La libertà di stampa in Italia: oggi come ieri
Fonte: Cronache laiche
«La stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza. Il tema fu già posto da Einaudi alla Costituente, ma né allora né dopo si è riusciti a risolvere questo enorme problema di libertà e dei diritti umani. Non so come giocherà la nuova legge sulla stampa; ma è certo che la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva [...] Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale».
Diciamo subito che la frase si colloca alla fine degli anni Settanta. Sfidiamo chiunque, a parte qualche illustre storico ferratissimo sull’argomento, a indovinare quando e chi ha scritto queste parole. Proviamo a fare un gioco di ipotesi. Non può essere stato un grande scrittore o un artista dell’epoca, almeno per due ragioni: analizzandola filologicamente si nota che la frase si addentra nel tecnico, non è ad effetto, non è altamente poetica, evocativa, accattivante e neppure un po’ populista; inoltre, morto Pasolini (morto non a caso, ma probabilmente proprio per i suoi modi di esprimersi controcorrente, spesso imbarazzanti), nessun altro, a conti fatti, ha posto la questione della libertà di stampa in Italia in termini così netti, almeno a quei tempi. Altro discorso è poi quando è arrivato il conflitto di interessi di Berlusconi, e tutti gli intellettuali si sono svegliati dal torpore ed hanno cominciato, un giorno sì e l’altro pure, a porre il problema, facendone anzi un cavallo di battaglia buono per aizzare le folle e vendere qualche copia in più dei loro libri o pamphlet. No, non di un grande intellettuale si tratta. Non può essere stato nemmeno un gettonato opinionista o un grande giornalista della carta stampata, perché sarebbe stato come sputare nel piatto dove mangia. Il coraggio e le belle parole le profondono e le dispensano, ampiamente, su altri temi (cavalcando l’onda dell’emozione e del sensazionalismo, dal caso Tortora a Vanna Marchi, da Moggi al capitan Schettino). Non può essere stato, infine, una personalità politica di primo piano nel culmine delle sue funzioni di potere, né con incarichi al governo, per ovvie ragioni di relazioni e scambi di favore con le stesse grandi testate, né all’opposizione, tenuto conto che, dalla fine degli anni sessanta in poi, il più grande partito di opposizione, cioè a dire il Pci, ha cercato in tutte le maniere di superare quell’isolamento (la cosiddetta convention ad excludendum non era valida solo per l’approdo al governo ma anche per lo spazio su Tv e giornali a grande tiratura) a cui era stato costretto dalla Dc (ma anche poi dal Psi) durante la lunga fase della guerra fredda.
No, nulla di tutto questo. Queste durissime parole, che possiamo riproporre valide e intatte oggi, così come sono, senza modificare una virgola, sono state scritte da un uomo che si trovava stipato in un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, grande quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi, in cui c’erano solo una branda, un water, qualche foglio di carta e una penna. Quell’uomo, tenuto prigioniero dalle Br per ben 55 giorni in quello stato, è colui che più di tutti, più di chiunque altro, più di qualsiasi paladino delle libertà nostrane tanto in voga oggi, ha il diritto ed ha l’autorità morale e intellettuale per darci lezioni, allora come oggi, sulla libertà di opinione e di informazione in Italia. Un uomo costretto, in quei lunghi e drammatici giorni, a scrivere per non morire e, soprattutto, a scrivere per riuscire a sopravvivere idealmente, così come poi è stato, alla propria stessa morte materiale.
