Unioni civili e il vizio italiano di stare fuori dal mondo
Fonte: Linkiesta
Il riconoscimento giuridico delle unioni civili, e in particolare di quelle omosessuali, si è ormai esteso in quasi tutta l'Europa. Gradualmente ma senza particolari difficoltà, con una sempre crescente accettazione sociale da parte della popolazione, almeno della maggioranza, e con una attribuzione di diritti economici e sociali sempre maggiore, fino anche alla possibilità, in alcuni casi, di adottare bambini da parte delle coppie non sposate.
Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Austria, Spagna, perfino, più di recente, Ungheria, Portogallo, Irlanda, Islanda e Sud Africa sono paesi che hanno affrontato e risolto la questione, talvolta pacatamente, altre volte con scontri e polemiche, come è anche giusto che sia, nei rispettivi parlamenti. Ma non ci sono solo i singoli stati sovrani. Ci sono state anche deliberazioni più generali: nel 2003 una storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarava incostituzionali le legislazioni contro gli omosessuali, poi la stessa cosa stabiliva la Corte costituzionale tedesca; infine la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vietava qualsiasi discriminazione fondata, oltre che sul sesso, la razza, la religione, la lingua, le opinioni, il patrimonio, l'handicap, anche le caratteristiche genetiche, appunto, cioè le tendenze sessuali del singolo cittadino europeo.
In un simile contesto europeo e internazionale, va da sé che il parlamento italiano sia del tutto inadempiente, per non dire latitante, su una questione di siffatte implicazioni civili, morali, teoriche e pratiche, che non coinvolgono, come qualcuno potrebbe pensare, una sparuta minoranza degli italiani. Bastano due semplici dati per dare l'idea dell'entità della questione: oggi sono circa 650 mila nel complesso i conviventi effettivi; il numero degli omosessuali dichiarati si attesterebbe intorno al 5% della popolazione nazionale. Non esistono finora dati ufficiali; l'Istat ha previsto un primo censimento per il prossimo anno, il che la dice lunga sulla sottovalutazione dell'argomento qui da noi.
Si può fare solo un breve resoconto, alquanto striminzito peraltro, e non certo per colpa degli osservatori, ma per oggettive ragioni di carenza propositiva da parte delle forze politiche italiane.
I primi disegni di legge furono presentati nella metà degli anni Ottanta, sollecitati dall'associazione per i diritti degli omosessuali (Arcigay), e appoggiati, peraltro timidamente, solo da socialisti, radicali e indipendenti di sinistra. Negli anni Novanta le proposte di aggiornamento alle legislazioni più avanzate sono aumentate, sulla spinta delle richieste del parlamento europeo, ed hanno avuto una maggiore ricezione anche presso altre forze politiche più moderate, con parziali quanto velate aperture, in realtà esclusivamente teoriche, sia a sinistra che destra. Prima alcune città pilota (come Pisa), poi intere regioni (Toscana, Umbria, Emilia-Romagna), con le modifiche dei loro statuti, si sono dichiarate favorevoli ad una legge sulle unioni civili, istituendo i registri delle convivenze. Negli anni Duemila, durante il secondo governo Prodi, fu discusso alla Camera un disegno di legge presentato da Grillini che si richiamava ai Pacs francesi, poi si parlò di un'ipotesi di legge denominata Dico (Diritti e dove delle persone stabilmente conviventi), poi Cus (Contratto di unione solidale), infine Didore (Diritti e doveri di reciprocità dei conviventi). Sono cambiati i nomi, ma non la sostanza: tutte le proposte sono miseramente fallite, insabbiate da più fronti congiunti.
Nel 2010, però, la Corte costituzionale italiana ha stabilito la rilevanza appunto “costituzionale” delle unioni civili e omosessuali, cioè a dire la possibilità stessa del riconoscimento giuridico con connessi diritti e doveri di questo tipo di convivenze. Ora, stabilito questo principio giuridico, è evidente che per adeguare la costituzione occorre l'azione del legislatore, quindi del parlamento. Ma non si tratta certo di attuare una revisione costituzionale su un tema in Italia così controverso, per la quale occorrerebbero grandi convergenze politiche, assolutamente improbabili allo stato attuale, quanto di formalizzare la distinzione, già sancita peraltro dalla Carta dell'Unione, tra “diritto di sposarsi” e “diritto di costituire una famiglia”, anche tra persone dello stesso sesso.
Allo stato attuale, almeno in Italia, sono state spese tante belle parole, ma sono stati fatti davvero pochi fatti. Ad oggi l’ordinamento giuridico italiano non riconosce a chi convive senza essersi sposato, doveri di mantenimento, né di assistenza, né tanto meno, diritti. In mancanza di una legislazione generale coerente, nel corso del tempo, sono state riconosciute alcune eccezioni: succedere nel contratto di locazione, in caso di morte del convivente; in presenza di figli naturali, quando cessa la convivenza, ottenere dalle assicurazioni un indennizzo, come spetterebbe ad un coniuge; ricevere la pensione di guerra. Esiste, certo, la possibilità di stipulare con il convivente un accordo scritto privatamente, possibilmente redatto da un avvocato o da un notaio, in cui si indicano la ripartizione delle spese e la suddivisione dei beni in caso di rottura. Nient'altro. Roba da Medioevo.
