La libertà di stampa in Italia: oggi come ieri
Fonte: Cronache laiche
«La stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza. Il tema fu già posto da Einaudi alla Costituente, ma né allora né dopo si è riusciti a risolvere questo enorme problema di libertà e dei diritti umani. Non so come giocherà la nuova legge sulla stampa; ma è certo che la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva [...] Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale».
Diciamo subito che la frase si colloca alla fine degli anni Settanta. Sfidiamo chiunque, a parte qualche illustre storico ferratissimo sull’argomento, a indovinare quando e chi ha scritto queste parole. Proviamo a fare un gioco di ipotesi. Non può essere stato un grande scrittore o un artista dell’epoca, almeno per due ragioni: analizzandola filologicamente si nota che la frase si addentra nel tecnico, non è ad effetto, non è altamente poetica, evocativa, accattivante e neppure un po’ populista; inoltre, morto Pasolini (morto non a caso, ma probabilmente proprio per i suoi modi di esprimersi controcorrente, spesso imbarazzanti), nessun altro, a conti fatti, ha posto la questione della libertà di stampa in Italia in termini così netti, almeno a quei tempi. Altro discorso è poi quando è arrivato il conflitto di interessi di Berlusconi, e tutti gli intellettuali si sono svegliati dal torpore ed hanno cominciato, un giorno sì e l’altro pure, a porre il problema, facendone anzi un cavallo di battaglia buono per aizzare le folle e vendere qualche copia in più dei loro libri o pamphlet. No, non di un grande intellettuale si tratta. Non può essere stato nemmeno un gettonato opinionista o un grande giornalista della carta stampata, perché sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangia. Il coraggio e le belle parole le profondono e le dispensano, ampiamente, su altri temi (cavalcando l’onda dell’emozione e del sensazionalismo, dal caso Tortora a Vanna Marchi, da Moggi al capitan Schettino). Non può essere stato, infine, una personalità politica di primo piano nel culmine delle sue funzioni di potere, né con incarichi al governo, per ovvie ragioni di relazioni e scambi di favore con le stesse grandi testate, né all’opposizione, tenuto conto che, dalla fine degli anni sessanta in poi, il più grande partito di opposizione, cioè a dire il Pci, ha cercato in tutte le maniere di superare quell’isolamento (la cosiddetta convention ad excludendum non era valida solo per l’approdo al governo ma anche per lo spazio su Tv e giornali a grande tiratura) a cui era stato costretto dalla Dc (ma anche poi dal Psi) durante la lunga fase della guerra fredda.
No, nulla di tutto questo. Queste durissime parole, che possiamo riproporre valide e intatte oggi, così come sono, senza modificare una virgola, sono state scritte da un uomo che si trovava stipato in un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, grande quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi, in cui c’erano solo una branda, un water, qualche foglio di carta e una penna. Quell’uomo, tenuto prigioniero dalle Br per ben 55 giorni in quello stato, è colui che più di tutti, più di chiunque altro, più di qualsiasi paladino delle libertà nostrane tanto in voga oggi, ha il diritto ed ha l’autorità morale e intellettuale per darci lezioni, allora come oggi, sulla libertà di opinione e di informazione in Italia. Un uomo costretto, in quei lunghi e drammatici giorni, a scrivere per non morire e, soprattutto, a scrivere per riuscire a sopravvivere idealmente, così come poi è stato, alla propria stessa morte materiale.
Per chi non ci credesse, è bene segnalare lo scritto in cui queste parole si trovano: Memoriale, XVI tema – Sulla indipendenza della stampa italiana, in Comm. stragi, II 154-155. Si tratta di quel noto memoriale, ritrovato in più parti e in tempi diversi (1978, 1990), proprio perché in molti, e a vari livelli di potere (politico, economico, editoriale) temettero di renderlo pubblico, appunto, per via dei temi affrontati dal prigioniero. Qui basta ricordarne qualcuno: l’organizzazione della Gladio, i contatti tra le Br e i servizi segreti occidentali, alcuni retroscena della strategia della tensione, le connivenze tra politica, economia, criminalità per far affari sulle spalle dei contribuenti. Insomma ce n’era per far tremare i polsi a chiunque. Ma il passaggio che sottoponiamo all’attenzione dei lettori, quello relativo alla mancanza di libertà di informazione in Italia, è un aspetto che ha influenzato, forse più di ogni altro, l’evoluzione democratica e civile del nostro paese.