Per chi non ci credesse, è bene segnalare lo scritto in cui queste parole si trovano: Memoriale, XVI tema – Sulla indipendenza della stampa italiana, in Comm. stragi, II 154-155. Si tratta di quel noto memoriale, ritrovato in più parti e in tempi diversi (1978, 1990), proprio perché in molti, e a vari livelli di potere (politico, economico, editoriale) temettero di renderlo pubblico, appunto, per via dei temi affrontati dal prigioniero. Qui basta ricordarne qualcuno: l’organizzazione della Gladio, i contatti tra le Br e i servizi segreti occidentali, alcuni retroscena della strategia della tensione, le connivenze tra politica, economia, criminalità per far affari sulle spalle dei contribuenti. Insomma ce n’era per far tremare i polsi a chiunque. Ma il passaggio che sottoponiamo all’attenzione dei lettori, quello relativo alla mancanza di libertà di informazione in Italia, è un aspetto che ha influenzato, forse più di ogni altro, l’evoluzione democratica e civile del nostro paese.
Scriviamo questo non in modo estemporaneo, per un tipico vezzo intellettuale (da cui è bene sempre rifuggire), né per dar sfoggio di particolari reminiscenze sulla più recente storia d’Italia, ma perché sollecitato di recente dalle notizie provenienti dal rapporto di Reporters sans frontières, un’organizzazione internazionale, nata in Francia (la patria dell’Illuminismo e della rivoluzione – è bene ricordarlo di questi tempi), a difesa della libertà di stampa nel mondo. L’Italia, nel quadro comparato con gli altri paesi, si trova addirittura al sessantunesimo posto (per dare un’idea, prime sono Norvegia e Finlandia, la Grecia è al settantesimo, negli ultimi posti Iran, Siria, Eritrea e Corea del Nord). La situazione del nostro paese, nonostante ciò che continuano a ripetere opinionisti e politici invitati nei talk show televisivi o a scrivere dalle prime pagine dei quotidiani nazionali, non è molto diversa, e questo rapporto lo argomenta con chiarezza, da quella di paesi come, ad esempio, quelli balcanici, che vivono enormi deficit democratici oltre che economici.
In particolare, nel rapporto si segnala, anche in Italia, l’utilizzo dei media e dei giornali nazionali a grande tiratura, ma anche dei siti più visitati e quindi più remunerativi dal punto di vista commerciale e pubblicitario, per tutelare interessi privati, si sottolinea la concorrenza sleale su un mercato assai ristretto, e si pone l’accento sulla presenza di giornalisti sottopagati e spesso obbligati all’autocensura.
Non è un caso, dunque, che in Italia molti giornalisti siano ancora costretti a vivere in regime di protezione, e che tanti altri, quelli che vogliono scrivere e riportare la realtà cruda delle cose, senza intermediazioni, compromessi, favoritismi, scambi, vengano isolati e non possano svolgere dignitosamente il proprio lavoro.
Un paese in cui l’informazione indipendente non esiste o è assolutamente minoritaria, usufruisce di pochissimi mezzi, è sempre a rischio di essere strozzata e ridotta al silenzio, nell’indifferenza dei partiti di governo e di opposizione, impegnati a crescere le proprie quote di influenza proprio sui media e sulla stampa nazionale. I tentativi di introdurre leggi bavaglio, di censurare i contenuti della rete da parte del governo precedente, le polemiche furibonde di molte personalità dell’opposizione nei confronti dei giornalisti e della stampa, sono tutti segnali chiari di una forma mentis della politica italiana che, purtroppo, risale a epoche assai remote. Un paese già declassato nel 2009 a “partially free” dall’organizzazione americana sulla libertà nel mondo Freedom House.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: ma è davvero stata solo colpa di Berlusconi e del mai risolto conflitto d’interessi se la libertà di informazione in Italia è giunta ai pericolosi livelli tuttora negati dalla maggioranza degli osservatori italiani? Se ci rifacciamo al drammatico appello di Moro in carcere, che mi sembra un elemento storico molto significativo, credibile, e soprattutto non viziato da possibili forzature interpretative di parte, verrebbe proprio da rispondere di no.