In Italia però, si sa, c'è un potere, non direttamente riconducibile a un preciso partito o a un governo specifico, ma piuttosto ad una vera e propria istituzione, che, nel corso della storia, ha sempre condizionato, influenzato, a volte ridimensionato e addirittura bloccato certe leggi: si tratta, come si è ben capito, della Chiesa. Nel legittimo esercizio del suo magistero, la Chiesa si è sempre opposta, finora, salvo rare eccezioni, e come dimostrano i documenti della Congregazione per la dottrina della fede, a questo adeguamento della legislazione con l'evoluzione del quadro internazionale.
È solo uno dei tanti intricati capitoli dei rapporti tra stato e chiesa in Italia: un affare di coscienza, per una libertà religiosa in Italia, aveva scritto Alessandro Galante Garrone in un libro; Arturo Carlo Jemolo li aveva sintetizzati in una semplice frase “Gli anni della Repubblica non hanno visto, in materia dei rapporti tra Stato e Chiesa, nulla di sensazionale, nulla che ricordi le acri lotte del Risorgimento”. Questo giudizio, scritto nel 1965, può essere tranquillamente sottoscritto oggi.
A questo proposito, per rimanere nell'ambito del nostro argomento, può essere interessante fare un salto indietro nella nostra storia e vedere qual è stata la sua posizione in occasione della vicenda che ha portato, prima con la legge del 1970, poi con il referendum abrogativo, a far diventare legge anche in Italia lo scioglimento del matrimonio. Negli anni Sessanta nonostante il tanto esaltato miracolo economico, i costumi della società non avevano subito grandi trasformazioni dai tempi del fascismo. Erano ancora fondati sul ruolo centrale della famiglia tradizionale, dove i rapporti tra i coniugi erano finalizzati solo alla nascita della prole e a garantire la stabilità dell'ordine sociale.
Dall'entrata in vigore della Costituzione, ben poco era cambiato nel diritto di famiglia italiano, paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile, fondato su principi retrogradi come quelli della proprietà, dell'eredità, dell'autorità, del possesso, del privilegio del sangue, con l'esclusione dei figli generati fuori dal matrimonio e il non riconoscimento, ovviamente, delle coppie di fatto. Se si prende in considerazione, in quegli anni, non la situazione di una coppia sposata che volesse divorziare, ma, ad esempio, quella di giovane coppia di conviventi (esistevano anche a quei tempi), si capisce bene come, anche allora, la realtà fosse ben difficile e complicata. Conviventi e figli illegittimi erano sprovvisti di qualsiasi stato giuridico.
La Chiesa ha sempre esercitato la sua pressione sulle famiglie e sulla società richiamandole ai valori tradizionali e cristiani, a vari livelli, a partire dall'educazione dei bambini negli istituti religiosi, fino a quella delle coppie. La storia è nota: con la secolarizzazione e l'apertura ai modelli delle legislazioni europee, grazie all'apporto prima dei radicali e dei gruppi della società civile, come le femministe, poi con la mediazione delle sinistre di espressione laica (in particolare dei socialisti) e cattolica, in parlamento, si arrivò alla fatidica legge Fortuna-Baslini. Quella proposta si appellava a tutte le legislazioni straniere, ad esclusione dei soli casi arretrati di Spagna e Irlanda. Qualcosa di simile all'oggi.
Bene. Cosa c'entra la possibilità di divorzio con le unioni di fatto, chiederete voi. C'entra eccome. L'anello di congiunzione è presto detto: non tutto il mondo cattolico, anzi, si potrebbe dire, non tutta la chiesa, aveva la stessa monolitica posizione di chiusura nei confronti del divorzio. E qui ci viene in aiuto un elemento importante e condizionante, cioè la posizione espressa dai gesuiti italiani, che rappresentano una espressione, peraltro importante e autorevole, della chiesa stessa. Non ci furono dunque solo i gruppi del dissenso religioso, le comunità di base, l'associazionismo critico, ma storicamente, fu anche un'ala interna alla chiesa ufficiale, a manifestare delle aperture sull'argomento. Per quanto riguarda il precedente storico, basta ricordare un importante articolo di Aggiornamenti sociali uscito nel 1966, cioè 4 anni prima dell'approdo alla legge sul divorzio, dove i padri gesuiti abbozzavano una proposta ai laici fondata, in sostanza, sulla garanzia di parità dei coniugi e sulla presa in considerazione delle “unioni di fatto” (cito letteralmente) mediante il regolamento giuridico.
Se ci spostiamo alla questione delle unioni omosessuali, nel 2008, ancora una volta, la stessa rivista dei gesuiti ha invitato il mondo cattolico a ricordarsi che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell'assunzione pubblica della cura e della promozione dell'altro». Inoltre i gesuiti ha sottolineato, e mi pare questo un particolare molto significativo, che, riconosciuto il valore sociale della convivenza, sarebbe «contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso».
È proprio vero, dunque, che la storia, molto spesso, si ripete. Anche allora, per la legislazione sul divorzio, noi in Italia eravamo indietro rispetto a tutti gli altri paesi, proprio come oggi. Anche allora i gesuiti lanciarono aperture significative. C'è da ricordare, peraltro, che la legge sul divorzio, statistiche alla mano, non diede vita, almeno nell'immediato (e questo dimostra che i fattori di sfaldamento della famiglia tradizionale furono altri e non certo la singola legge) a quello stravolgimento dei costumi che alcuni avevano ventilato: si pensi che i divorzi passarono dal 5,3% del 1973 al 3,1% del 1975, fino ad appena il 3,3% del 1978.
