La globalizzazione e la guerra
La globalizzazione e la guerra
Una visione di lungo periodo e possibilmente dialettica della globalizzazione trova riscontri anche nell’ambito più propriamente geo-politico. A differenza della lettura «filosofica» della globalizzazione che punta sulla cosiddetta «morte della distanza» e «fine dello stato-nazione», sostituito da un impero globale su scala planetaria, questo genere di analisi mette in evidenza l'aumento progressivo dell’instabilità internazionale, acuita dalla crisi internazionale apertasi col terrorismo internazionale, in particolare con gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma fondata, quotidianamente, su processi ben precedenti e strettamente legati alla fine dei regimi comunisti, al risorgere delle ideologie nazionaliste a sfondo religioso, che animano buona parte di quei paesi.
E' soffiando sul fuoco della polemica che il politologo Huntington fonda la sua tesi sullo «scontro di civiltà» [Huntington 1997] e prospetta un approccio «realista» alla storia delle relazioni internazionali in cui si fronteggiano non più gli stati e i loro interessi nazionali (con le loro alleanze, i loro rapporti di forza) ma indifferenziati blocchi culturali-religiosi, contraddistinti da identità assai più antiche di quelle della guerra fredda e quindi ancora più immobili, monolitiche, non negoziabili.
D’altra parte, gli Stati Uniti, dopo la guerra fredda, manifestano una posizione sempre più unilateralista, pronta a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento, dall’alto della propria indiscussa superiorità economica e militare. Dopo l’11 settembre, infatti, il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato fino a raggiungere, nel 2002, ben 343 miliardi. Dal canto suo, la Russia, la seconda nazione in termini di spese militari, rappresenta meno di un quinto della potenza bellica statunitense
(64 miliardi di dollari), con proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio fa.
Se però mettiamo in atto una comparazione in chiave storica, ad una più attenta analisi è possibile valutare meglio le nuove gerarchie del potere mondiale e scoprire importanti differenze rispetto al passato. Nel 1900, le spese militari britanniche raggiungevano, proporzionalmente, dimensioni non molto diverse da quelle statunitensi attuali, che sembrerebbero ribadire la validità della tesi della continuità di un’economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare. Ma esaminate lungo un arco cronologico più ampio, per esempio partendo dal 1890, le stesse spese militari britanniche appaiono assai meno imponenti di quelle degli Stati Uniti attuali (corrispondevano a circa la metà di quelle russe ed erano più o meno simili a quelle di Francia e Germania), mentre alla vigilia della Grande Guerra, arrivano ad essere paragonabili a quelle francesi, tedesche e russe. Le cifre sulle spese militari britanniche del 1900 non sono dunque così qualificanti e sono destinate, nel giro di qualche decennio ad essere rimesse in discussione da un maggiore equilibrio militare a livello europeo. Inoltre, a differenza di quella statunitense, la supremazia britannica di un secolo fa non si fonda sul controllo esclusivo di tecnologie particolari (si pensi ai cacciabombardieri invisibili statunitensi o alle cosiddette «bombe intelligenti) o di programmi di ricerca scientifica, bensì sull’attuazione sistematica di programmi di riarmo estensivo (flotta navale, corazzate). Il distacco sul piano strategico militare operato dagli Stati Uniti nei confronti di tutte le altre potenze europee ha il suo inizio subito dopo la sconfitta americana in Vietnam ed ha il suo culmine negli anni Ottanta, con la cosiddetta «Strategic Defense Iniziative», meglio nota come «guerre stellari» di Reagan. Va detto che accanto alla supremazia militare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una accentuata instabilità accompagna l’indiscussa leadership del dollaro nelle relazioni commerciali internazionali.
Un'altra importante differenza sta nei diversi equilibri internazionali: se è vero che al posto degli Stati Uniti odierni c'era la Gran Bretagna che alla fine del secolo scorso era capace di esprimere un’egemonia intercontinentale fondata su un impero coloniale senza rivali, non va dimenticato che dai 40 stati del 1900 si è passati ai circa 180 stati attuali.
(Archivio Alinari)
In definitiva dunque la globalizzazione economica si accompagna a una evidente frammentazione del sistema delle relazioni internazionali, con la moltiplicazione delle aree integrate commerciali (come Nafta, Mercosur e Unione Europea), delle medie potenze regionali in grado di mirare a pericolose politiche egemoniche ed espansive (come Iran o Pakistan) che si sono sostituite rapidamente alle identità ideologiche proprie della contrapposizione tra democrazia e comunismo. La situazione internazionale insomma sembra diventare più instabile rispetto al tempo della guerra fredda, semplicemente per effetto di un aumento dei soggetti e delle variabili in gioco.