Scriviamo questo non in modo estemporaneo, per un tipico vezzo intellettuale (da cui è bene sempre rifuggire), né per dar sfoggio di particolari reminiscenze sulla più recente storia d’Italia, ma perché sollecitato di recente dalle notizie provenienti dal rapporto di Reporters sans frontières, un’organizzazione internazionale, nata in Francia (la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione – è bene ricordarlo di questi tempi), a difesa della libertà di stampa nel mondo. L’Italia, nel quadro comparato con gli altri paesi, si trova addirittura al sessantunesimo posto (per dare un’idea, prime sono Norvegia e Finlandia, la Grecia è al settantesimo, negli ultimi posti Iran, Siria, Eritrea e Corea del Nord). La situazione del nostro paese, nonostante ciò che continuano a ripetere opinionisti e politici invitati nei talk show televisivi o a scrivere dalle prime pagine dei quotidiani nazionali, non è molto diversa, e questo rapporto lo argomenta con chiarezza, da quella di paesi come, ad esempio, quelli balcanici, che vivono enormi deficit democratici oltre che economici.
In particolare, nel rapporto si segnala, anche in Italia, l’utilizzo dei media e dei giornali nazionali a grande tiratura, ma anche dei siti più visitati e quindi più remunerativi dal punto di vista commerciale e pubblicitario, per tutelare interessi privati, si sottolinea la concorrenza sleale su un mercato assai ristretto, e si pone l’accento sulla presenza di giornalisti sottopagati e spesso obbligati all’autocensura.
Non è un caso, dunque, che in Italia molti giornalisti siano ancora costretti a vivere in regime di protezione, e che tanti altri, quelli che vogliono scrivere e riportare la realtà cruda delle cose, senza intermediazioni, compromessi, favoritismi, scambi, vengano isolati e non possano svolgere dignitosamente il proprio lavoro.
Un paese in cui l’informazione indipendente non esiste o è assolutamente minoritaria, usufruisce di pochissimi mezzi, è sempre a rischio di essere strozzata e ridotta al silenzio, nell’indifferenza dei partiti di governo e di opposizione, impegnati a crescere le proprie quote di influenza proprio sui media e sulla stampa nazionale. I tentativi di introdurre leggi bavaglio, di censurare i contenuti della rete da parte del governo precedente, le polemiche furibonde di molte personalità dell’opposizione nei confronti dei giornalisti e della stampa, sono tutti segnali chiari di una forma mentis della politica italiana che, purtroppo, risale a epoche assai remote. Un paese già declassato nel 2009 a “partially free” dall’organizzazione americana sulla libertà nel mondo Freedom House.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: ma è davvero stata solo colpa di Berlusconi e del mai risolto conflitto d’interessi se la libertà di informazione in Italia è giunta ai pericolosi livelli tuttora negati dalla maggioranza degli osservatori italiani? Se ci rifacciamo al drammatico appello di Moro in carcere, che mi sembra un elemento storico molto significativo, credibile, e soprattutto non viziato da possibili forzature interpretative di parte, verrebbe proprio da rispondere di no.
Fonte: Cronache laiche
Caso Moro. Frammenti di una verità indicibile
Fermarci a capire cosa sta dietro la fine di Aldo Moro può aiutarci a riflettere, come ha ricordato Giovanni Moro, sui cosiddetti “fantasmi” degli anni settanta. Cinque processi e due commissioni parlamentari di inchiesta non sono riusciti a fornire risultati significativi per ricostruire la complessiva dinamica del sequestro e dell’uccisione di Moro. Tuttavia, anche la maniera in cui la storiografia ha affrontato, salvo rari casi, la vicenda, senza riuscire a fornirne una credibile interpretazione politica complessiva che tenga conto del macronodo relativo ai rapporti tra la dimensione nazionale e internazionale, è emblematica della difficoltà nell’affrontare la lunga crisi degli anni settanta e
i veri motivi della fine della prima repubblica.
