Politica e partecipazione. "Fabbriche" di democrazia partecipativa
Non c’è dubbio che i mutamenti nella società e nelle istituzioni siano oggi così forti da imporre revisioni profonde di strumenti e di contenuti. La classe dirigente del Paese è sempre stata troppo impegnata alla conquista del consenso per poter riuscire ad accogliere i messaggi che provengono dalla base di una società in continuo mutamento. La politica si è fatta dunque più complessa e articolata di quanto non prevedessero i partiti. Esiste una società sommersa, sempre più numerosa e, all’interno di questa, un’ampia e variegata sinistra inquieta. In altri termini, è in atto una crisi di rappresentatività della società nel nostro sistema politico, che è l’altra faccia, ben al di là della gravissima questione morale, che è più sintomo che causa del crescente processo di delegittimazione istituzionale che viviamo in questi ultimi mesi.
Va premesso che questa crisi non solo del sistema dei partiti, ma anche della stessa forma partito, non può e non deve portare ad un indifferenziato rifiuto qualunquistico della funzione dei partiti. Occorre invece una più rigorosa analisi critica della sua involuzione e della degenerazione che si è manifestata in rapporto ai processi di secolarizzazione della società e di trasformazione sociale e culturale verificatisi dal ‘68 in poi. Parallelamente è necessaria una ridefinizione dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza politica. A tale proposito può essere interessante guardare alla diffusione sempre più contagiosa delle Fabbriche di Nichi, che sembrano proporre una prima risposta a questi problemi.
Lo spazio nuovo e proficuo del rapporto tra partiti e società civile è da valorizzare proprio sul versante dell’interazione tra processi dell’innovazione sociale e del sistema politico. L’obiettivo di un soggetto mediatore di questo tipo dovrebbe essere quello di riuscire a coinvolgere nell’elaborazione di una progettualità politica alternativa forze che di fatto sono o intendono restare esterne ed autonome rispetto al raggio di azione dei partiti. Insomma un pezzo di società che interagisce direttamente con i gruppi dirigenti, che diventa partecipe di un progetto politico. È dunque necessario individuare e far crescere nuove forme di rappresentanza rispetto a quei movimenti e soggetti sociali, ecologismo, pacifismo, femminismo, diritti civili e umani, che si manifestano nella società, ma che non riescono ancora a realizzare una positiva dialettica col sistema politico-istituzionale.
In questo ambito rientrano anche tutti quei gruppi e movimenti cattolici, una vera riserva di energie, in piena secolarizzazione e nel tempo della onnipotente impotenza della politica, che si richiamano all’esperienza tradita del Concilio Vaticano II, sottolineando la centralità della legalità, di una cultura di solidarietà e di corresponsabilità, dell’attenzione al lavoro. Sono tutti spezzoni di un discorso alternativo che la politica oggi non sa coinvolgere. Ed è necessario che qualcuno si faccia promotore e interlocutore di queste istanze innovative. Occorre liberare le diversità che la politica non sa prendere in considerazione.
(Archivio personale)
Le “Fabbriche”, dalla Puglia, si sono diffuse in tutta Italia. Sono fatte essenzialmente da giovani, molti dei quali non hanno esperienze partitiche alle spalle. Non sono, come molti pensano, un semplice comitato elettorale, né la cinghia di trasmissione di Sinistra e Libertà, ma spazi in cui circolano idee, richieste, appelli, proteste su problemi diversi, ma riconducibili ad un’aspirazione al rigore morale, alla giustizia, all’innovazione, alla sostenibilità ambientale, alla creatività, ad un progetto di alternativa vera alle connivenze dell’attuale classe dirigente del Paese. A parte il riferimento costante alla figura di Vendola, con tutti i rischi del leaderismo, c’è però un elemento di vitalità e di spontaneità, che, se valorizzato, potrebbe fare di esse un canale per ricevere e non solo per trasmettere politica, uno strumento per imparare a capire la nuova cittadinanza. In molti dei partecipanti della Fabbrica è riscontrabile un implicito dissenso critico all’attuale impostazione dei partiti. Per mutare, tuttavia, bisogna introdurre elementi nuovi, non presenti finora. Questo può accadere solo attraverso una ricognizione attiva e ricettiva in tutti i settori nuovi del mondo del lavoro, ma anche in quelli tradizionali dove emergono comunque nuove percezioni, altre culture e stili di vita.
