L'11 settembre e la globalizzazione
Fonte:Internet
Premessa
Per tentare di abbozzare, a dieci anni di distanza, un' analisi di lungo periodo sulle conseguenze culturali, politiche, sociali dell'11 settembre, si deve assumere come polo interpretativo il ruolo della globalizzazione intesa non come categoria puramente economico-finanziaria ma secondo la sua più complessa accezione storiografica, percorrendo le tappe della sua evoluzione e analizzandola con l'ausilio delle scienze sociali. L'evento, infatti, al di là della spettacolarizzazione mediatica, è risultato eccezionale anche per ragioni storiche: mai, dal lontano 1812, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco diretto sul proprio territorio nazionale (in quel caso da parte dell'impero britannico).
La sfida lanciata dal terrorismo internazionale con gli attacchi dell'11 settembre, che ha segnato la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nell'età della globalizzazione, in realtà viene da lontano ed è collegata a processi precedenti, come la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, la rinascita di ideologie nazionaliste e populiste, talvolta a sfondo religioso. Nel caos internazionale che ne è derivato, dettano le regole del gioco organismi ed entità – tra cui multinazionali, Fondo monetario, G8 - che danno vita a rapporti trasversali di potere. Gli stati vengono sempre più condizionati da fattori internazionali, in cui l'azione politica è sottoposta ai dettami del mercato mondiale.
Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo di studio “Eisenhower” della Brown University, i costi dell'11 settembre sono stimati in termini umani in 225 mila persone rimaste uccise nel mondo, delle quali solo poco più di 31 mila appartenenti ad eserciti o a gruppi militari, e, in termini economici, in più di 4 mila miliardi di dollari. In realtà, come vedremo, i costi dell'11 settembre sono stati ben più alti ed abbracciano ben altri aspetti della vita di cittadini di tutto il mondo.
Contesto economico-finanziario
Dal punto di vista strettamente finanziario, il cosiddetto economic impact, dovuto agli attentati alle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan a New York, è stato calcolato in 200 miliardi di dollari. Già a partire dal 24 settembre 2001, dopo le prime ingenti perdite dovute alla paura della gente e, in particolare, degli investitori, le borse americane ed europee, a seguito della decisione della Banca centrale americana e di altre banche centrali europee di praticare una politica di denaro a basso costo e di inondare di liquidità il sistema economico-finanziario mondiale, ripresero a salire, per ritornare lentamente alla normalità alla metà del 2002. Se facciamo una comparazione, molto più traumatici sono risultati i danni di lungo periodo di quella scelta che finì col “drogare” virtualmente il sistema economico mondiale, portando alla cosiddetta “crisi dei mutui” e al grande “crash” di Wall Street del settembre 2008, con perdite fino a 3 mila miliardi di dollari, ben oltre dieci volte l’impatto immediato dell'attentato.
Con l'11 settembre sono cambiate anche le impostazioni del commercio estero. Prima di quella data si credeva che attraverso il liberismo economico la globalizzazione avrebbe diminuito le differenze tra i vari paesi, abbassando il tasso generale di povertà. Dopo, la globalizzazione si è diversificata: sono tornate le scelte protezioniste, per cui l'Europa preferisce commerciare con sé stessa o con la Russia, la Cina attira commercio in Asia e negli Usa, mentre questi ultimi esportano soprattutto negli altri stati americani, in particolare Canada e Messico. L’11 settembre ha inoltre introdotto una forte variabile sul prezzo del petrolio.
Instabilità è il termine che appare più indicato ad esprimere la situazione vissuta dagli stati sotto il profilo economico-finanziario.
Contesto militare-strategico
Dal punto di vista militare, l'11 settembre ha rappresentato un punto di non ritorno, in direzione opposta rispetto agli anni del disarmo nucleare e della cosiddetta distensione. Già a partire dal 2002 il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato, toccando la vetta di 343 miliardi di dollari.
Può apparire interessante comparare, in chiave storica, le spese militari dei vari paesi in età diverse: secondo i dati dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, un anno prima dell'11 settembre, le spese militari statunitensi assommavano a 283 miliardi, contro i quasi 57 della Russia (un quinto circa della potenza bellica statunitense, proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio prima), i 40 del Giappone e i quasi 39 della Cina. Si tenga presente che, nel 1900, le spese militari dell'impero britannico, compreso tutto il suo apparato coloniale, erano pari a poco più di 100 milioni di sterline, contro i 24 milioni dei francesi e i 20 dei tedeschi. Le proporzioni, come si vede, rispecchiano sempre la simmetria tra la posizione e il ruolo del paese leader militare e gli altri, e confermano la tesi della continuità di un'economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare.
Nel 2009, secondo lo Stockholm Intenational Peace Research Institute, le spese militari erano così ripartite: Usa 663 miliardi, Cina 98 miliardi, Inghilterra 69 miliardi, Russia 61 miliardi, India 36 miliardi. Una sempre più accentuata instabilità sembra dunque accompagnare la leadership degli Usa che si esprime ancora con forza sulle spese militari, ma che li ridimensiona molto nelle relazioni commerciali internazionali.
Si è giunti, rispetto al secolo precedente, ad una maggiore frammentazione degli stati, passati dai 40 del 1900 ai 180 circa attuali, e ad un aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 1480 al 1800 scoppiava un importante conflitto internazionale all'incirca ogni mesi, mentre, dopo l'11 settembre,aumentano i conflitti locali tra gli stati e tra i gruppi armati non convenzionali.