Fonte: Cronache laiche
Referendum e svolte mancate
Un'analisi comparata sui dati dei 3 referendum
che hanno fatto la storia del nostro paese
Se compariamo questo referendum alle due precedenti storiche tornate referendarie del 1974 e del 1981, scopriamo che esistono molti elementi in comune a spiegare che la società civile è più avanti della politica e della classe dirigente che la governa. Sono i cittadini, i movimenti, le associazioni che, storicamente, danno la svolta. E' accaduto in passato, accade oggi. Il punto è che queste formidabili ondate progressiste la sinistra non è mai riuscita a incanalarle, fornendo risposte concrete su un versante politico.
Il primo referendum abrogativo della storia d'Italia, nel 1974, non fu promosso, come qualcuno potrebbe pensare, dai radicali o da giovani rivoluzionari di sinistra, ma dalla chiesa e dai democristiani, che, dopo l'approvazione della legge Fortuna-Baslini del 1970, diedero seguito all'idea di alto prelato, un monsignore, che aveva avanzato, alcuni anni prima (L'Italia, 17 aprile 1966), la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica cosìdelicata.
Non si creda però che l'esito di quel primo referendum fosse, alla vigilia, così scontato.
(Fonte Internet)
Il governo Rumor era appena caduto, a seguito della crisi economica e delle dimissioni del ministro del tesoro La Malfa. Basta prendere in considerazione i manifesti elettorali dell'epoca (“Pensa a tuo figlio”, “Non mescolare il tuo voto con i fascisti”) o la copertina di un libro uscito proprio in quei giorni (in cui campeggiavano le facce di Gabrio Lombardi e Loris Fortuna), per capire quanto forte fosse la contrapposizione tra i due fronti. favore della riconferma della legge si schierarono, trasversalmente, la lega italiana per il divorzio, il movimento liberazione delle donne, quelli del manifesto, i pidiuppini, la lega degli obiettori di coscienza, i radicali, le comunità di base, i cristiani per il socialismo, i cattolici democratici, gli indipendenti di sinistra, e poi i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri, Pli. Tra i quotidiani e le riviste appoggiarono il divorzio il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Paese Sera, l'Unità, Il Secolo XIX, La Nazione, Il Giorno, Panorama, L'Espresso, L'Europeo, Grand Hotel, Amica e Noi donne. Per l'abrogazione si espressero, dall'altro lato, i missini, la Dc, la Cei, il Papa, con Famiglia cristiana, Avvenire, La Discussione, L'Osservatore Romano, La Civiltà cattolica, Il Popolo, Il Gazzettino, Il Tempo, mentre tutta la Rai, allora l'unico mezzo di informazione veramente capillare, evitava accuratamente di far sentire la voce dei divorzisti.
Alla fine, con una sonora risposta all'alto prelato che l'aveva chiamato in causa, il popolo, dunque, si espresse, dando inizio a quel processo di secolarizzazione che ha avvicinato l'Italia agli altri paesi europei più evoluti sul versante dei diritti civili. L'affluenza fu incredibilmente alta, circa 33 milioni e 29 mila elettori, l'88,1% degli aventi diritto. I “sì” all'abrogazione della legge sul divorzio il 40,9% mentre i “no” superarono il 59%.
La clamorosa novità fu la fortissima tenuta anti-divorzista nelle campagne e nelle province, tra le donne, tra gli operai e tra i cattolici. Una enorme affluenza al voto e le più alte percentuali del “no” furono in Val D'Aosta (75%), Liguria (72%), Emilia Romagna (70%), poi in Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio, mentre tra le città, a Livorno (77%), Torino (76%), Ferrara (74%), Siena (74%), Trieste (73%), ma anche Bologna, Genova, Firenze, Reggio Emilia. Alte percentuali anti-divorziste si raggiunsero, sorprendentemente, anche nelle regioni del Sud, in testa Sardegna e Sicilia (e in particolare le città di Siracusa e Ragusa). Un'affluenza più bassa e le percentuali più alte del “sì” a Benevento, Lecce, Vicenza, Caserta, Avellino, Reggio Calabria, Potenza e Messina.
