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Unioni civili e il vizio italiano di stare fuori dal mondo

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Fonte: Linkiesta

Il riconoscimento giuridico delle unioni civili, e in particolare di quelle omosessuali, si è ormai esteso in quasi tutta l'Europa. Gradualmente ma senza particolari difficoltà, con una sempre crescente accettazione sociale da parte della popolazione, almeno della maggioranza, e con una attribuzione di diritti economici e sociali sempre maggiore, fino anche alla possibilità, in alcuni casi, di adottare bambini da parte delle coppie non sposate.
Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Austria, Spagna, perfino, pi
ù di recente, Ungheria, Portogallo, Irlanda, Islanda e Sud Africa sono paesi che hanno affrontato e risolto la questione, talvolta pacatamente, altre volte con scontri e polemiche, come è anche giusto che sia, nei rispettivi parlamenti. Ma non ci sono solo i singoli stati sovrani. Ci sono state anche deliberazioni più generali: nel 2003 una storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarava incostituzionali le legislazioni contro gli omosessuali, poi la stessa cosa stabiliva la Corte costituzionale tedesca; infine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vietava qualsiasi discriminazione fondata, oltre che sul sesso, la razza, la religione, la lingua, le opinioni, il patrimonio, l'handicap, anche le caratteristiche genetiche, appunto, cioè le tendenze sessuali del singolo cittadino europeo.
In un simile contesto europeo e internazionale, va da s
é che il parlamento italiano sia del tutto inadempiente, per non dire latitante, su una questione di siffatte implicazioni civili, morali, teoriche e pratiche, che non coinvolgono, come qualcuno potrebbe pensare, una sparuta minoranza degli italiani. Bastano due semplici dati per dare l'idea dell'entità della questione: oggi sono circa 650 mila nel complesso i conviventi effettivi; il numero degli omosessuali dichiarati si attesterebbe intorno al 5% della popolazione nazionale. Non esistono finora dati ufficiali; l'Istat ha previsto un primo censimento per il prossimo anno, il che la dice lunga sulla sottovalutazione dell'argomento qui da noi. Si può fare solo un breve resoconto, alquanto striminzito peraltro, e non certo per colpa degli osservatori, ma per oggettive ragioni di carenza propositiva da parte delle forze politiche italiane.
I primi disegni di legge furono presentati nella met
à degli anni Ottanta, sollecitati dall'associazione per i diritti degli omosessuali (Arcigay), e appoggiati, peraltro timidamente, solo da socialisti, radicali e indipendenti di sinistra. Negli anni Novanta le proposte di aggiornamento alle legislazioni più avanzate sono aumentate, sulla spinta delle richieste del parlamento europeo, ed hanno avuto una maggiore ricezione anche presso altre forze politiche più moderate, con parziali quanto velate aperture, in realtà esclusivamente teoriche, sia a sinistra che destra. Prima alcune città pilota (come Pisa), poi intere regioni (Toscana, Umbria, Emilia-Romagna), con le modifiche dei loro statuti, si sono dichiarate favorevoli ad una legge sulle unioni civili, istituendo i registri delle convivenze. Negli anni Duemila, durante il secondo governo Prodi, fu discusso alla Camera un disegno di legge presentato da Grillini che si richiamava ai Pacs francesi, poi si parlò di un'ipotesi di legge denominata Dico (Diritti e dove delle persone stabilmente conviventi), poi Cus (Contratto di unione solidale), infine Didore (Diritti e doveri di reciprocità dei conviventi). Sono cambiati i nomi, ma non la sostanza: tutte le proposte sono miseramente fallite, insabbiate da più fronti congiunti.