Va detto, però, che è cambiato molto, negli ultimi tempi, il modo di fare la guerra. In un volume del 1999 dal titolo Le nuove guerre, ben prima dell'11 settembre, Mary Kaldor aveva già individuato nelle più recenti guerre caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, legata soprattutto all'idea della conquista o della difesa territoriale. Le nuove guerre si fondano su elementi di identità (nazionale, etnica, religiosa) e su diversi metodi di combattimento, come le tecniche di guerriglia o la spettacolarizzazione mediatica dei conflitti. L'analisi di Kaldor si concentrava, in particolare, sulle guerre civili “internazionalizzate”, nei Balcani, nel Caucaso, in Asia centrale, nel Corno d'Africa, in Africa centrale e occidentale. Nell'era della globalizzazione e della delocalizzazione, si delocalizzano anche le guerre, soprattutto in paesi con un'economia debole, e gli stessi terrorismi. Quando i terroristi globali hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nestlé, la Nike o la Pepsi: si spostano altrove.
Anche gli attentati di New York e Washington sono stati definiti “atti di guerra. Le guerre classiche contrapponevano stati nazionali o quantomeno entità politiche chiaramente identificabili, mentre gli attentati dell’11 settembre non sono stati ufficialmente rivendicati, sono stati attuati da nemici senza un preciso volto.
La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti, bensì la modificazione dei loro caratteri. È questa una sorta di guerra globale, una “guerra delle reti” (“netwar”), per riprendere l’espressione coniata nel 1996 da David Ronfeldt e John Arquilla in The advent of netwar, in cui il concetto-chiave è quello di asimmetria, intesa da un punto di vista degli obiettivi strategici, dei mezzi utilizzati, della natura psicologica, e in cui i limiti territoriali e gli spazi esterni vengono annullati e la zona di guerra si confonde con l'intero pianeta. Alla “guerra fredda” succede una sorta di “pace calda”.
Il terrorismo internazionale ha trovato terreno fertile nella prospettiva della globalizzazione. Se è vero che il mondo intero è entrato nell'era delle reti (finanziarie, industriali, dell'informazione, ma anche criminali) e si evolve secondo continui spostamenti di flussi e di interconnessioni (di informazioni e immagini), è altrettanto vero che questo nuovo terrorismo risulta composto da varie centinaia di organizzazioni esistenti proprio sotto forma di reti. Si tratta di strutture fluide, decentrate, non obbligatoriamente gerarchiche, ma spesso formate da gruppi eterogenei, che svolgono operazioni di guerra di varia natura, senza una precisa guida a monte, che sono in contatto senza alcuna base territoriale precisa, la cui velocità di elaborazione e distanza fisica le rende quasi inattaccabili.
E' interessante, a questo proposito, riportare l'esempio dell'apparato strategico cinese, secondo quanto descritto nel volume del 2001 di Liang e Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. In Cina, ben prima dell'11 settembre, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999, hanno sviluppato, in modo completamente rivoluzionario, i concetti di guerra asimmetrica e armi “senza limiti”, soluzioni per opporsi allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti. Questa nuova “arte della guerra” si propaga con la modalità tipica delle reti, cioè con i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico (come quello dell'antrace usato come arma batteriologica).Gli speculatori in borsa, come si intuisce bene in questi giorni, possono mettere a rischio la finanza globale. Un hacker senza alcuna professionalità militare è in grado, di compromettere i sistemi di sicurezza di un esercito o di un paese in poche azioni mirate.
La possibilità di usare come vere e proprie armi anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile è un elemento di un certo interesse, se si tiene conto che l'iniziativa di guerra asimmetrica alternativa proviene da una nazione come la Cina che agli inizi del Duemila impegnava, in proporzione, quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (5,3% del Pil) rispetto ad altre nazioni come gli Usa (3%), l'Inghilterra (2,4%), la Russia (5%), ma soprattutto perché mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate.
Contesto socio-culturale
Dal punto di vista culturale e sociale, i costi dell'11 settembre risultano davvero rilevanti. Basti prendere in considerazione, sinteticamente, l'impatto immediato avuto sul diritto internazionale e sulla questione dell'immigrazione.
Dopo il drammatico evento, molti paesi, compresi parecchi di quelli che normalmente consideriamo “democratici”, Stati Uniti in testa, hanno introdotto delle legislazioni speciali di emergenza internazionale, allo scopo dichiarato di combattere o prevenire il terrorismo, contenenti misure che hanno intaccato, quando non violato apertamente, la sfera dei diritti umani. In realtà, l’indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in precedenza, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. Lo stesso, dopo l'11 settembre, è accaduto in Afghanistan e in Iraq. Questo atteggiamento di diffidenza verso forme di collaborazione sovranazionale ha avuto modo di manifestarsi anche in altre importanti tematiche globali, come quella del rifiuto americano di sottoscrivere il protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti nell'ambiente. A esemplificazione di un certo modo di intendere i diritti umani è stato identificato simbolicamente, se pure condannato ufficialmente dall'amministrazione americana, il carcere di Guantánamo, eretto in una base militare cubana per torturare deliberatamente i terroristi catturati.
La necessità immediata, proclamata al mondo dagli Usa, di combattere con ogni mezzo il terrorismo internazionale, ha comportato l'applicazione di misure di sorveglianza e di controllo con severe restrizioni delle libertà pubbliche, di espressione e di comunicazione, che sono state accettate passivamente dall’opinione pubblica quanto più sono state presentate come misure necessarie alla loro stessa “sicurezza”. Quindi, se da un lato, la lotta al terrorismo ha accelerato il declino dello stato-nazione, dall’altro ha finito con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e la crescita di una società di “sorveglianza globale”.