Il quadro sociologico e regionale emerso fu evidente. Il trend positivo, una sorta di traino, si ripercuoteva direttamente alle successive elezioni amministrative e regionali: rispetto alla disponibilità di voti degli schieramenti, Dc e Msi, uniti al referendum, avevano perso il 6,6%, circa 2 milioni e 700 mila voti, e infatti, nel 1975, la Dc calava e si attestava al 35% (e il Msi al 6%), mentre la sinistra era in crescita, con il Pci che aumentava del 5% e passava al 33,4%, il Psi + 2% e arriva al 12%, e il centro-sinistra insieme raggiungeva quota 45%, circa il 4% sopra il centro-destra. L'incredibile voto referendario e la evidente crescita di consensi elettorali della sinistra non erano però tramutati in un concreto risultato politico.
(Fonte Internet)
Anche nel 1981 la promozione del referendum che intendeva abrogare la legge sull'aborto del 1978 fu monopolizzata dai movimenti cattolici e in particolare da un ex giudice, divenuto presidente del Movimento per la vita. Anche in quell'occasione la contrapposizione nel paese fu fortissima, da un lato i radicali che rivendicavano l'aborto libero, dall'altro gli appelli delle parrocchie, dei parroci durante le omelie, e delle organizzazioni cattoliche, perfino le veglie di preghiera e le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum, mentre in casi estremi anche le statue del santo patrono sfilavano accompagnate dal cartello vota “sì”.
La campagna referendaria fu segnata da una certa sproporzione mediatica delle forze in campo. A favore del referendum anti-aborto o, comunque, per un'astensione diretta contro la riconferma della legge 194, si schierarono in una specie di santa alleanza, la Dc, il Msi, il Papa, la Cei, il Mpv, Comunione e liberazione, La Civiltà cattolica, L'Osservatore Romano, l'Opus Dei, Azione cattolica, le Acli, la Cisl, Il Sabato, il Corriere della Sera, Il Popolo, La Discussione, Il Tempo, mentre la Rai si trovò in evidente imbarazzo a parlare di “194” e di interruzione di gravidanza. Uniti in difesa della legge Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, Sinistra indipendente, Pdup, e poi i movimenti dell'Udi, l'Mld, i gruppi del dissenso cattolico (Cdb e Cps), l'Arci, e i giornali Paese Sera, La Stampa, la Repubblica, l'Unità, il manifesto, Il Messaggero, L'Espresso.
Il risultato fu una sberla contro Chiesa e Dc e la conferma di un paese indirizzato verso una maggiore laicità, quantomeno di principio. Le donne, anche quelle cattoliche, i movimenti e i partiti uniti a difesa della legge, nonché il discutibile referendum radicale pro aborto, furono gli elementi che contribuirono a quell'indimenticabile risultato. L'affluenza fu, anche in quel caso, molto alta, con il 79,6%. Si espresse per il “sì” all'abrogazione della legge sull'aborto il 32,1% mentre per il no ben il 67,9% degli italiani.
Ancora una volta le percentuali più alte a favore della legge furono in regioni come Val D'Aosta (77,3%), Umbria (76,9%), Emilia Romagna (76,8%), Liguria (76,1%), Toscana (75,4%), Piemonte (73,9%), mentre quelle più alte del “sì” si ebbero in Trentino e Alto Adige 50,3%, Veneto 43,4% e Molise 39,7%. Rilevante apparve il fatto che in paesi di montagna e piccole province, dove la Dc aveva ottenuto alle precedenti elezioni anche il 70%, i voti contro la legge furono appena il 50%, mentre al Sud, in particolare in Calabria e in Basilicata, ci fu un'incredibile alta percentuale di astensioni, sommata alle tante schede bianche. Non è un caso dunque che alle successive elezioni politiche, quelle del 1983, la Dc ottenne il 32% dei consensi, cioè a dire il suo minimo storico, con addirittura – 8% rispetto alla precedente tornata elettorale. Anche questa volta però, il senso anti-governativo del voto, verso un partito e un sistema che iniziava a risentire degli scandali della corruzione, non venne affatto concretizzato dalla sinistra, che ottenne sì un discreto risultato elettorale, ma che non fu in grado di fornire una proposta alternativa di governo. Non a caso il Psi abbracciò la Dc per dar vita a quel pentapartito che fece epoca negli anni ottanta.