Appare evidente che in questo contesto così tumultuoso, a parte il caso particolare della guerra del Golfo o delle cosiddette «operazioni di pace» in Africa o nei Balcani, in cui si era affermato un nuovo modello di intervento degli Stati Uniti, fondato sul concordato con altri stati e sulla mediazione dell’Onu o della Nato, l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti di queste «nuove guerre» [Kaldor* 1999] si è spostato in direzione di una tendenza sempre più unilateralista. Tale atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti di forme di collaborazione sopranazionale ha avuto modo di manifestarsi pubblicamente in occasione del rifiuto statunitense di sottoscrivere sia il Protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti sia l’atto di fondazione del Tribunale penale internazionale [Allegretti 2002]. Rispetto alla complessità crescente delle relazioni internazionali gli Stati Uniti sembrano non voler percorrere la strada del dialogo o della concertazione e le preferiscono quella del decisionismo e della difesa dei propri interessi.
Ad ipotizzare soluzioni alternative per opporsi in qualche maniera, tanto da indicare un preoccupante scenario che poi si sarebbe puntualmente verificato con gli attentati di Al Qaeda, allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti era, prima fra tutte, l'apparato strategico della Cina popolare. Nell’ambiguità tipicamente orientale tra diagnosi e terapia che lo contraddistingue, il pensiero strategico militare cinese è venuto elaborando, tra il 1996 e il 1999, il concetto di «guerra asimmetrica»: una nuova arte della guerra che ricorre ad altri terreni di sfida non tradizionale [Liang e Xiangsui* 2001], come i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico. Appare di un certo interesse il riferimento alla possibilità di usare come vere e proprie «armi» anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile, e la distinzione tra vecchie e nuove guerre, non solo perchè l'accenno proviene da una nazione che impegna in proporzione quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (il 5.3% del Pil) rispetto ad altri importanti nazioni come gli Usa (3%), il Regno Unito (2,4%) e la Russia (5%), ma soprattutto perchè mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate. In tal senso l’unilateralismo messo in atto dagli Stati Uniti non appare in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, mentre espone a sofferenze e rischi migliaia di civili in altre parti del mondo. A ciò si aggiunga il divario nei confronti degli Stati Uniti del peso politico-militare dei paesi che compongono l'Unione Europea (al cui interno spicca il ruolo predominante del Regno Unito, da sempre partner privilegiato degli americani, che destinava ben
36 miliardi di dollari agli armamenti su un totale di circa 174 nel 2000).
Per trovare una soluzione diversa dallo scontro di civiltà e dall'unilateralismo americano, che non passi attraverso l'utopico appello ad una non bene precisata «società civile mondiale», non rimane che sperimentare quella che appare probabilmente l'unica alternativa percorribile: il diritto internazionale, in particolare l’esercizio applicativo dell’articolo 14 della carta delle Nazioni Unite, per l’uso circoscritto della forza militare, e la riforma democratica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in direzione dell’abolizione
del diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza.
Si tratta di una via che peraltro, in passato, ha dato importanti risultati: in occasione dell'Atto finale della conferenza di Helsinki del 1975 che ha conferito sostegno giuridico al processo di sgretolamento dei regimi illiberali dell’est europeo; con l'appoggio internazionale alla causa anti-apartheid in Sudafrica che ha dato avvio, seppure con risultati altalenanti, al processo di democratizzazione di quei paesi; con la risoluzione della crisi balcanica, durante la quale con una multilateralità di interventi si è riusciti a mobilitare contro il premier serbo Milosevic oltre all'opinione pubblica mondiale anche quella interna, che fungendo da interlocutore privilegiato e da soggetto politico ha reso più praticabile la via della rinascita politica ed economica in quei paesi.
Appare chiaro che non in tutti i paesi questo genere di soluzione è praticabile (si pensi ai casi di Iraq, Afghanistan e Somalia), ma in alcuni contesti la crescita delle società civili locali, aiutata da un maggiore peso del ruolo di partner dialogante esercitato dall'Unione Europea, dalla mobilitazione di organizzazioni internazionali e associazioni non governative, diventa un requisito indispensabile
per il loro sviluppo economico e politico. [Sen* 2001].