Lo stesso processo di chiusura si è verificato riguardo ai flussi migratori e al fenomeno dell'asilo umanitario.Dopo l'11 settembre, l’emigrazione è diventata un questione di sicurezza nazionale: l'immigrato viene generalmente associato ad uno status di illegalità, per cui il trattamento giuridico che gli viene riservato, anche in molti stati europei, lo esclude dall'area dei diritti civili basilari, includendolo, a sua volta, nel vortice delle economie illegali.
Scontro di civiltà o dialogo?
Dopo l'11 settembre, portando alle estreme conseguenze una tesi espressa nel libro di Samuel Huntington The Clash of civilization, uscito nel 1996, si è diffuso il concetto di “scontro di civiltà”. La risposta degli Stati Uniti di George W. Bush all'11 settembre ha insistito sullo stereotipo di uno scontro frontale tra Islam e Occidente, esasperandone i contenuti, e creando pregiudizi e paure spesso ingiustificate tra la popolazione.
Una tale visione semplicistica, molto forte a livello mediatico, implica una rappresentazione erroneamente unitaria e impermeabile delle culture dei diversi popoli e dei singoli, tendendo a cancellare, da un lato, le differenze, ad esempio, tra Europa e Stati Uniti, e, dall'altro, a fare dell’Islam un insieme compatto e monolitico. Come ha sostenuto, invece, Edward Said in Covering Islam, un volume del 1997, “quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo”, nel senso che geograficamente e politicamente il termine “Islam” non esiste, così come non esiste quello di “Occidente”.
D'altra parte, già da tempo gli Stati Uniti avevano assunto nello scacchiere internazionale una posizione sempre più unilaterale, pronta a difendere i propri interessi e a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento dall'alto della propria indiscussa superiorità economica e militare, come hanno dimostrato le vicende in Somalia, Nicaragua, Haiti, El Salvador, Repubblica Dominicana, Panama, Sudan, Afghanistan e Iraq. La retorica dei “diritti dell’uomo” e della “democrazia occidentale da esportare” ha accompagnato la maggior parte di questi interventi unilaterali che, se non appaiono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, hanno esposto a rischi migliaia di civili in altre parti del mondo.
A conti fatti, dunque, la strumentalizzazione del legittimo risentimento suscitato nell'opinione pubblica dopo l'11 settembre e indirizzato, in modo generalizzato, contro l'immigrazione e il mondo musulmano, l’idea di una superiorità naturale dell'Occidente, la tesi dello scontro di civiltà, l'idea secondo cui il liberismo economico costituirebbe per tutte le culture l'unico orizzonte di progresso, rappresentano, a ben guardare, i migliori alleati per il terrorismo internazionale.
Hannah Arendt, nel suo The origins of Totalitarism, del 1973, ha scritto che ogni regime totalitario ha bisogno di un “nemico metafisico”. Di certo non è possibile considerare gli Stati Uniti e l'Occidente alla stessa stregua di un regime totalitario, ma è evidente che, dall'11 settembre in poi, anche essi hanno scelto il loro nemico metafisico, ovvero il terrorismo internazionale, utilizzato spesso per coprire interessi economici.
Nuovi scenari
A dieci anni dall'11 settembre, l’intero sistema delle relazioni internazionali è stato sconvolto proprio dalla lotta contro il terrorismo globale. Dopo l'11 settembre, per guidare la lotta al terrorismo internazionale e nel tentativo del mantenimento di un ordine globale, gli Stati Uniti si sono alleati provvisoriamente con paesi storicamente ad essi ostili, come India, Cina e Russia (contro cui aveva combattuto la precedente guerra in Afghanistan del 1979).
Ma a partire dal 2008 e, in particolare, nel 2010, lo scenario globale ha cambiato ancora aspetto. La crisi finanziaria ha rivelato la debolezza degli Usa, quando ancora erano in corso le guerre in Afghanistan e in Iraq. Con la presidenza di Barack Obama doveva prendere il via un’ asse strategica cinese-americana che avrebbe reso tutti gli altri stati meno influenti. Ma la Cina, in politica internazionale, preferiva orientarsi per un ordine mondiale multipolare, in cui la propria forza avrebbe potuto contare ancor di più.
La crisi economica globale, e in particolare quella dei paesi dell'Unione europea, hanno reso gli Stati Uniti ancora più deboli, di fronte al colosso economico cinese e alle “tigri” asiatiche, che viaggiano a ritmi di crescita e produttività insostenibili per gli occidentali.
Dal 2011 le due grandi potenze sono in aperta rotta di collisione. Il nemico principale per gli Stati Uniti, dunque, non è più il terrorismo fondamentalista islamico (da qui la recente cattura e l'uccisione di Bin Ladin) ma un nuovo ben più temibile e potente nemico, contro il quale occorre orientare europei, giapponesi dalla propria parte e mantenere neutrali indiani e russi. Inoltre, di recente, la rivolta dei popoli del Maghreb (ma anche della Siria) che chiedono l'abbattimento dei regimi e l'instaurazione di nuove repubbliche democratiche, ha stravolto ancor più il quadro. Se la rivolta dovesse prender piede in Arabia Saudita, gli Usa, tenuto conto delle sue crescenti difficoltà economiche, sarebbero costretti a concentrarsi solo lì, dove esistono i maggiori pozzi petroliferi del mondo, perché il barile di petrolio potrebbe salire oltre i 200 dollari, con conseguenze ancora più imprevedibili e disastrose sull’economia mondiale.
Fonte: “Per la Storia”, B. Mondadori, n. 47, dicembre 2011
Global Spring ovvero la Primavera globale
Fonte: Linkiesta
Spring, 春天, ربيع, le printemps, Frühling. Quando la primavera comincia non la si può fermare.