Infine arriviamo all'oggi.
Stavolta i comitati che hanno promosso i referendum su acqua pubblica, nucleare e giustizia erano espressioni variegate, poco etichettabili, gruppi e movimenti della società orientati tendenzialmente a sinistra (ma non solo), decisi a far conoscere i quesiti referendari alla cittadinanza con ogni mezzo a loro disposizione. E' stata chiara, infatti, fin dall'inizio, la sproporzione mediatica delle forze contrapposte. Per l'astensionismo o per il “no” all'abrogazione delle leggi governative si è dichiarata la presunta maggioranza degli elettori, cioè a dire ilPdl, la Lega, Fli, l'Udc, ma anche la Cisl, la Confindustria, e poi quasi tutta la stampa televisiva, cioè la Rai (Tg1 e Tg2) e Mediaset, quella dei giornali, Il Corriere della Sera, Sole24ore, Giorno/Resto del Carlino/Nazione, Il Giornale di Sicilia, Il Gazzettino, Il Giornale, Il Mattino, Il Tempo, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Padania, Liberoe Panorama. Per i referendum, in modo trasversale, si sono schierati i comitati promotori sull'acqua pubblica e contro il nucleare, movimenti e gruppi come Legambiente, WWF, Italia Nostra, Arci, Protezione Civile, la Rete degli Studenti, Emergency, Donneinmovimento, Libertà e Giustizia, Cultura Sviluppo e Legalità, Medici per l’ambiente, gruppi sindacali come Cgil, Fiom, Cobas, l'Azione cattolica, le Acli, gli scout di Agesci, Pax Christi, poi i partiti Pd, Idv, Sel, FdS, socialisti, tra le tv solo la7, tra i giornali, Avvenire, Il Fatto quotidiano, il manifesto, l'Unità, la Repubblica, La Stampa, Famiglia cristiana, Il Messaggero, L'Espresso.
Un ruolo decisivo è stato giocato dalla rete, attraverso il passaparola, che ha saputo raggiungere luoghi e persone diverse, creando una mobilitazione “alternativa”. Interessante il dato proveniente dall'analisi del “Battiquorum” su facebook che alla mezzanotte del 12 giugno, su un totale di 3 milioni e 635 mila utenti circa, dava il 65% come indifferente, cioè la famosa massa grigia che non vota, il 21,8% formata da attivisti pro referendum, mentre appena il 12,4% addirittura contrario. Morale della favola, il paese reale è risultato ben più avanti rispetto allo stesso popolo di facebook, che pure rappresenta oggi un termometro socio-culturale del quale qualunque nuova forma di politica non potrà non tener conto.
L'affluenza del 57%, circa 29 milioni di elettori, e le percentuali tra il 94% e il 96% dei sì ai quesiti sono già storia. Anche in questo caso la maggiore affluenza è al Nord, con le regioni Trentino (64,6%), Emilia Romagna (64%), Toscana (63,5%), Marche (61%), con le città Firenze (67%), Bologna (66%), Trento e Bolzano (65%), Torino (61%), Venezia, Genova e Ragusa (60%), Roma (59%). Le più basse percentuali invece confermano un Sud più pigro, con la regione Calabria 50% e le città di Crotone (45%), Catania, Reggio Calabria, Foggia (49%), Caserta e Palermo (50%).