(Estratto da: “Il mondo globale come problema storico” (Archetipo libri, Bologna)
Caso Moro. Frammenti di una verità indicibile
Fermarci a capire cosa sta dietro la fine di Aldo Moro può aiutarci a riflettere, come ha ricordato Giovanni Moro, sui cosiddetti “fantasmi” degli anni settanta. Cinque processi e due commissioni parlamentari di inchiesta non sono riusciti a fornire risultati significativi per ricostruire la complessiva dinamica del sequestro e dell’uccisione di Moro. Tuttavia, anche la maniera in cui la storiografia ha affrontato, salvo rari casi, la vicenda, senza riuscire a fornirne una credibile interpretazione politica complessiva che tenga conto del macronodo relativo ai rapporti tra la dimensione nazionale e internazionale, è emblematica della difficoltà nell’affrontare la lunga crisi degli anni settanta e
i veri motivi della fine della prima repubblica.
Se si vuole cominciare a consegnare ai posteri, con un minimo di credibilità, la vicenda di Moro, sicuramente la più drammatica della storia repubblicana, occorre riportare in primo piano il confronto ravvicinato con la documentazione contemporanea all’avvenimento (soprattutto le lettere e i documenti di Moro), intrecciandola con le testimonianze successive dei suoi più importanti protagonisti, in modo da far emergere tutta la complessità della questione.
A dispetto dei facili slogan, una cosa appare chiara: le Br furono, per loro stessa ammissione, gli esecutori materiali della condanna a morte di Moro, ma non gli unici a provocarla. A suffragare questa affermazione sono giunte, a venti e trenta anni di distanza da quel fatidico 9 maggio 1978, due aperte ammissioni di co-responsabilità: la prima di Francesco Cossiga, allora ministro degli Interni, che in un articolo del 1998 ha affermato di aver “concorso, sul piano dei fatti, alla morte di Moro”; la seconda, avanzata da Steve R. Pieczenik, perito americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, che, in un volume del 2008, ha sostenuto di aver contribuito all’uccisione di Moro. Più nel dettaglio, Pieczenik ha affermato che la sua missione in Italia, durante la vicenda, volta al recupero di eventuali documenti che potessero mettere in pericolo il segreto di Stato in Italia (e lo stretto legame del nostro paese con la Nato), prevedeva il mantenimento in vita dell’ostaggio; tuttavia, dopo le affermazioni di Moro e il tono delle sue lettere dalla prigionia, egli si rese conto che non poteva esserci più alcuna volontà da parte del governo e della Dc di salvargli la vita e quindi fu indotto ad avallarne l’estremo sacrificio.
Detto questo, nonostante le rivelazioni di illustri testimoni e le dichiarazioni dei brigatisti, come si capisce bene, il quadro è apparso sempre molto più complesso e diversificato di quanto non ci inducano a pensare i crudi e singoli fatti appurati. L’immagine più calzante sembra averla data uno dei più stretti collaboratori di Moro, Corrado Guerzoni: “Ė come quando si getta un sasso in un lago. Il sasso va subito a fondo, in superficie si formano dei cerchi concentrici, ognuno dei quali ha un forma e una vita sue proprie”. A rileggere gli eventi, sulla base di documenti, carte, lettere, rivelazioni, audizioni, articoli, emerge tutta la complessità della vicenda, che però si potrebbe sintetizzare (senza voler apparire semplicistici, e a patto di poter argomentare con cura gli intrecci degli eventi) in questi termini: Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Br, ma in accordo, di fatto, con i suoi nemici interni – al governo e non, dentro le istituzioni e non – e con i nemici internazionali della sua politica. Sembra, infatti, alquanto azzeccato per questa tragica storia, il titolo, che fu già di un famoso romanzo, Cronaca di una morte annunciata.
Vediamo allora chi furono, protagonista per protagonista, questi nemici o comunque “finti amici” di Moro, con l’ausilio della documentazione finora in nostro possesso, provando a intrecciare i tanti elementi utili forniti dai volumi pubblicati in questi circa trent’anni, che evidentemente non sono stati finora collegati e letti in maniera tale da poter fornire un’interpretazione unitaria della vicenda o anche solo da riuscire a far emergere tutti gli aspetti più ambigui e, come tali, inquietanti di questa storia. Va tenuto presente infatti che dove i risultati di una commissione di inchiesta e di indagine non potranno mai giungere, per ragioni tecniche ma anche politiche, può invece arrivare l’analisi storiografica e la riflessione intellettuale, quanto più possibile distaccata dai risvolti direttamente ideologici di quei fatti [...]
(Tratto da: “Italia contemporanea”, n. 255)
(Fonte Internet)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)