L’inverno in politica sembra ormai passato e per un bel po’ non ritornerà. Fuor di metafora, sembra proprio che stavolta, davvero, sia nata una “primavera globale”. Nord Africa, Spagna, Inghilterra, Grecia, Cile, Israele, Italia, Stati Uniti. Il 15 ottobre 2011 è previsto il primo appuntamento unitario. Ed è già storia.
Se proviamo a interrogare la storia sulle cosiddette "primavere dei popoli", dobbiamo tornare indietro, quantomeno, a due importanti precedenti: il Quarantotto ottocentesco e il Sessantotto del secolo scorso.
Il primo coinvolse soprattutto gli stati europei: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, Austria e Italia, e vide il susseguirsi di sommosse, rivolte, ribellioni, proteste da parte di giovani e lavoratori, a seguito della forte crisi economica, dell’aumento dei prezzi, della crescente disoccupazione. Da un lato, videro l’alleanza tra borghesia e proletariato urbano, dall’altro l’irrompere dei primi movimenti socialisti, con richieste spesso un po’ utopiche e, appunto, romantiche, nel tentativo di collegare l’individuo ad una comunità che non aveva ancora alcun tipo di carattere corale.
In particolare, venivano chieste: indipendenza nazionale, maggiore democrazia, libertà sancita dalle costituzioni, migliori condizioni lavorative. I giovani furono, indubbiamente, i protagonisti di quei risorgimenti, con azioni spesso esaltanti, eroiche, plasmate da condotte di vita poco conformiste per l’epoca, quando non proprio coraggiose, o addirittuta trasgressive. Da Palermo, con la velocità della comunicazione telegrafica, la rivolta si spostò lentamente a Parigi, poi Vienna, Berlino, fino in Polonia, in Ungheria e Boemia.
Anche la seconda ondata rivoluzionaria mondiale, la primavera del Sessantotto, pur avendo, sostanzialmente e a conti fatti, fallito, ha di certo contribuito a trasformare il mondo. Si è sviluppata, per lo più, in America, ma anche in Europa, in Francia e in Italia. I suoi caratteri furono, dunque, mondiali, con uno stretto rapporto tra spazialità e tecnologia: in questo caso più veloce del telegrafo, ma non ancora simultanea. Era già iniziata, comunque, l’epoca del “villaggio globale”.
Anche stavolta le proteste videro come protagonisti i giovani, in particolare gli studenti, che si organizzarono in modo spontaneo, improvviso, straordinario quanto a capacità di mobilitazione, al punto da diventare una moda. Assunse caratteri come l’anticapitalismo, il pacifismo, l’anti-razzismo, l’egualitarismo nelle scuole e nelle università, la richiesta di maggiori diritti umani e civili, la secolarizzazione. Allo stesso modo, da New York si spostò, stavolta ben più velocemente, a Bonn e a Parigi, poi Varsavia, Rio de Janeiro, Città del Messico, Roma, Pechino e Praga.
La primavera araba, iniziata lo scorso anno e proseguita fino a oggi, ha avuto luogo soprattutto nel Nord Africa e nel cosiddetto Medio Oriente, coinvolgendo paesi come l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, la Giordania, la Libia, la Siria, il Marocco. Ha avuto anch’essa, come protagonisti indiscussi, un’intera generazione di giovani, con forme di resistenza civile di varia natura, scioperi, manifestazioni, marce, cortei, sit-in, collegati attraverso l’uso della tecnologia, in particolare la simultaneità di social network, come Facebook e Twitter. Un modo per poter divulgare e rendere pubblici non solo nei rispettivi paesi ma anche all’opinione pubblica internazionale i tentativi di repressione.
Queste proteste si sono contraddistinte per le richieste di libertà, democrazia, maggiori diritti civili e umani, contro la corruzione delle classi dirigenti e la crisi economica. Uno dei motivi che ha portato all’esasperazione le popolazioni arabe è stato infatti l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Da Tunisi sono istantaneamente divampate al Cairo, a Bengasi e Tripoli, e hanno portato, in alcuni casi, anche al crollo dei rispettivi regimi.
In tutti questi modelli c’è in comune, con le dovute differenze di tempi legate alle diverse epoche storiche, la medesima capacità dei giovani di annullare lo spazio, comunicando: quasi per contagio.
Nel primo caso in modo trans-nazionale. Nel secondo, internazionale. Nel terzo, addirittura, globale. Nel primo caso, come imitazione di un gesto lontano sentito per le medesime ragioni civili, nel secondo caso, per identificazione planetaria, nel terzo per simultanea percezione della stessa necessità. Se il Quarantotto aveva affermato il diritto dei popoli a costituirsi in soggetti autonomi e indipendenti dentro un unico spazio europeo di stati, se il Sessantotto poneva l’umanità come soggetto richiedente diritti universali in un contesto mondiale, la primavera araba ha sancito la fine della distanza delle rivendicazioni e la contemporaneità e simultaneità dei suoi eventi.
E siamo all’oggi. La protesta giovanile pare essersi diffusa dappertutto, complice la crisi economica globale. L’enorme ondata di proteste da parte di giovani, lavoratori precari, disoccupati, ricercatori (ma anche pensionati), delusi dai partiti e dalla crisi provocata dalla finanza internazionale, che sta scoppiando nelle piazze di tutto il mondo, da Tunisi al Cairo, da New York ad Atene, da Santiago del Cile a Madrid, da Roma a Londra, da Gerusalemme per arrivare persino a Nuova Delhi, potrebbe dare un colpo mortale alla politica tradizionale. Oggi ce ne sono tantissimi, un po’ dappertutto, anche dove non si sono ancora mobilitati. ll 15 ottobre si riuniscono per il primo appuntamento unitario. Basta dare tempo al tempo. Qualcuno l’ha chiamata anti-politica globale.