Oggi le coppie di fatto sono in un trend di aumento esponenziale, secondo l'Istat: nel 2010, ben il 36% del totale (erano il 27% nel 2001, il 17% nel 1991, appena l'1,6% nel 1961) e ciò prescinde chiaramente da una legge sulle unioni civili che ancora non c'è. Questo dimostra che, oggi più che mai, in una società globalizzata, le chiusure a riccio sono inutili e non servono ad evitare cambiamenti nei costumi e negli atteggiamenti di vita della popolazione. Servono solo, purtroppo, ad allontanare il nostro paese dal novero delle nazioni civili che volgono il loro sguardo attento alla condizione e ai diritti di ogni persona umana in quanto tale, a prescindere da trattative politiche, favori a istituzioni, ammiccamenti a gruppi di interesse o di potere. A prescindere, insomma, da tutto il resto.
Fonte: Linkiesta
Un diritto tutto italiano: l'evasione fiscale
Fonte: Linkiesta
Nella storia del mondo l'Italia e i suoi governi si sono guadagnati un posto in prima fila per avere inventato sostanzialmente un nuovo diritto: il diritto di evasione fiscale.
Basti un esempio storico per dare l'idea della nostra "diversità" su questo aspetto rispetto alle storie dei paesi europei più avanzati. Alcuni secoli fa, i baroni inglesi, e poi ovviamente tutti i cittadini del regno britannico, si sentivano veri contribuenti, si sentivano lo stato, si sentivano classe politica. Per questo il sistema bicamerale ebbe un senso profondo in Inghilterra perché la Camera dei Lords dovette esercitare una specifica funzione non solo politica ma anche finanziaria, che venne poi cedendo alla Camera dei Comuni man mano che la ricchezza affluiva alle classi medie intraprendenti. In poche parole si trattò di una storia corale di coscienza fiscale. E in Italia?
Sentite cosa scriveva a questo proposito Piero Gobetti in un articolo su "La Rivoluzione Liberale" del 1922: "In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe alla vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non è un'esigenza, ma una formalità giuridica. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo stato; non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Il parlamento italiano esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione politica. E' demagogico fin dal suo nascere perché è nato dalla retorica, dall'inesperienza, dalla scimmiottatura. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti.”
Si tratta di un problema annoso, non risolvibile, come invece vuol far credere qualcuno, attraverso mezzi e strumenti esclusivamente economici. Che però, sia chiaro, aiutano. L'economia, infatti, constata l'esistenza di un problema finanziario ed offre una soluzione, ma la sua osservazione resta sul terreno dell'analisi dei sintomi. Si prenda, ad esempio, la questione del pareggio del bilancio che è, da sempre, il punto più sensibile della crisi economica italiana. Esso non può essere risolto solo con riforme tecniche perché è soprattutto un problema di contribuenti. E', per evidenti ragioni, se non altro psicologiche, una questione più di spese che di entrate, ma anche di coscienza tributaria. E' un problema dunque non solo di regole ma culturale, di educazione civica.
Purtroppo in questa lunga storia, cioè nella formazione del nostro costume tributario, le responsabilità dei liberali, a partire da Giolitti, dei cattolici, fin dai tempi di Sturzo, dei socialisti, fin da quelli di Turati, fino ai comunisti di Togliatti e successori, sono state enormi e abbastanza indifferenziate: si è stati cinici nel far passare, di volta in volta, come liberale, cattolica, socialista e comunista, la politica di saccheggio dello stato e la diseducazione a non a pagare le tasse, rivolta rispettivamente a imprenditori, commercianti, contadini e quant'altro. E proseguita a tamburo battente, e in modo incalzante, nel dopoguerra, poi negli anni settanta e ottanta, fino ad oggi. C'è stato, negli ultimi tempi, solo un breve intermezzo con il tanto vituperato ministro Visco. Poi nient'altro.
Ad esasperare ancor più la situazione è stata la politica fiscale di questo governo, che contrasta, addirittura nei suoi capisaldi, con un importante principio di civiltà, cioè la progressività della tassazione ovvero il fatto che più alto è il reddito di un cittadino più si dovrebbe contribuire alle spese dello stato. Tale principio è peraltro sancito dalla Costituzione italiana. In Italia, infatti, la situazione dei contribuenti, col passare dei decenni, si è, se possibile, incancrenita: la pressione fiscale incide molto sulla fascia più povera della popolazione e meno su quella più ricca. Si aggiunge, dunque, al problema principale di educazione alla legalità, anche la questione tecnica del sistema fiscale italiano, che è tra i meno evoluti del mondo. Gli ultimi governi di centro-destra si sono, inoltre, distinti per aver legittimato direttamente l'evasione fiscale, con scudi fiscali, condoni, e quant'altro. Tutto ciò ha aggravato lo stato di insoddisfazione di un paese dove, complice anche la crisi finanziaria internazionale, ma acuito dalla particolare crisi dell'economia e del fisco, queste sì tutte italiane, gli stipendi reali si riducono e dove iniziano ad essere seriamente erosi i risparmi delle famiglie, sempre più in difficoltà.
Concludeva Gobetti nel 1922: "I capitalisti veramente contribuenti cercheranno di non lasciarsi sopraffare partecipando essi pure all'accordo generale e facendosi pagare in sussidi ciò che dovrebbero elargire in imposte". La notizia è che oggi gli industriali, così almeno parrebbe, hanno chiesto un cambio di marcia e perfino una tassazione progressiva. Forse è arrivato il momento, dopo decenni di complicità e inadempienze, che qualcuno intervenga, una buona volta.
Fonte: Linkiesta
Global Spring ovvero la Primavera globale
Fonte: Linkiesta
Spring, 春天, ربيع, le printemps, Frühling. Quando la primavera comincia non la si può fermare.
