testa degli elettori e della stessa base dei partiti di sinistra. L'esempio della mobilitazione durante il referendum sull'aborto, se letto correttamente, fornisce spunti interessanti per sciogliere il nodo di questo travagliato
e quanto mai decisivo rapporto tra mondo cattolico e forze di sinistra in Italia oggi.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 45)
(Archivio Alinari)
Pensavo, tornando a casa...
(Archivio Alinari)
Oggi faceva proprio freddo sul viale, al cader della sera, mentre tornavo a casa dall'istituto storico. Strana atmosfera, politicamente. Una banale conversazione tra due uomini carpita nel bus: parlano del premier e lo definiscono un puttaniere e un bastardo. Mi avvicino e gli chiedo sarcasticamente: chi lo ha votato? da chi può essere sostituito? Il discorso allora si fa vago. "Quel Fini lì non mi convince". "Draghi e Montezemolo sono più affidabili"... Ma, in definitiva, non sanno rispondere. Per loro non si tratta neppure tanto di ragionare o di fare ipotesi, quanto di scacciare l'incubo, questo tarlo che ha ormai preso a morsi lo stomaco del paese. Scendo dal bus e trovo alla fermata alcuni mendicanti. La vita materiale è sempre più difficile, per tutti, non solo per le fasce di marginalità sociale. Il paese è soffocato dalla mancanza di una politica economica e di direttive precise sul fronte del lavoro. La protesta degli studenti medi e degli universitari si salderà presto con quella dei licenziati, dei cassintegrati, degli sfruttati. Ma chi avrà la capacità e la lungimiranza di incanalarla? Anche le classi agiate non contengono la loro impazienza, dovuta all'impossibilità di continuare ad arricchirsi sempre di più come un tempo. Le classi medie scivolano sempre più nel pantano della povertà. L'opposizione sembra intorpidita, inerme, sulla difensiva. Da mesi la lotta sociale si è fatta costante. Da un po' di tempo, tutto sembra svolgersi nelle strade e nelle piazze, ma pochi ( a parte i diretti protagonisti) se ne accorgono, visto che la tv e la stampa nazionale vivono una stagione di sempre più grigio conformismo, eccetto rari casi. Tutti sentono che dietro l'agitazione e le rispettive parole d'ordine, il giustizialismo di alcuni, il moderatismo di altri, il populismo di altri ancora, si è instaurata una attesa inquieta. Gli avvenimenti che si preparano sembrano avvolti nel segreto. Solo pochi eletti sanno come andranno a finire le cose. Da ogni parte si preannuncia e si aspetta la caduta di questo governo, ma tutto viene rimandato sempre all'indomani. A poco a poco il sistema politico sembra uscire dalla realtà sociale. La crisi economica è chiaramente giunta ad un punto di rottura. Ciò che mi colpisce di più è la passività del governo anche in questo campo. Nessuno dà spiegazioni: non si prende misura alcuna. Un'analisi dell'economia e della politica economica avrebbe allo stato attuale una enorme importanza, anche soluzioni estreme ma chiare, nette. Un confronto preciso e anche aspro sui contenuti gioverebbe alla chiarezza. Ma nulla di tutto ciò accade. Non è solo economia però, mi sembra altrettanto urgente puntare all'analisi del fatto politico. Il blocco di centro-destra si è spaccato, il governo è in balia dei finiani. I centristi riacquistano un ruolo politico dopo tanto tempo, un peso condizionante. Ma il punto dirimente è altrove. Riconosco un democratico per il semplice fatto che sempre, nel bel mezzo di una conversazione, la sua analisi si arresta, la sua voce cambia, il suo sguardo si fa lontano. Ha spesso avuto riverenza nei confronti della Chiesa e di quel mondo così lontano e sfuocato, al punto da sottomettersi ai suoi ricatti. Ha sempre avuto un senso di inferiorità nei confronti dei conservatori, prima dei democristiani, poi dei centristi cattolici, infine dei finiani. Si può ironizzare su uomini politici che occupano posizioni ufficiali di potere, vivono in belle e comode ville e sognano il cambiamento, per non dire la rivoluzione. Anzi è una parola che non va più di moda: adesso la chiamano riformismo. Chissà se queste contraddizioni un giorno finiranno per esplodere per merito di qualcosa o di qualcuno. La verità è che il paese ha vissuto questo ultimo anno fuori dalla società, non ha più una classe dirigente credibile, e tanto meno un governo, tutto avviene ai vertici. Le nuove generazioni, spesso, si disinteressano di politica, per rigetto, per rifiuto automatico. E tutto rimane in mano a pochi emuli che sono già vecchi a vent'anni. Ho voglia di dire ai democratici: svegliatevi! Se le cose continuano così il partito democratico vedrà una volta di più diminuire la propria capacità di mobilitazione della società, già ridotta al minimo. Ma parlo così forse perché mi innervosisce l'attesa di una schiarita e sono annoiato ormai di vivere alla giornata senza nessuno ( o quasi) che sappia indicare un progetto chiaro e soprattutto sappia perseguirlo.