Forme di anti-politica, per la verità, ce ne sono state diverse anche in passato. Per non andare troppo indietro nel tempo, basti ricordare, a livello internazionale, il popolo dei “no global” di Seattle contro il Wto, mentre per l’Italia si pensi al movimento dei girotondi, o al più recente popolo viola, contro le leggi ad personam. Ma, stavolta, sembra si tratti di qualcosa di diverso, più profondo, più radicato, che potrebbe affondare le sue radici proprio in quei nobili e storici precedenti che richiamavo all’inizio. Proviamo a capire perché.
Le piazze, le strade, i sit-in davanti alle scuole e alle istituzioni, in modo costante, permanente, duraturo, tutto questo sembra tornato di moda, dopo anni, anzi decenni di letargo. I giovani, ma non solo, se ne riappropriano con decisione, e si riscoprono rivoluzionari, ma in un modo nuovo. In Spagna li chiamano “indignados”, in Egitto, in Siria, in Tunisia sono i ragazzi della Primavera araba, in America sono chiamati “millenials”. Se le giovani e i giovani arabi hanno abbattuto dei regimi, i giovani “occidentali” si confrontano contro un altro tipo di tirannia o dittatura: quelle di una classe politica corrotta e abbarbicata al potere e di un’economia neocapitalista e neoliberista incapace di fornire adeguate risposte di crescita e di sviluppo economico per tutti. In una parola, contro la globalizzazione. Ma non nei termini del recente passato.
Sembra percepirsi, o quantomeno si intravede, una consapevolezza maggiore, una visione più critica e meno ideologica del processo globale. Non più la visione apocalittica del nuovo “impero”, che riduceva tutto a una concentrazione del potere mondiale nelle mani delle corporation multinazionali, del governo statunitense, delle potenze occidentali europee, in funzione di una cospirazione ai danni dei paesi più poveri e delle categorie sociali meno abbienti. Piuttosto, sulla scia delle analisi della cosiddetta world history, questi giovani considerano il concetto di democrazia occidentale moderna, per varie motivazioni culturali, inadeguato per la comprensione della vita moderna e per capire gli stili di vita di alcuni popoli o paesi orientali, ad esempio come l’India, la Cina o il Nord Africa.
Non si tratta, dunque, di esportare modelli di democrazia laica e democratica di stampo occidentale, possibilmente di stampo liberalista, nei paesi orientali, ma di tradurre certe categorie in contesti molto diversi per cultura e tradizione. Così come si tratta di recepire aspetti e modalità dalle altre culture. Viceversa, l’esercizio del metodo comparativo tra le culture significa far interagire le diversità attive dei comportamenti individuali e collettivi nei diversi contesti, sottolineare e, nello stesso tempo, considerarle come potenziali alternative scartate o sconfitte dalla storia, restituendo piena autonomia e dignità al soggetto umano in quanto tale, alle sue scelte e alle sue battaglie.
Questo confronto costruttivo aumenta le potenzialità della globalizzazione, in particolare sotto l’aspetto della combinazione di nuove tecnologie, culture scientifiche, libertà individuali. Se dunque la globalizzazione (anche sull’onda delle più recenti analisi degli studiosi economici americani) è vista da tutti loro come un completo fallimento (almeno dal punto di vista economico), proprio questa dimensione culturale della globalizzazione, che è evidente nelle critiche rivolte dai giovani indignati alle classi dirigenti che hanno governato questi decenni di transizione, cioè la continua ricerca degli intrecci e degli scambi che nella human community, sembra riuscire a superare i confini e le identità ideologiche del più recente passato.
Questi giovani di diversi continenti sono tutti accomunati da alcuni tratti distintivi: nella maggior parte sotto i trent’anni, con un alto livello di istruzione, usano Internet, l’i-Phone e i portatili, molto spesso sono disoccupati o comunque fanno lavori precari, sono attenti alle tematiche ambientali e dei diritti umani e civili, prendono di mira la classe politica e dirigente dei loro paesi, ma anche le corporations, le multinazionali, le banche.
Una cosa è certa. Rispetto ai predecessori questa generazione ne ha fatta di strada. Lasciamo stare le dirigenze dei partiti, buone solo a strumentalizzare le proteste e a metterci sopra il cappello. Se Facebook, Google, Twitter, You-tube, Wikipedia si mobilitano accanto a loro, questi movimenti potrebbero arrivare lontano e prendersi in mano il proprio futuro. Occorre, però, un progetto più definito, chiaro, una nuova cultura così come una nuova politica. Occorre coordinarsi, darsi obiettivi di rappresentanza politica, acquisire luoghi e spazi fisici oltre che virtuali.
Dalle proteste di questi ultimi tempi viene fuori con chiarezza almeno una richiesta di partecipazione democratica, legalità, giustizia sociale e fiscale, politiche ambientaliste, meno consumismo, lavoro più stabile, istruzione gratuita. Questa generazione indignata, delusa, arrabbiata, poteva essere un bacino fertile per le varie opposizioni di sinistra, ma i leader di questi partiti se li sono persi per strada. Le sinistre non hanno saputo intercettare queste richieste di cambiamento, non hanno saputo canalizzare queste energie disperse, perché non si sono sapute differenziare abbastanza dai vari governi, dalle loro politiche moderate e conservatrici. Non hanno saputo neppure differenziarsi con un riformismo solo vagamente abbozzato. In una parola hanno contribuito ad alimentare una cultura e una politica troppo consolatorie.
Forse ormai è tardi per arginare o incanalare questa protesta. Non rimane che osservarla, farsene interlocutori, e seguirla, nella speranza che non porti a scosse troppo traumatiche e che trovi la sua dimensione di progetto e costruzione di una realtà politica e sociale veramente alternativa.