L’inverno in politica sembra ormai passato e per un bel po’ non ritornerà. Fuor di metafora, sembra proprio che stavolta, davvero, sia nata una “primavera globale”. Nord Africa, Spagna, Inghilterra, Grecia, Cile, Israele, Italia, Stati Uniti. Il 15 ottobre 2011 è previsto il primo appuntamento unitario. Ed è già storia.
Se proviamo a interrogare la storia sulle cosiddette "primavere dei popoli", dobbiamo tornare indietro, quantomeno, a due importanti precedenti: il Quarantotto ottocentesco e il Sessantotto del secolo scorso.
Il primo coinvolse soprattutto gli stati europei: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Austria e Italia, e vide il susseguirsi di sommosse, rivolte, ribellioni, proteste da parte di giovani e lavoratori, a seguito della forte crisi economica, dell’aumento dei prezzi, della crescente disoccupazione. Da un lato, videro l’alleanza tra borghesia e proletariato urbano, dall’altro l’irrompere dei primi movimenti socialisti, con richieste spesso un po’ utopiche e, appunto, romantiche, nel tentativo di collegare l’individuo ad una comunità che non aveva ancora alcun tipo di carattere corale.
In particolare, venivano chieste: indipendenza nazionale, maggiore democrazia, libertà sancita dalle costituzioni, migliori condizioni lavorative. I giovani furono, indubbiamente, i protagonisti di quei risorgimenti, con azioni spesso esaltanti, eroiche, plasmate da condotte di vita poco conformiste per l’epoca, quando non proprio coraggiose, o addirittuta trasgressive. Da Palermo, con la velocità della comunicazione telegrafica, la rivolta si spostò lentamente a Parigi, poi Vienna, Berlino, fino in Polonia, in Ungheria e Boemia.
Anche la seconda ondata rivoluzionaria mondiale, la primavera del Sessantotto, pur avendo, sostanzialmente e a conti fatti, fallito, ha di certo contribuito a trasformare il mondo. Si è sviluppata, per lo più, in America, ma anche in Europa, in Francia e in Italia. I suoi caratteri furono, dunque, mondiali, con uno stretto rapporto tra spazialità e tecnologia: in questo caso più veloce del telegrafo, ma non ancora simultanea. Era già iniziata, comunque, l’epoca del “villaggio globale”.
Anche stavolta le proteste videro come protagonisti i giovani, in particolare gli studenti, che si organizzarono in modo spontaneo, improvviso, straordinario quanto a capacità di mobilitazione, al punto da diventare una moda. Assunse caratteri come l’anticapitalismo, il pacifismo, l’anti-razzismo, l’egualitarismo nelle scuole e nelle università, la richiesta di maggiori diritti umani e civili, la secolarizzazione. Allo stesso modo, da New York si spostò, stavolta ben più velocemente, a Bonn e a Parigi, poi Varsavia, Rio de Janeiro, Città del Messico, Roma, Pechino e Praga.
La primavera araba, iniziata lo scorso anno e proseguita fino a oggi, ha avuto luogo soprattutto nel Nord Africa e nel cosiddetto Medio Oriente, coinvolgendo paesi come l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, la Libia, la Siria, il Marocco. Ha avuto anch’essa, come protagonisti indiscussi, un’intera generazione di giovani, con forme di resistenza civile di varia natura, scioperi, manifestazioni, marce, cortei, sit-in, collegati attraverso l’uso della tecnologia, in particolare la simultaneità di social network, come Facebook e Twitter. Un modo per poter divulgare e rendere pubblici non solo nei rispettivi paesi ma anche all’opinione pubblica internazionale i tentativi di repressione.
Queste proteste si sono contraddistinte per le richieste di libertà, democrazia, maggiori diritti civili e umani, contro la corruzione delle classi dirigenti e la crisi economica. Uno dei motivi che ha portato all’esasperazione le popolazioni arabe è stato infatti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Da Tunisi sono istantaneamente divampate al Cairo, a Bengasi e Tripoli, e hanno portato, in alcuni casi, anche al crollo dei rispettivi regimi.
In tutti questi modelli c’è in comune, con le dovute differenze di tempi legate alle diverse epoche storiche, la medesima capacità dei giovani di annullare lo spazio, comunicando: quasi per contagio.
Nel primo caso in modo trans-nazionale. Nel secondo, internazionale. Nel terzo, addirittura, globale. Nel primo caso, come imitazione di un gesto lontano sentito per le medesime ragioni civili, nel secondo caso, per identificazione planetaria, nel terzo per simultanea percezione della stessa necessità. Se il Quarantotto aveva affermato il diritto dei popoli a costituirsi in soggetti autonomi e indipendenti dentro un unico spazio europeo di stati, se il Sessantotto poneva l’umanità come soggetto richiedente diritti universali in un contesto mondiale, la primavera araba ha sancito la fine della distanza delle rivendicazioni e la contemporaneità e simultaneità dei suoi eventi.
E siamo all’oggi. La protesta giovanile pare essersi diffusa dappertutto, complice la crisi economica globale. L’enorme ondata di proteste da parte di giovani, lavoratori precari, disoccupati, ricercatori (ma anche pensionati), delusi dai partiti e dalla crisi provocata dalla finanza internazionale, che sta scoppiando nelle piazze di tutto il mondo, da Tunisi al Cairo, da New York ad Atene, da Santiago del Cile a Madrid, da Roma a Londra, da Gerusalemme per arrivare persino a Nuova Delhi, potrebbe dare un colpo mortale alla politica tradizionale. Oggi ce ne sono tantissimi, un po’ dappertutto, anche dove non si sono ancora mobilitati. ll 15 ottobre si riuniscono per il primo appuntamento unitario. Basta dare tempo al tempo. Qualcuno l’ha chiamata anti-politica globale.