Nel 2010, per
ò, la Corte costituzionale italiana ha stabilito la rilevanza appunto “costituzionale” delle unioni civili e omosessuali, cioè a dire la possibilità stessa del riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri di questo tipo di convivenze. Ora, stabilito questo principio giuridico, è evidente che per adeguare la costituzione occorre l'azione del legislatore, quindi del parlamento. Ma non si tratta certo di attuare una revisione costituzionale su un tema in Italia così controverso, per la quale occorrerebbero grandi convergenze politiche, assolutamente improbabili allo stato attuale, quanto di formalizzare la distinzione, già sancita peraltro dalla Carta dell'Unione, tra “diritto di sposarsi” e “diritto di costituire una famiglia”, anche tra persone dello stesso sesso.
Allo stato attuale, almeno in Italia, sono state spese tante belle parole, ma sono stati fatti davvero pochi fatti. Ad oggi l’ordinamento giuridico italiano non riconosce a chi convive senza essersi sposato, doveri di mantenimento, n
é di assistenza, né tanto meno, diritti. In mancanza di una legislazione generale coerente, nel corso del tempo, sono state riconosciute alcune eccezioni: succedere nel contratto di locazione, in caso di morte del convivente; in presenza di figli naturali, quando cessa la convivenza, ottenere dalle assicurazioni un indennizzo, come spetterebbe ad un coniuge; ricevere la pensione di guerra. Esiste, certo, la possibilità di stipulare con il convivente un accordo scritto privatamente, possibilmente redatto da un avvocato o da un notaio, in cui si indicano la ripartizione delle spese e la suddivisione dei beni in caso di rottura. Nient'altro. Roba da Medioevo.
In Italia per
ò, si sa, c'è un potere, non direttamente riconducibile a un preciso partito o a un governo specifico, ma piuttosto ad una vera e propria istituzione, che, nel corso della storia, ha sempre condizionato, influenzato, a volte ridimensionato e addirittura bloccato certe leggi: si tratta, come si è ben capito, della Chiesa. Nel legittimo esercizio del suo magistero, la Chiesa si è sempre opposta, finora, salvo rare eccezioni, e come dimostrano i documenti della Congregazione per la dottrina della fede, a questo adeguamento della legislazione con l'evoluzione del quadro internazionale.
È solo uno dei tanti intricati capitoli dei rapporti tra stato e chiesa in Italia: un affare di coscienza, per una libertà religiosa in Italia, aveva scritto Alessandro Galante Garrone in un libro; Arturo Carlo Jemolo li aveva sintetizzati in una semplice frase “Gli anni della Repubblica non hanno visto, in materia dei rapporti tra Stato e Chiesa, nulla di sensazionale, nulla che ricordi le acri lotte del Risorgimento”. Questo giudizio, scritto nel 1965, può essere tranquillamente sottoscritto oggi.
A questo proposito, per rimanere nell'ambito del nostro argomento, pu
ò essere interessante fare un salto indietro nella nostra storia e vedere qual è stata la sua posizione in occasione della vicenda che ha portato, prima con la legge del 1970, poi con il referendum abrogativo, a far diventare legge anche in Italia lo scioglimento del matrimonio. Negli anni Sessanta nonostante il tanto esaltato miracolo economico, i costumi della società non avevano subito grandi trasformazioni dai tempi del fascismo. Erano ancora fondati sul ruolo centrale della famiglia tradizionale, dove i rapporti tra i coniugi erano finalizzati solo alla nascita della prole e a garantire la stabilità dell'ordine sociale.
Dall'entrata in vigore della Costituzione, ben poco era cambiato nel diritto di famiglia italiano, paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile, fondato su principi retrogradi come quelli della propriet
à, dell'eredità, dell'autorità, del possesso, del privilegio del sangue, con l'esclusione dei figli generati fuori dal matrimonio e il non riconoscimento, ovviamente, delle coppie di fatto. Se si prende in considerazione, in quegli anni, non la situazione di una coppia sposata che volesse divorziare, ma, ad esempio, quella di giovane coppia di conviventi (esistevano anche a quei tempi), si capisce bene come, anche allora, la realtà fosse ben difficile e complicata. Conviventi e figli illegittimi erano sprovvisti di qualsiasi stato giuridico.