Fonte: Linkiesta
La globalizzazione e la guerra
La globalizzazione e la guerra
Una visione di lungo periodo e possibilmente dialettica della globalizzazione trova riscontri anche nell’ambito più propriamente geo-politico. A differenza della lettura «filosofica» della globalizzazione che punta sulla cosiddetta «morte della distanza» e «fine dello stato-nazione», sostituito da un impero globale su scala planetaria, questo genere di analisi mette in evidenza l'aumento progressivo dell’instabilità internazionale, acuita dalla crisi internazionale apertasi col terrorismo internazionale, in particolare con gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma fondata, quotidianamente, su processi ben precedenti e strettamente legati alla fine dei regimi comunisti, al risorgere delle ideologie nazionaliste a sfondo religioso, che animano buona parte di quei paesi.
E' soffiando sul fuoco della polemica che il politologo Huntington fonda la sua tesi sullo «scontro di civiltà» [Huntington 1997] e prospetta un approccio «realista» alla storia delle relazioni internazionali in cui si fronteggiano non più gli stati e i loro interessi nazionali (con le loro alleanze, i loro rapporti di forza) ma indifferenziati blocchi culturali-religiosi, contraddistinti da identità assai più antiche di quelle della guerra fredda e quindi ancora più immobili, monolitiche, non negoziabili.
D’altra parte, gli Stati Uniti, dopo la guerra fredda, manifestano una posizione sempre più unilateralista, pronta a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento, dall’alto della propria indiscussa superiorità economica e militare. Dopo l’11 settembre, infatti, il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato fino a raggiungere, nel 2002, ben 343 miliardi. Dal canto suo, la Russia, la seconda nazione in termini di spese militari, rappresenta meno di un quinto della potenza bellica statunitense
(64 miliardi di dollari), con proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio fa.
Se però mettiamo in atto una comparazione in chiave storica, ad una più attenta analisi è possibile valutare meglio le nuove gerarchie del potere mondiale e scoprire importanti differenze rispetto al passato. Nel 1900, le spese militari britanniche raggiungevano, proporzionalmente, dimensioni non molto diverse da quelle statunitensi attuali, che sembrerebbero ribadire la validità della tesi della continuità di un’economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare. Ma esaminate lungo un arco cronologico più ampio, per esempio partendo dal 1890, le stesse spese militari britanniche appaiono assai meno imponenti di quelle degli Stati Uniti attuali (corrispondevano a circa la metà di quelle russe ed erano più o meno simili a quelle di Francia e Germania), mentre alla vigilia della Grande Guerra, arrivano ad essere paragonabili a quelle francesi, tedesche e russe. Le cifre sulle spese militari britanniche del 1900 non sono dunque così qualificanti e sono destinate, nel giro di qualche decennio ad essere rimesse in discussione da un maggiore equilibrio militare a livello europeo. Inoltre, a differenza di quella statunitense, la supremazia britannica di un secolo fa non si fonda sul controllo esclusivo di tecnologie particolari (si pensi ai cacciabombardieri invisibili statunitensi o alle cosiddette «bombe intelligenti) o di programmi di ricerca scientifica, bensì sull’attuazione sistematica di programmi di riarmo estensivo (flotta navale, corazzate). Il distacco sul piano strategico militare operato dagli Stati Uniti nei confronti di tutte le altre potenze europee ha il suo inizio subito dopo la sconfitta americana in Vietnam ed ha il suo culmine negli anni Ottanta, con la cosiddetta «Strategic Defense Iniziative», meglio nota come «guerre stellari» di Reagan. Va detto che accanto alla supremazia militare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una accentuata instabilità accompagna l’indiscussa leadership del dollaro nelle relazioni commerciali internazionali.
Un'altra importante differenza sta nei diversi equilibri internazionali: se è vero che al posto degli Stati Uniti odierni c'era la Gran Bretagna che alla fine del secolo scorso era capace di esprimere un’egemonia intercontinentale fondata su un impero coloniale senza rivali, non va dimenticato che dai 40 stati del 1900 si è passati ai circa 180 stati attuali.
(Archivio Alinari)
In definitiva dunque la globalizzazione economica si accompagna a una evidente frammentazione del sistema delle relazioni internazionali, con la moltiplicazione delle aree integrate commerciali (come Nafta, Mercosur e Unione Europea), delle medie potenze regionali in grado di mirare a pericolose politiche egemoniche ed espansive (come Iran o Pakistan) che si sono sostituite rapidamente alle identità ideologiche proprie della contrapposizione tra democrazia e comunismo. La situazione internazionale insomma sembra diventare più instabile rispetto al tempo della guerra fredda, semplicemente per effetto di un aumento dei soggetti e delle variabili in gioco.
Appare evidente che in questo contesto così tumultuoso, a parte il caso particolare della guerra del Golfo o delle cosiddette «operazioni di pace» in Africa o nei Balcani, in cui si era affermato un nuovo modello di intervento degli Stati Uniti, fondato sul concordato con altri stati e sulla mediazione dell’Onu o della Nato, l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di queste «nuove guerre» [Kaldor* 1999] si è spostato in direzione di una tendenza sempre più unilateralista. Tale atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti di forme di collaborazione sopranazionale ha avuto modo di manifestarsi pubblicamente in occasione del rifiuto statunitense di sottoscrivere sia il Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti sia l’atto di fondazione del Tribunale penale internazionale [Allegretti 2002]. Rispetto alla complessità crescente delle relazioni internazionali gli Stati Uniti sembrano non voler percorrere la strada del dialogo o della concertazione e le preferiscono quella del decisionismo e della difesa dei propri interessi.