Forme di anti-politica, per la verità, ce ne sono state diverse anche in passato. Per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare, a livello internazionale, il popolo dei “no global” di Seattle contro il Wto, mentre per l’Italia si pensi al movimento dei girotondi, o al più recente popolo viola, contro le leggi ad personam. Ma, stavolta, sembra si tratti di qualcosa di diverso, più profondo, più radicato, che potrebbe affondare le sue radici proprio in quei nobili e storici precedenti che richiamavo all’inizio. Proviamo a capire perché.
Le piazze, le strade, i sit-in davanti alle scuole e alle istituzioni, in modo costante, permanente, duraturo, tutto questo sembra tornato di moda, dopo anni, anzi decenni di letargo. I giovani, ma non solo, se ne riappropriano con decisione, e si riscoprono rivoluzionari, ma in un modo nuovo. In Spagna li chiamano “indignados”, in Egitto, in Siria, in Tunisia sono i ragazzi della Primavera araba, in America sono chiamati “millenials”. Se le giovani e i giovani arabi hanno abbattuto dei regimi, i giovani “occidentali” si confrontano contro un altro tipo di tirannia o dittatura: quelle di una classe politica corrotta e abbarbicata al potere e di un’economia neocapitalista e neoliberista incapace di fornire adeguate risposte di crescita e di sviluppo economico per tutti. In una parola, contro la globalizzazione. Ma non nei termini del recente passato.
Sembra percepirsi, o quantomeno si intravede, una consapevolezza maggiore, una visione più critica e meno ideologica del processo globale. Non più la visione apocalittica del nuovo “impero”, che riduceva tutto a una concentrazione del potere mondiale nelle mani delle corporation multinazionali, del governo statunitense, delle potenze occidentali europee, in funzione di una cospirazione ai danni dei paesi più poveri e delle categorie sociali meno abbienti. Piuttosto, sulla scia delle analisi della cosiddetta world history, questi giovani considerano il concetto di democrazia occidentale moderna, per varie motivazioni culturali, inadeguato per la comprensione della vita moderna e per capire gli stili di vita di alcuni popoli o paesi orientali, ad esempio come l’India, la Cina o il Nord Africa.
Non si tratta, dunque, di esportare modelli di democrazia laica e democratica di stampo occidentale, possibilmente di stampo liberalista, nei paesi orientali, ma di tradurre certe categorie in contesti molto diversi per cultura e tradizione. Così come si tratta di recepire aspetti e modalità dalle altre culture. Viceversa, l’esercizio del metodo comparativo tra le culture significa far interagire le diversità attive dei comportamenti individuali e collettivi nei diversi contesti, sottolineare e, nello stesso tempo, considerarle come potenziali alternative scartate o sconfitte dalla storia, restituendo piena autonomia e dignità al soggetto umano in quanto tale, alle sue scelte e alle sue battaglie.
Questo confronto costruttivo aumenta le potenzialità della globalizzazione, in particolare sotto l’aspetto della combinazione di nuove tecnologie, culture scientifiche, libertà individuali. Se dunque la globalizzazione (anche sull’onda delle più recenti analisi degli studiosi economici americani) è vista da tutti loro come un completo fallimento (almeno dal punto di vista economico), proprio questa dimensione culturale della globalizzazione, che è evidente nelle critiche rivolte dai giovani indignati alle classi dirigenti che hanno governato questi decenni di transizione, cioè la continua ricerca degli intrecci e degli scambi che nella human community, sembra riuscire a superare i confini e le identità ideologiche del più recente passato.
Questi giovani di diversi continenti sono tutti accomunati da alcuni tratti distintivi: nella maggior parte sotto i trent’anni, con un alto livello di istruzione, usano Internet, l’i-Phone e i portatili, molto spesso sono disoccupati o comunque fanno lavori precari, sono attenti alle tematiche ambientali e dei diritti umani e civili, prendono di mira la classe politica e dirigente dei loro paesi, ma anche le corporations, le multinazionali, le banche.
Una cosa è certa. Rispetto ai predecessori questa generazione ne ha fatta di strada. Lasciamo stare le dirigenze dei partiti, buone solo a strumentalizzare le proteste e a metterci sopra il cappello. Se Facebook, Google, Twitter, You-tube, Wikipedia si mobilitano accanto a loro, questi movimenti potrebbero arrivare lontano e prendersi in mano il proprio futuro. Occorre, però, un progetto più definito, chiaro, una nuova cultura così come una nuova politica. Occorre coordinarsi, darsi obiettivi di rappresentanza politica, acquisire luoghi e spazi fisici oltre che virtuali.
Dalle proteste di questi ultimi tempi viene fuori con chiarezza almeno una richiesta di partecipazione democratica, legalità, giustizia sociale e fiscale, politiche ambientaliste, meno consumismo, lavoro più stabile, istruzione gratuita. Questa generazione indignata, delusa, arrabbiata, poteva essere un bacino fertile per le varie opposizioni di sinistra, ma i leader di questi partiti se li sono persi per strada. Le sinistre non hanno saputo intercettare queste richieste di cambiamento, non hanno saputo canalizzare queste energie disperse, perché non si sono sapute differenziare abbastanza dai vari governi, dalle loro politiche moderate e conservatrici. Non hanno saputo neppure differenziarsi con un riformismo solo vagamente abbozzato. In una parola hanno contribuito ad alimentare una cultura e una politica troppo consolatorie.