(Archivio Alinari)
Politica e società civile. I cattolici, la sinistra e il berlusconismo
Dopo le esortazioni degli intellettuali durante un recente convegno fiorentino sul berlusconismo (“Società e Stato nell’èra del berlusconismo”), sembra essersi finalmente svegliata quell’opinione pubblica virtuosa finora costretta quasi ad agire nell’ombra, senza alcuna visibilità mediatica. Viene alla luce quella sorta di “piazza pubblica” formata da cittadini critici e vigili sulle regole della democrazia, disposti a impegnarsi attivamente, nei rispettivi ambiti, per assumere comportamenti consapevoli e buone pratiche in una società sempre più globale. Firenze ritorna ad essere, per qualche momento, quel punto di incontro cruciale, culturale e politico, che fu ai tempi del sindaco La Pira. Pochi giorni dopo il convegno si è svolto, infatti, sempre a Firenze, il congresso fondativo di Sel, dove il discorso evocativo di Vendola è emerso come un tentativo di rispondere e reagire alla cultura imperante del berlusconismo.
Dalle riflessioni degli studiosi appare chiaro il significato del berlusconismo. Berlusconi rappresenta l’effetto e non la causa dell’attuale situazione politica. La conseguenza di tre elementi: dal punto di vista istituzionale, la crisi del sistema liberal-democratico; in ambito politico-sociale, il prosieguo del craxismo e dell’affarismo democristiano; culturalmente, la diffusione del consumismo esasperato e la crescita smisurata del ruolo della televisione. Il fenomeno invece è il frutto di un sistema in cui la volontà popolare non è più stata in grado di esprimersi criticamente perché influenzata dal potere televisivo. A far da collante, il rapporto privilegiato con una parte del mondo cattolico. L’interesse della Chiesa è sempre stato la tutela dei suoi privilegi materiali (le finanze, il regime fiscale, l’esercizio di attività nel settore dell’assistenza), con tutte le sue ramificazioni (dalla sanità all’istruzione). Su questi punti l’appoggio del berlusconismo è stato netto: dall’esenzione Ici per gli edifici ecclesiastici, ai finanziamenti alle scuole private, fino al ruolo degli insegnanti di religione. Anche sul fronte del diritto alla vita e della bioetica, le garanzie sono state evidenti. Ad un certo punto però l’idillio sembra essersi interrotto. Come è accaduto altre volte nella storia d’Italia, l’abbandono da parte della Chiesa dell’appoggio a un regime o a un partito è anch’esso più un preannuncio che una causa del suo crollo. Dopo le posizioni prese da Avvenire e da Famiglia Cristiana, è partita dal mondo cattolico, nella sua base ecclesiale, ma anche in quella sociale, una parvenza di sfida al berlusconismo. Si tratta di capire che ruolo e che impegno questa sorta di “galassia cattolica inquieta” sarà in grado di fornire.
Una parte degli italiani è consapevole di questa situazione, dell’indebolimento delle istituzioni dello Stato e delle sue leggi, così come della eccessiva frammentazione dei partiti di opposizione. Al di là dei sondaggi, basta guardarsi intorno per capire come la crisi della politica abbia ormai superato il limite di guardia, giungendo ad un punto tale da rischiare il tracollo, andando oltre il fenomeno dell’anti-politica e dell’astensionismo.