Ad ipotizzare soluzioni alternative per opporsi in qualche maniera, tanto da indicare un preoccupante scenario che poi si sarebbe puntualmente verificato con gli attentati di Al Qaeda, allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti era, prima fra tutte, l'apparato strategico della Cina popolare. Nell’ambiguità tipicamente orientale tra diagnosi e terapia che lo contraddistingue, il pensiero strategico militare cinese è venuto elaborando, tra il 1996 e il 1999, il concetto di «guerra asimmetrica»: una nuova arte della guerra che ricorre ad altri terreni di sfida non tradizionale [Liang e Xiangsui* 2001], come i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico. Appare di un certo interesse il riferimento alla possibilità di usare come vere e proprie «armi» anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile, e la distinzione tra vecchie e nuove guerre, non solo perchè l'accenno proviene da una nazione che impegna in proporzione quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (il 5.3% del Pil) rispetto ad altri importanti nazioni come gli Usa (3%), il Regno Unito (2,4%) e la Russia (5%), ma soprattutto perchè mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate. In tal senso l’unilateralismo messo in atto dagli Stati Uniti non appare in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, mentre espone a sofferenze e rischi migliaia di civili in altre parti del mondo. A ciò si aggiunga il divario nei confronti degli Stati Uniti del peso politico-militare dei paesi che compongono l'Unione Europea (al cui interno spicca il ruolo predominante del Regno Unito, da sempre partner privilegiato degli americani, che destinava ben
36 miliardi di dollari agli armamenti su un totale di circa 174 nel 2000).
Per trovare una soluzione diversa dallo scontro di civiltà e dall'unilateralismo americano, che non passi attraverso l'utopico appello ad una non bene precisata «società civile mondiale», non rimane che sperimentare quella che appare probabilmente l'unica alternativa percorribile: il diritto internazionale, in particolare l’esercizio applicativo dell’articolo 14 della carta delle Nazioni Unite, per l’uso circoscritto della forza militare, e la riforma democratica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in direzione dell’abolizione
del diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Si tratta di una via che peraltro, in passato, ha dato importanti risultati: in occasione dell'Atto finale della conferenza di Helsinki del 1975 che ha conferito sostegno giuridico al processo di sgretolamento dei regimi illiberali dell’est europeo; con l'appoggio internazionale alla causa anti-apartheid in Sudafrica che ha dato avvio, seppure con risultati altalenanti, al processo di democratizzazione di quei paesi; con la risoluzione della crisi balcanica, durante la quale con una multilateralità di interventi si è riusciti a mobilitare contro il premier serbo Milosevic oltre all'opinione pubblica mondiale anche quella interna, che fungendo da interlocutore privilegiato e da soggetto politico ha reso più praticabile la via della rinascita politica ed economica in quei paesi.
Appare chiaro che non in tutti i paesi questo genere di soluzione è praticabile (si pensi ai casi di Iraq, Afghanistan e Somalia), ma in alcuni contesti la crescita delle società civili locali, aiutata da un maggiore peso del ruolo di partner dialogante esercitato dall'Unione Europea, dalla mobilitazione di organizzazioni internazionali e associazioni non governative, diventa un requisito indispensabile
per il loro sviluppo economico e politico. [Sen* 2001].
(Estratto da: “Il mondo globale come problema storico” (Archetipo libri, Bologna)
Ineguaglianza e povertà nella globalizzazione
La globalizzazione contemporanea aumenta o riduce l’ineguaglianza nel mondo?
Ormai da anni politici, economisti, sociologi cercano risposte a questa domanda. Ci sono gli scettici, i radicali, gli indecisi e, come spesso accade quando si tratta di questioni economico-finanziarie e politiche, è difficile che si pervenga a conclusioni pacificamente condivise. Chi sostiene radicalmente che la piena integrazione del commercio mondiale, intesa come leva di sviluppo, sia destinata a far diminuire e, in prospettiva, a cancellare povertà ed emarginazione sociale, si appoggia a dati empirici rilevanti. A partire dalla rinascita dell’economia giapponese nel secondo dopoguerra, infatti, in Asia si è verificato un vero e proprio nuovo «miracolo economico» (diffusosi prima in Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, per poi contagiare Malaysia, Thailandia, Vietnam, fino alla crescita recente e accelerata del gigante cinese). In ciascuno di questi paesi un’espansione economica trainata dalle esportazioni (che incide sostanzialmente su reddito nazionale e variazione dei prezzi dei beni) ha prodotto risultati significativi sul fronte della lotta alla povertà. Anche se va subito messo in evidenza, a questo proposito, che l'aumento del reddito nazionale, a seguito dell'apertura di questi paesi al libero scambio, contribuisce alla diminuzione generale delle sacche di povertà, ma lascia sostanzialmente immutata la distribuzione del reddito. In ogni caso, tra il 1981 e il 2001, le persone che in questa zona del mondo vivono con meno di un dollaro al giorno calano, secondo cifre fornite dalla Banca Mondiale, da un miliardo e 200 milioni (54% sul totale degli abitanti) a 700 milioni (23%). Se si provano a consultare su www.socialanalysis.org i dati forniti dalla Food and Alimentation organization delle Nazioni Unite, la tendenza al ribasso della povertà è confermata, pur se in termini più contenuti: il numero delle persone denutrite sarebbe calato in Asia da 569 a 519 milioni,
e in particolare in Cina, passando da 193 a 142 milioni.
Tuttavia i dati empirici a supporto della tesi opposta non mancano affatto. Il Rapporto sullo sviluppo umano compilato dalle Nazioni Unite nel 1999 sostiene che le differenze tra i popoli e gli stati più ricchi e più poveri hanno continuato ad allargarsi. Nel 1960 il 20% della popolazione mondiale che abitava nei paesi più ricchi aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero.