Forse ormai è tardi per arginare o incanalare questa protesta. Non rimane che osservarla, farsene interlocutori, e seguirla, nella speranza che non porti a scosse troppo traumatiche e che trovi la sua dimensione di progetto e costruzione di una realtà politica e sociale veramente alternativa.
Fonte: Linkiesta
Concordato tra Stato e Chiesa: privilegi di ieri e di oggi
Fonte: Linkiesta
Dei presunti privilegi che la Chiesa godrebbe nei confronti dello Stato si sente spesso parlare. È un po' come una specie di leggenda metropolitana, tramandata di bocca in bocca da molta gente. Soprattutto in questi difficili mesi di crisi economica, in cui il governo chiede sacrifici a tutti, l'argomento dei privilegi ecclesiastici è tornato di moda e infiamma gli animi dei cittadini, non più dei soliti anticlericali, ma anche quelli di osservatori abitualmente ben più pacati.
Cosa siano i Patti Lateranensi è molto probabile che, anche per sentito dire, la maggior parte degli Italiani lo sappia. In cosa consistano realmente, a quali rapporti e relazioni tra Stato e Chiesa diano vita, invece, sono quesiti pressoché sconosciuti ai più, noti solo a qualche vecchio studioso e a pochi, interessati, addetti ai lavori. Per provare a fare un discorso aperto, a tutto tondo, non ideologico, sul Concordato, occorre rifarsi, come quasi sempre accade, alla storia e fornire dati comparativi. Possibilmente, partire dai precedenti, cioè dal considerare quale fosse la situazione che caratterizzava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa nell'Ottocento, prima dell'Unità d'Italia. Proviamo a farlo sinteticamente.
Ancora nell'Ottocento, la Chiesa provvedeva ai propri “bisogni” con un sistema di autofinanziamento, avendo un diritto di decima. Essa fruiva di donazioni, lasciti, ed era ricca al punto da non necessitare di aiuti da parte dello Stato. La sua presenza nella società era enorme: basti pensare anche solo al fatto che i servizi sociali, di assistenza e di istruzione, non erano forniti dai “piccoli” stati italiani ma erano gestiti dalla “grande” Chiesa.
Con l'Unità d'Italia, lo Stato italiano prende in mano tutti questi servizi, ma con essi anche le rendite in base alle quali la Chiesa esercitava quei compiti. Questo meccanismo mise la Chiesa in condizioni di maggiore difficoltà sotto il profilo patrimoniale. Le parti si erano dunque invertite: se prima lo Stato si serviva della Chiesa per supplire alle proprie carenze, da quel momento in poi fu la Chiesa a doversi appoggiare alle strutture pubbliche per poter esercitare, grazie al suo aiuto, alcuni dei suoi precedenti compiti. Ci furono confische, espropri, passaggi di beni e denaro a favore dello Stato.
Si giunse dunque al Concordato, con questo retroterra che non va dimenticato. Mussolini, firmando il famoso accordo nel 1929, davanti al cardinal Gasparri in rappresentanza di Pio XI, garantiva alla Chiesa la libertà e l'indipendenza del suo governo spirituale, stabiliva che lo Stato pagasse una enorme somma di denaro come risarcimento, concedendole una zona del suo territorio, il Vaticano, ammetteva il matrimonio cattolico e l'insegnamento religioso nelle scuole, riconoscendo giuridicamente gli ordini religiosi e concedendo alcuni privilegi ai membri del clero. In particolare, confermava la congrua, cioè che lo Stato si accollasse una parte dello stipendio dei sacerdoti, per giungere, infine, a concedere un vero e proprio stipendio statale a quei preti che svolgessero funzioni pubbliche, come nell'esercito o nelle scuole (ancora oggi, peraltro, sono scelti dalle diocesi ma assunti e retribuiti dalle regioni o dallo Stato).
Dopo la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, tutti i partiti furono sostanzialmente d'accordo nell'evitare di chiedere la denuncia degli accordi lateranensi. Per i leader dei principali partiti bastò inserire in un articolo della Costituzione, il famigerato articolo 7, un riferimento preciso alla continuità sulla questione del Concordato. L'impressione, ormai consolidata dalla storiografia, è che la Dc, poco interessata a questioni culturali e religiose, dovesse, in qualche modo, restituire il favore dell'appoggio fornito dalla Chiesa alle elezioni, mentre i comunisti, per mantenere la pace religiosa nel paese, non avessero alcuna voglia di imboccare la via dell'anticlericalismo. I socialisti affermarono addirittura che anche la più piccola delle riforme agrarie interessasse loro più della revisione del Concordato. All'assemblea costituente, infatti, solo una sparuta minoranza, qualche ex azionista e qualche cristiano-sociale, aveva osato protestare. Nient'altro.
Il problema in sostanza venne accantonato per più di un decennio, fino a quando non fu riproposto dalla rivista il Mondo (quella di Ernesto Rossi, per intenderci) in occasione di un convegno, organizzato nell'aprile 1957. In quell'occasione fu lanciata la prima proposta pubblica di abrogazione del Concordato, suscitando ovviamente forti proteste nel mondo cattolico.