Rispetto al passato il berlusconismo appare, per certi versi, ripetitivo, ma per altri sembra essersi incattivito. Ha portato alle estreme conseguenze i suoi caratteri: il decisionismo diventato autoritarismo, il culto della personalità e del successo, il populismo, il disprezzo per la carta costituzionale, l’annichilimento del parlamento, l’attacco alla giustizia, il maschilismo, l’incitamento all’odio per il fisco, per la cultura, per la diversità, fino a vere e proprie forme xenofobe, ai limiti del razzismo, nei confronti della popolazione immigrata (fomentato dalla Lega). La crisi della politica tradizionale si è intrecciata con l’affermarsi dei suoi tratti più deleteri: la spettacolarizzazione e la banalizzazione dei contenuti, che hanno avuto come strumento cruciale di propaganda la televisione. A questo si è unita la disgregazione sociale dei ceti medi, dovuta non solo alla globalizzazione ma anche all’incertezza nata dal cambiamento dei rapporti tra lavoratori e imprese. L’appoggio che il berlusconismo ha dato ad una parte dei ceti medi del lavoro autonomo (con agevolazioni fiscali, condoni) a spese del lavoro dipendente e del mondo della cultura ha portato ad un’alta conflittualità sociale. Questa appare anche la logica conseguenza dell’affermarsi dell’individualismo proprietario dei ceti emergenti rampanti, che non ha paragoni in Europa, frutto della squilibrata redistribuzione della ricchezza, con il doppio regime fiscale e la mortificazione economica del lavoro dipendente, e risultato dell’ideale consumistico sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 ed oggi entrato in piena crisi di identità.
Di fronte a tutto ciò, il grave errore commesso dall’opposizione è quello di marciare in ordine sparso: riformisti, radicali e cattolici hanno rivendicato le proprie ragioni di esistere, marcando le proprie differenze, finendo per risultare rissosi e velleitari agli occhi dell’elettorato, lasciando soli i soggetti più deboli, mentre sarebbe più opportuno pensare a un vasto, e non obbligatoriamente omogeneo, movimento di forze reali, partiti e gruppi, una rete di istanze e associazioni collegate dal basso, che facciano però riferimento ad una guida unitaria da eleggersi attraverso il meccanismo delle primarie, che rispetti le specifiche caratteristiche dei diversi partecipanti, ma che non inglobi le diversità e le rivitalizzi in un progetto politico e culturale nuovo, con un programma di governo alternativo ed efficace.
Proprio in contrapposizione a certi metodi di corruzione eletti ormai smaccatamente a sistema, senza più alcuna ipocrisia, sta emergendo nel Paese, seppure ancora in forma minoritaria, una forte percezione della questione morale, un’ansia di pubblica moralità, soprattutto nei giovani, tali da mettere in moto, se guidate e incanalate correttamente, un processo di contrasto alla spregiudicatezza e alla disinvoltura morale di cui fornisce prova il cosiddetto Palazzo. È questo uno dei segni più interessanti dell’azione di lungo periodo iniziata con la storia dei movimenti negli anni ‘70, proseguita durante il processo di secolarizzazione della società italiana (col contributo di una parte considerevole dei cattolici all’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto), nella battaglia di democrazia vinta contro il terrorismo di destra e di sinistra, nella parentesi di Tangentopoli contro la partitocrazia, nella lotta alla mafia e a tutte le forme, vecchie e nuove, di criminalità organizzata. E che è proseguita fino ad oggi, contro le leggi ad personam, il conflitto di interessi, la censura nei servizi di informazione pubblica. Esistono tanti giovani pronti a battersi perché la concezione utilitaristica e opportunistica della politica siano respinte, a partire dalle concrete responsabilità di ognuno nella vita quotidiana; giovani che rifiutano tutti i metodi non trasparenti, clientelari, familistici, tutte le zone grigie che si insinuano tra potere pubblico e poteri privati e che si sforzano, nella loro difficile esistenza, di rispettare le regole. Le virtù critiche e laiche di una parte della società italiana, un tempo maggioritarie, adesso non più perché sopite da anni di grigio conformismo, possono suscitare una reazione capace di incidere sugli orientamenti collettivi e destinata col tempo a crescere e a diventare maggioritaria. È necessario che in questo processo siano protagonisti laici, riformisti, radicali e cattolici, in un luogo in cui contino le competenze, la conoscenza e la professionalità e non la militanza burocratica e l’adesione acritica ai rispettivi leader o partiti di riferimento. Senza la politica, una politica completamente rinnovata ma forte, organizzata, creativa, senza un progetto culturale di ampio respiro, che coinvolga mondo laico e mondo cattolico, partiti e società civile, sarà impossibile costruire una reale alternativa sociale e culturale, in tempi brevi, al berlusconismo. È questa invece la vera nuova rivoluzione a cui ognuno è chiamato per fermare
la deriva a cui sta andando inesorabilmente incontro il nostro Paese.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 87)
(Archivio Alinari)