Se si vuole cominciare a consegnare ai posteri, con un minimo di credibilità, la vicenda di Moro, sicuramente la più drammatica della storia repubblicana, occorre riportare in primo piano il confronto ravvicinato con la documentazione contemporanea all’avvenimento (soprattutto le lettere e i documenti di Moro), intrecciandola con le testimonianze successive dei suoi più importanti protagonisti, in modo da far emergere tutta la complessità della questione.
A dispetto dei facili slogan, una cosa appare chiara: le Br furono, per loro stessa ammissione, gli esecutori materiali della condanna a morte di Moro, ma non gli unici a provocarla. A suffragare questa affermazione sono giunte, a venti e trenta anni di distanza da quel fatidico 9 maggio 1978, due aperte ammissioni di co-responsabilità: la prima di Francesco Cossiga, allora ministro degli Interni, che in un articolo del 1998 ha affermato di aver “concorso, sul piano dei fatti, alla morte di Moro”; la seconda, avanzata da Steve R. Pieczenik, perito americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, che, in un volume del 2008, ha sostenuto di aver contribuito all’uccisione di Moro. Più nel dettaglio, Pieczenik ha affermato che la sua missione in Italia, durante la vicenda, volta al recupero di eventuali documenti che potessero mettere in pericolo il segreto di Stato in Italia (e lo stretto legame del nostro paese con la Nato), prevedeva il mantenimento in vita dell’ostaggio; tuttavia, dopo le affermazioni di Moro e il tono delle sue lettere dalla prigionia, egli si rese conto che non poteva esserci più alcuna volontà da parte del governo e della Dc di salvargli la vita e quindi fu indotto ad avallarne l’estremo sacrificio.
Detto questo, nonostante le rivelazioni di illustri testimoni e le dichiarazioni dei brigatisti, come si capisce bene, il quadro è apparso sempre molto più complesso e diversificato di quanto non ci inducano a pensare i crudi e singoli fatti appurati. L’immagine più calzante sembra averla data uno dei più stretti collaboratori di Moro, Corrado Guerzoni: “Ė come quando si getta un sasso in un lago. Il sasso va subito a fondo, in superficie si formano dei cerchi concentrici, ognuno dei quali ha un forma e una vita sue proprie”. A rileggere gli eventi, sulla base di documenti, carte, lettere, rivelazioni, audizioni, articoli, emerge tutta la complessità della vicenda, che però si potrebbe sintetizzare (senza voler apparire semplicistici, e a patto di poter argomentare con cura gli intrecci degli eventi) in questi termini: Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Br, ma in accordo, di fatto, con i suoi nemici interni – al governo e non, dentro le istituzioni e non – e con i nemici internazionali della sua politica. Sembra, infatti, alquanto azzeccato per questa tragica storia, il titolo, che fu già di un famoso romanzo, Cronaca di una morte annunciata.
Vediamo allora chi furono, protagonista per protagonista, questi nemici o comunque “finti amici” di Moro, con l’ausilio della documentazione finora in nostro possesso, provando a intrecciare i tanti elementi utili forniti dai volumi pubblicati in questi circa trent’anni, che evidentemente non sono stati finora collegati e letti in maniera tale da poter fornire un’interpretazione unitaria della vicenda o anche solo da riuscire a far emergere tutti gli aspetti più ambigui e, come tali, inquietanti di questa storia. Va tenuto presente infatti che dove i risultati di una commissione di inchiesta e di indagine non potranno mai giungere, per ragioni tecniche ma anche politiche, può invece arrivare l’analisi storiografica e la riflessione intellettuale, quanto più possibile distaccata dai risvolti direttamente ideologici di quei fatti [...]
(Tratto da: “Italia contemporanea”, n. 255)
(Fonte Internet)