Donne, giovani, precari, studenti, credenti e non, Nord più consapevole e Sud critico, tutti protagonisti di un referendum che è in perfetta continuità con i referendum storici e che ha tutto il diritto di entrare nella storia della democrazia partecipativa del nostro paese. Emerge, infatti, ancora una volta, un chiaro dato che è ormai una costante: la richiesta da parte della società di partecipazione e di apertura sul versante dei diritti e della difesa dell'ambiente. Saprà stavolta la sinistra all'opposizione incanalare e dar voce a queste diffuse trasversali spinte progressiste?
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Giornalismo ed editoria anti-culturali
Capita a tutti di sfogliare, anche per sbaglio, un quotidiano. Oppure, per i più giovani, di soffermarsi su una notizia giornalistica diffusa su questo o quell’altro sito. Le notizie di stretta attualità risultano oggi sostanzialmente identiche in tutte le testate. Gli editoriali di approfondimento, quelli che dovrebbero indurre alla riflessione, sono spesso un’accozzaglia di luoghi comuni o di frasi a effetto. Nulla a che fare con l’analisi critica, lo studio dei fatti, i confronti doverosi col passato. Le pagine cosiddette culturali, quelle che un tempo erano chiamate terzepagine, contengono ogni santo giorno recensioni ben pagate dagli autori o dagli editori o gentilmente concesse ad amici e parenti più o meno stretti. Raramente si assiste a stroncature e quando capita solo sulla base di motivazioni
strumentalmente politiche, mai che si entri nel merito dei problemi sviluppati nei saggi.
Quanto ai romanzi dettano legge le mode. Prendete, ad esempio, gli editori più gettonati. La divulgazione della cultura è diventata, per loro, in genere, un’attività commerciale, che ha, molto spesso, gli stessi caratteri viziosi della pubblica amministrazione o della grande azienda. E’, in poche parole, burocratica e non tiene conto in alcun modo del merito. Nessuna voglia, dunque, di scoprire modi suggestivi e originali, ma anche profondi e ricchi di contenuti, sociali e anche, in qualche modo, politici. Nessuna voglia di contribuire a cambiare le cose, a trasformare il reale. Si limitano a fare quello che suppongono venga loro richiesto dal pubblico. E che cosa possono supporre sia loro richiesto da lettori che, in massima parte, immaginano pigri, inconsapevoli, bisognosi di distrazione in una quotidianità iper-veloce, dove si va sempre di corsa? Romanzi d’intrattenimento, sì proprio come un tempo, di svago, passatempi da leggere senza alcun impegno o partecipazione intellettuale, oppure storie che portano all’estremo realismo la cruda e dura realtà di chi soffre, oppure quei generi gialli ormai consolidati. Nient’altro. E’ evidente che si tratta di droghe culturali, palliativi che attenuano solo i sintomi di una malattia gravissima sotto gli occhi di tutti: chi dovrebbe oggi fare cultura, promuove, in sostanza, anti-cultura. Pensate sia un caso, infatti, se il “prodotto” libro, se si eccettuano quelli “pompati” da editori e grande stampa per vendere, mediante i soliti arci-noti premi letterari o la strategia delle recensioni, duri sullo scaffale delle librerie mediamente due mezze giornate?