La questione veniva nuovamente messa a tacere, per essere ripresa negli anni Sessanta, dal nascente movimento dei radicali di Pannella. Il vento della secolarizzazione iniziava a spirare e preannunciava le storiche battaglie sui diritti civili. Ne era passata, d'altronde, di acqua sotto i ponti e da “oltre Tevere”, qualcuno “in alto", aveva iniziato a capire che con lo Stato era forse giunto il momento di trattare.
Sondaggi e opinioni a parte, le forze politiche, ancora negli anni Settanta, non erano affatto convinte di volersi impelagare in una sorta di battaglia campale contro la Chiesa e preferivano impegnare il parlamento a costituire una commissione di studio sul problema e il governo a intraprendere contatti diretti con la Santa Sede. Era, con tutta evidenza, un modo per rinviare sine die il problema.
Solo la sinistra socialista (con Basso), i repubblicani (con Spadolini) e gli indipendenti di sinistra (con Parri) continuavano a proporre una revisione a tappeto del Concordato, sottolineando gli aspetti cruciali della questione: le “finte innovazioni”, evidenti ad esempio nella falsa rinuncia della Chiesa alla definizione della religione cattolica come “unica religione di Stato”, elemento, per la verità, decaduto in Italia fin dal 1948; l'accettazione da parte dello Stato dell'autorità della Chiesa sulla attribuzione automatica dei finanziamenti pubblici e anche sulla sua scelta di insegnanti e docenti nelle scuole e università private cattoliche; i privilegi per enti e beni ecclesiastici.
Era quello un copione che più volte, nel corso degli anni, si riproponeva all'attenzione degli Italiani. Grandi questioni di principio, ma poi, nei fatti, nessuna modifica di sostanza.
Il Concordato era infatti uno degli esempi più classici di come la Chiesa, arroccata a difesa delle sue posizioni di privilegio, iniziasse a perdere terreno e consenso tra la gente comune, come avrebbero dimostrato, nei decenni successivi, il calo inesorabile dei fedeli praticanti e delle stesse “vocazioni”. Ed era anche un terreno che, se avesse visto la compattezza e la giusta convinzione da parte del fronte laico, avrebbe potuto riservare spiacevoli sorprese alle gerarchie ecclesiastiche. Ma la vicenda prese, come vedremo, una ben diversa piega.
Il punto era che democristiani e comunisti, cioè a dire la maggioranza dei seggi in parlamento, non erano d'accordo a inimicarsi la Chiesa con forti scelte di laicità che intaccassero non tanto i principi ideali, quanto i suoi stessi interessi economici e finanziari. Per dare un'idea di quali fossero questi interessi, basti riportare qualche breve passo tratto da due “storici” articoli, uno pubblicato su il Mondo (dicembre 1976) e l'altro sul Corriere della Sera (gennaio 1977):
“Solo a Roma è stato calcolato che le proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici ammontano a oltre 80 milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della città. In Italia, secondo un'approssimazione per difetto, superano i 400 mila ettari... Gli enti ecclesiastici godono di un regime fiscale di favore che comprende non solo la proprietà ma anche le attività costruttive e di esercizio. Gli acquisti sono esenti dalle imposte e dalle tasse di registro, successione e di ipoteca, da quelle sull'asse ereditario e di donazione, dalla tassa di riscossione governativa per l'accettazione di liberalità o per atti a titolo oneroso. Le proprietà sono esenti da contributi di miglioria, dalle imposte sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili... La Chiesa cattolica riceve ogni anno dallo Stato una serie di finanziamenti diretti. Somme ragguardevoli sono iscritte nei bilanci dei vari ministeri, soprattutto dell'interno e del tesoro. Il bilancio del ministero dell'interno a favore del culto nel 1976 è stato di 39 miliardi di lire. L'anno prossimo è prevista una cifra pari a 46 miliardi”.
Fu chiesta la costituzione, dagli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, di diverse commissioni di studio di politici, specialisti, studiosi e furono coinvolte delegazioni della Santa Sede, ma ogni volta i punti cruciali rimanevano inalterati. La solita “grande novità” di principio, vecchia ormai di decenni, relativa cioè alla religione cattolica non più religione di Stato. Il solito rinvio sulle questioni più scottanti. In poche parole, la famosa “bozza di revisione” compiva, da anni, una specie di percorso carsico: per la maggior parte del tempo segreta, invisibile, sotterranea, riemergeva improvvisamente di quando in quando, prendeva una boccata d'aria, non sempre in parlamento, ma passata sottobanco alla stampa, da guardarsi di sghimbescio, per poi far perdere nuovamente le proprie tracce. La Chiesa non era intenzionata, in alcun modo, a cedere i suoi privilegi. Inoltre, col passare del tempo, fu sempre più esautorato il ruolo del parlamento sulla questione, limitando la possibilità di critica dei singoli deputati, e demandando tutto agli accordi diretti tra governo e Vaticano.
Questo almeno fino al 1984, quando a Villa Madama il “decisionista” Craxi e monsignor Casaroli in rappresentanza di Giovanni Paolo II, firmavano un accordo di modifica del Concordato lateranense, secondo la stessa prassi usata tra Stato e Chiesa ai tempi di Mussolini, cioè senza alcuna possibilità di intervento da parte del parlamento. Veniva così varato solennemente un nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, votato da tutto l'arco costituzionale (con la sola astensione dei liberali e il voto contrario di radicali, Pdup e Sinistra indipendente).
Più che un evento storico di eccezionale rilevanza, come venne subito dipinto sulla stampa, il nuovo Concordato fu un'occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche da parte del governo. Uno dei tanti compromessi politici della storia d'Italia, probabilmente il più grande, quanto a forze in campo coinvolte e a interessi finanziari, fatto, come tante altre volte, sulla testa del cittadino.