La Chiesa ha sempre esercitato la sua pressione sulle famiglie e sulla societ
à richiamandole ai valori tradizionali e cristiani, a vari livelli, a partire dall'educazione dei bambini negli istituti religiosi, fino a quella delle coppie. La storia è nota: con la secolarizzazione e l'apertura ai modelli delle legislazioni europee, grazie all'apporto prima dei radicali e dei gruppi della società civile, come le femministe, poi con la mediazione delle sinistre di espressione laica (in particolare dei socialisti) e cattolica, in parlamento, si arrivò alla fatidica legge Fortuna-Baslini. Quella proposta si appellava a tutte le legislazioni straniere, ad esclusione dei soli casi arretrati di Spagna e Irlanda. Qualcosa di simile all'oggi.
Bene. Cosa c'entra la possibilit
à di divorzio con le unioni di fatto, chiederete voi. C'entra eccome. L'anello di congiunzione è presto detto: non tutto il mondo cattolico, anzi, si potrebbe dire, non tutta la chiesa, aveva la stessa monolitica posizione di chiusura nei confronti del divorzio. E qui ci viene in aiuto un elemento importante e condizionante, cioè la posizione espressa dai gesuiti italiani, che rappresentano una espressione, peraltro importante e autorevole, della chiesa stessa. Non ci furono dunque solo i gruppi del dissenso religioso, le comunità di base, l'associazionismo critico, ma storicamente, fu anche un'ala interna alla chiesa ufficiale, a manifestare delle aperture sull'argomento. Per quanto riguarda il precedente storico, basta ricordare un importante articolo di Aggiornamenti sociali uscito nel 1966, cioè 4 anni prima dell'approdo alla legge sul divorzio, dove i padri gesuiti abbozzavano una proposta ai laici fondata, in sostanza, sulla garanzia di parità dei coniugi e sulla presa in considerazione delle “unioni di fatto” (cito letteralmente) mediante il regolamento giuridico.
Se ci spostiamo alla questione delle unioni omosessuali, nel 2008, ancora una volta, la stessa rivista dei gesuiti ha invitato il mondo cattolico a ricordarsi che
«non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell'assunzione pubblica della cura e della promozione dell'altro». Inoltre i gesuiti ha sottolineato, e mi pare questo un particolare molto significativo, che, riconosciuto il valore sociale della convivenza, sarebbe «contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso».
È proprio vero, dunque, che la storia, molto spesso, si ripete. Anche allora, per la legislazione sul divorzio, noi in Italia eravamo indietro rispetto a tutti gli altri paesi, proprio come oggi. Anche allora i gesuiti lanciarono aperture significative. C'è da ricordare, peraltro, che la legge sul divorzio, statistiche alla mano, non diede vita, almeno nell'immediato (e questo dimostra che i fattori di sfaldamento della famiglia tradizionale furono altri e non certo la singola legge) a quello stravolgimento dei costumi che alcuni avevano ventilato: si pensi che i divorzi passarono dal 5,3% del 1973 al 3,1% del 1975, fino ad appena il 3,3% del 1978. Oggi le coppie di fatto sono in un trend di aumento esponenziale, secondo l'Istat: nel 2010, ben il 36% del totale (erano il 27% nel 2001, il 17% nel 1991, appena l'1,6% nel 1961) e ciò prescinde chiaramente da una legge sulle unioni civili che ancora non c'è. Questo dimostra che, oggi più che mai, in una società globalizzata, le chiusure a riccio sono inutili e non servono ad evitare cambiamenti nei costumi e negli atteggiamenti di vita della popolazione. Servono solo, purtroppo, ad allontanare il nostro paese dal novero delle nazioni civili che volgono il loro sguardo attento alla condizione e ai diritti di ogni persona umana in quanto tale, a prescindere da trattative politiche, favori a istituzioni, ammiccamenti a gruppi di interesse o di potere. A prescindere, insomma, da tutto il resto.

Fonte: Linkiesta

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