La proporzione è aumentata a 60 volte nel 1990 e a 74 nel 1997,
mettendo in luce una tendenza di fondo che dura da quasi due secoli.
Andando oltre le statistiche, se è pur vero che è povero non solo chi ha una ridotta disponibilità di risorse, ma anche chi non è in grado di utilizzarle, va sottolineato che povertà e ineguaglianza (oltre a mancanza di libertà) rappresentano due aspetti della realtà che non possono essere confusi né assimilati. Esistono paesi – come per l’appunto l’Italia – con poca ineguaglianza e molta povertà relativa (nel 1998 il rapporto tra reddito della popolazione più ricca e quella più povera era di 4,2, mentre la percentuale di popolazione che viveva con meno della metà del reddito medio era addirittura il 12,8). Non necessariamente però tra i due aspetti sussistono rapporti di proporzione diretta: la povertà può benissimo ridursi mentre contemporaneamente cresce l’ineguaglianza. Proprio la Cina incarna in modo emblematico questa contraddizione. La diminuzione della povertà (da 600 a 200 milioni di persone) si accompagna infatti a una crescita di aree di benessere da cui ha inizio una tendenza, ormai consolidata da decenni, all’aumento dell’ineguaglianza del tutto paradossale per un paese comunista: tra 1980 e 1998 la differenza tra redditi familiari urbani e rurali (da 4,6 a 7,9) si allarga progressivamente fino
a raggiungere livelli non distanti da quelli degli Stati Uniti (8,9).
Al tempo stesso, però, se si esclude la Cina, i poveri della Terra aumentano negli ultimi vent’anni da 845 a 888 milioni, con una crescita significativa nei paesi ex comunisti (da 1 a 18 milioni), in America latina (da 36 a 50) e soprattutto nell’Africa subsahariana (da 164 a 314). Almeno per il momento, dunque, la «miracolosa» ricetta asiatica non sembra convincere del tutto
e non è direttamente esportabile in altre parti del mondo.
(Archivio Giunti)
Si tratta, in primo luogo, di allargare la visione sulla questione più generale della povertà nel mondo almeno alla storia degli ultimi secoli, confrontando, per esempio, l'economia del Settecento con i mercati di oggi. Costretti ad analisi approfondite nel breve periodo, invece, economisti e sociologi finiscono per avere una visione dello sviluppo dei paesi poveri troppo schiacciata sul periodo coloniale e sullo sforzo di modernizzazione successivo. Il problema è che spesso questo approccio si trova di fronte a pregiudizi che risalgono alla storia precedente e finisce per assimilare casi specifici e limitati spazialmente e temporalmente ad una sorta di luogo comune della povertà e dell'arretratezza: si fa così riferimento a presunte identità etniche in conflitto, magari abilmente sfruttate dai regimi coloniali, come nel caso di Hutu e Tutsi nel Congo Belga; a logiche tribali di fazione e clientelismo che aumentano a dismisura i livelli della corruzione della burocrazia pubblica; a inerzie e resistenze delle comunità locali nei confronti dei processi pianificati di industrializzazione e commercializzazione dell’agricoltura; ad appartenenze religiose capaci di condizionare e stravolgere i meccanismi della rappresentanza elettiva; ad una instabilità cronica dei governi e delle istituzioni del luogo. In Asia, Africa, America latina la storia passata e recente è piena di episodi e vicende interpretate secondo questi luoghi comuni. Si rischia, così facendo, di riproporre per i paesi del Terzo mondo, la stessa visione che Hegel aveva dell’Africa come spirito non sviluppato, senza storia, ancora avvolto nelle condizioni naturali.
Eppure la storia recente delle ricette che i paesi ricchi hanno via via elaborato nel corso del XX secolo per risolvere i problemi dei paesi poveri, è anche la storia delle sconfitte di quegli stessi luoghi comuni di cui erano plasmati quasi tutti i progetti di modernizzazione elaborati dall’Occidente. La razionalità dell’homo oeconomicus o politicus occidentale si trova costretta a scendere a patti con logiche, identità e credenze diverse, legate a contesti culturali «altri» e «diversi», dove quei modelli
di comportamento elaborati in Europa o sono assenti o sono presenti in forme minori.
La questione dell’ineguaglianza e del sottosviluppo non è, dunque, solamente una questione che si può interpretare con il solo strumento della storia economica, magari mettendo a confronto lunghi elenchi di dati e statistiche, ma si intreccia con la storia delle scienze sociali. Nello stesso tempo, ineguaglianza e sottosviluppo sono, per definizione, concetti relativi e soggettivi, fondati sul confronto dei giudizi e pregiudizi individuali e collettivi, che insieme formano il modo di guardare alla propria esperienza e a quella degli altri. Di fronte alla scoperta dell’ineguaglianza, la «piccola» storia delle scienze statistiche si intreccia con la «grande» storia
della coscienza europea ed occidentale posta a confronto con gli «altri».
Quando, come e perché il problema dell’ineguaglianza tra paesi poveri e paesi ricchi si pone all’attenzione dei primi e dei secondi? Quale ruolo gioca il colonialismo nell'odierna realtà dei paesi in via di sviluppo? In che misura comportamenti e strategie di sopravvivenza dei poveri di tutto il mondo affondano le proprie radici in tradizioni e consuetudini ancora più antiche dell’arrivo degli occidentali? Quali sono state, nel corso del tempo, le diagnosi e le terapie contro arretratezza socioeconomica?
E come è cambiato l’atteggiamento dei paesi poveri nei confronti dell’Occidente?
Si tratta, con tutta evidenza, di domande complesse, alle quali non è facile dare risposte del tutto coerenti.
(Tratto da: “Globalizzazione” (Giunti, Firenze)