Il nuovo Concordato fondava un regime che non era né quello della separazione tra Stato e Chiesa, né quello dello stato confessionale. Cosa si stabiliva? In teoria, grandi affermazioni di principio: si aboliva l’ormai anacronistico (oltre che anti-costituzionale) riferimento al cattolicesimo come sola religione ufficiale; si assicurava allo Stato una propria autonomia nelle questioni di diritto familiare, l'insegnamento della religione nelle scuole diventava facoltativo e non più obbligatorio; si aboliva la congrua per i sacerdoti.
Nei fatti però, la libertà della Chiesa faceva un indubbio passo avanti, quella dello Stato rimaneva sostanzialmente quale era, mentre le sue finanze, con buona probabilità, diminuivano. Proviamo a spiegare brevemente perché.
Nelle scuole l'insegnamento della religione veniva impartito da insegnanti nominati dall'autorità ecclesiastica, ma pagati dallo Stato. Era introdotta l'ora di religione nelle scuole materne. Si stabiliva che le scuole private cattoliche avessero un trattamento scolastico uguale a quelle statali, senza però precisare i loro obblighi nei confronti dello Stato. Si prevedeva il finanziamento da parte dei cittadini, aprendo la strada al sistema dell'8 per mille del gettito Irpef (con il meccanismo della donazione automatica alla Chiesa cattolica per il cittadino che non avesse espresso alcuna scelta). Era sancito l'obbligo per lo Stato di finanziare le attività, il personale e il funzionamento della Chiesa cattolica, con le sue decina di migliaia di istituti religiosi, parrocchie ed enti di varia natura, che avessero dichiarato di svolgere un “servizio sociale”. Veniva garantita l'esenzione dall'Iva e dall'imposta su terreni e fabbricati e sulle successioni. Erano accollati allo Stato, infine, gli oneri per la costruzione e la manutenzione di edifici di culto, per la tutela del patrimonio artistico gestito da enti e istituzioni ecclesiastiche.
Sul momento tutti parlarono di evento epocale, di accordi che avrebbero giovato sia alla Chiesa che allo Stato e dipinsero Craxi e gli artefici di quel trattato, tra cui anche l'attuale ministro Tremonti, come una sorta di eroi nazionali.
Sono passati 27 anni dal quell'evento storico, abbastanza per valutarne gli effetti concreti.
Nel 2007 l'Unione Europea chiedeva spiegazioni all'Italia sui troppi privilegi della Chiesa in materia fiscale, frutto del nuovo Concordato, sollevando un polverone tra le file cattoliche e religiose. Già durante gli anni precedenti, con i primi governi Berlusconi, e poi in maniera propulsiva negli anni a seguire, sono stati introdotti altri provvedimenti che si potrebbero definire “di favore” nei confronti della Chiesa: l'esenzione dall'Ici (le prime esenzioni furono peraltro inaugurate nel 1992 dal governo Amato), per una somma compresa fra i 400 e i 600 milioni di euro; quella dall'Ires (portata al 50% per gli enti assistenziali), con un risparmio annuo di circa 900 milioni; i finanziamenti alle università private e all'editoria cattoliche; le convenzioni privilegiate con istituti ed enti nel settore della sanità. E altro ancora.
Probabilmente le indicazioni dell'Ue avrebbero dovuto essere tenute in conto anche da altri governi, se è vero che oggi la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico.
Se paragoniamo i dati forniti negli articoli del 1976 e quelli di oggi, ci rendiamo conto di quanto il nuovo Concordato abbia inciso, ma non certo a favore dello Stato.
Secondo i più recenti calcoli, nel complesso, un gettito di circa 3,5 miliardi di euro all'anno, se si considerano i finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e il mancato gettito fiscale.
Da dieci anni a questa parte, infatti, solo con l'8 per mille ammonta a circa 1 miliardo di euro l'anno e nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni. Non si dimentichi il particolare che questa cifra affluisce nella casse della Chiesa solo sulla base di una apparente volontà maggioritaria dei cittadini italiani: solo il 44% dei contribuenti indica a chi attribuirlo e di questi solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Tuttavia, grazie al meccanismo risalente al nuovo Concordato, le quote dell'8 per mille non espresse, cioè quelle di coloro che non hanno fatto alcuna scelta, non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartite tra le confessioni religiose, in base alle percentuali ottenute. In questo modo la Chiesa cattolica percepisce l'85% dei contributi.
A questi vanno sommati i 360 milioni per gli stipendi degli insegnanti dell'ora di religione, 460 milioni per esigenze di culto e pastorale, 235 milioni per interventi caritativi, altri 700 milioni circa versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Si aggiunga che questa è una particolarità tutta italiana. In Spagna, ad esempio, le quote non espresse del 5 per mille restano allo Stato. In Germania i cittadini possono scegliere di versare l'8 o il 9 per cento del proprio reddito alle diverse chiese. Nel resto dei paesi europei vige il principio della volontarietà del contributo, senza trucchi.
Alla luce di questa sintetica ricostruzione storica e dei dati di comparazione forniti, mi pare che si possa già abbozzare una prima valutazione di fondo, sia sui mancati benefici venuti dal rinnovo del Concordato, sia in termini di libertà e di laicità per lo Stato (acuiti dai provvedimenti dei governi successivi), sia -soprattutto- sulle pesanti ripercussioni in termini concretamente economici sui cittadini italiani, credenti e non.
Fonte: Linkiesta