Certo, dal giornalista non puoi aspettarti la sensibilità verso l’analisi, la critica, l’approfondimento degli eventi, questo è chiaro. Ma ti aspetteresti, quantomeno, la sensibilità verso l’avvenimento, la notizia. Invece non fa altro che rincorrere i desideri del pubblico, le aspettative del lettore. Non c’è da meravigliarsi, così, che in Italia si legga sempre di meno, e sempre a livelli inferiori rispetto agli altri paesi. Mi si dirà che il giornalista agisce nel contingente per il contingente. Sollevarsi a considerazioni in senso universale non fa parte della sua forma mentis. Vero. Ma una cosa è il contingente, un’altra la superficialità, la banalità, se non l’idiozia. L’intelligenza del ricercatore della notizia deve , indubbiamente, essere veloce, rapida, immediata e quindi, volendo, anche superficiale, ma non può finire col presentare falsità purché degne di interesse e curiosità nel lettore ed eliminare i contenuti. Ora, questo sarebbe tollerabile qualora i giornali, le tv, i siti fossero una tra le tante altre fonti di sviluppo della cultura nel nostro paese. Cioè a dire se le scuole fossero realmente formative, se le università funzionassero, se i libri di saggistica avessero un minimo di mercato piuttosto che rimanere accatastati sugli scaffali delle sempre più commerciali librerie del paese. Purtroppo, invece, in Italia, non solo l’informazione sull’attualità ma anche la formazione culturale della maggioranza della popolazione è in mano a questi personaggi, ai giornalisti, a questa stampa, a questa tv. Salvo rarissimi e sporadici casi, peraltro letti da una minoranza nella minoranza. Per rendere l’idea del decadimento culturale e civile del nostro paese, senza stare a scomodare scuola, università o ricerca, basti riportare 3 dati: la 75 posizione in classifica dell’Italia tra i paesi al mondo per libertà di stampa e di informazione, la 18 posizione (su 23) per quotidiani venduti tra i paesi europei, e infine il 20 posto (su 27) in Europa per lettura di libri fra i più giovani. Purtroppo chi ha in mano la diffusione culturale oggi ha in mano tutta la cultura e quindi il suo destino. La responsabilità sulla decadenza culturale del nostro paese di questi addetti ai lavori è enorme. La mentalità della maggior parte della popolazione è influenzata dalla mentalità giornalistica, superficiale, anticulturale di poche centinaia di persone, spesso al soldo di questo o di quest’altro politico. Impossibile che quelli che un tempo si chiamavano gli intellettuali, scrittori, docenti, artisti in genere, insomma gli uomini di cultura, non cerchino di adattarsi a tale mentalità. A volte lo fanno in buona fede, altre volte no. In ogni caso non fanno altro che rispondere sempre e comunque ad essa, ad assoggettarsi ad un certo modo giornalistico di esporre i fatti. E così si riscontra sempre più in libri ma anche in riviste un tempo “alte” la preoccupazione di accontentare il lettore, di assecondare il potente, di aderire al superficiale, al banale, con la scusa che i discorsi profondi e argomentati non vengono capiti.
La verità è che, sarebbe inutile negarlo, oggi siamo un po’ tutti giornalisti, nel senso che viviamo e agiamo un po’ sotto il punto di vista della semplificazione e della necessità di correre e di essere al passo con la velocità della vita odierna. E la cultura, per sua essenza anti-giornalistica, è condizionata dai giornali, anzi riesce ad avere spazio e a non essere completamente ghettizzata ed emarginata solo attraverso di essi. Quindi diventa anch’essa giornalistica. Ma se si guarda al fondo delle cose, invece, i fatti di questi ultimi giorni, le mobilitazioni dei precari, degli studenti, delle donne, il voto delle amministrative, la preparazione dei referendum, dimostrano esattamente il contrario. Si può arrivare all’anima e al cuore dei lettori con argomenti difficili, purché spiegati ed esposti in modo diretto, sintetico, eppure senza banalizzare o semplificare. Dunque non rimane che parlare direttamente ai singoli lettori, con i mezzi che ci sono propri, con il passaparola, con le presentazioni, con gli incontri e le tavole-rotonde, con i blog, con facebook, in modo che la cultura torni ad essere non mediata da forme distorte di semplificazione (e spesso di strumentalizzazione), perché solo ad essa, oggi più che mai, sono legate le sorti della società. Perché solo la cultura permette di sovvertire i pronostici, di proporre visioni alternative di vita, perchè è in senso lato azione, civiltà, politica e storia. Anche questo è un modo, e si badi bene, ognuno deve avere il suo, per difendere l’Italia che ci è rimasta.
(Archivio Alinari)