In breve, le Fabbriche, suscitando partecipazione, promuovendo forme reali di confronto, creando una rete condivisa di informazioni e buone pratiche, rappresentano un modo di fare politica senza divenire schiavi della politica. Il punto è utilizzare nel modo migliore e più virtuoso, anche a livello mediatico e comunicativo, quella posizione di interfaccia di ambienti ed esperienze sociali e culturali per produrre innovazione nelle idee e trasferirle nella dimensione della politica di ogni giorno.
Negli ultimi anni le cose sono molto cambiate per le nuove generazioni: non si tratta di contestare o di voler cambiare il mondo a parole, ma siamo oggi in un fase di formazione di una capacità di governo anche da parte delle forze giovanili. Chi partecipa ai laboratori delle fabbriche rimane stupito dalla eterogeneità e varietà di interessi, storie personali, competenze: il fabbricante è a volte uno studente o un dottorando, altre volte un precario o un normale cittadino incuriosito dal fenomeno della partecipazione diretta nel territorio. Molto spesso è donna. È, in ogni caso, un valore aggiunto, che può portare ad un livello di maggiore elaborazione le richieste della cittadinanza critica e le stesse proposte dei partiti. Ma è anche, seppure spesso inconsapevolmente, un animale politico come gli altri. La sua caratteristica dovrebbe allora essere quella di fare politica senza curarsi delle mediazioni cui è costretto il lavoro quotidiano del partito, di non avere bisogno di mandare segnali alle altre forze politiche. Senza una struttura verticistica, la Fabbrica è un gruppo di volontari che diventa catalizzatore di energie altrimenti disperse.
Una cosa è certa: oggi non siamo più nella stagione della certezza, ma in quella della ricerca. La politica non è più in grado di fornire garanzie ai cittadini, occorre dunque rifondarla. Aggiungo un’avvertenza. Quella giovanile è una risorsa immensa che non va sprecata, né tanto meno strumentalizzata. Sarebbe pericoloso utilizzare queste energie come uno strumento che consente di non affrontare alcune difficoltà che i partiti incontrano nei loro rapporti con determinati ambienti sociali. Al momento, le “Fabbriche” funzionano come fattore di modernizzazione della politica, ma soprattutto sul versante dell’opinione elettorale, della socializzazione politica e dei relativi meccanismi di identificazione ad un leader, ma anche qui in modo insufficiente, e soprattutto casuale, non programmato, anche se vincente. Non funzionano invece, se non indirettamente e per eccezionali coincidenze, come fattore di modernizzazione dei processi decisionali della politica.
La mia tesi è che le “Fabbriche”, e in generale tutti laboratori sociali e culturali, andrebbero valorizzati al massimo come fattori di decisione politica. Acquisire ad una funzione decisionale sedi non burocratiche, darebbe il vantaggio di arricchire di spessore analitico-culturale la scelta politica e di avvicinare all’impegno diretto coloro che ne rimangono volontariamente ai margini. Sottrarrebbe inoltre l’attività dei centri socio-culturali alla tentazione dell’astrattezza inconcludente e del velleitarismo. La riforma moderna della politica infatti non può essere la somma algebrica di esperienze locali, di linguaggi settoriali e specialistici, spesso non comunicanti tra loro. Formalmente i gruppi di questo tipo restano un assemblaggio di individualità, dove la professionalità soggettiva non incide efficacemente sulla società a cui si rivolge. È oggi quantomai necessaria una forma di elaborazione socio-culturale in cui linguaggi ed esperienze si confrontino e si concretizzino in una scelta politica comune, in un progetto di ampio respiro, sia pure senza intaccare la libertà di ciascuno.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 96)
Giornalismo ed editoria anti-culturali
Capita a tutti di sfogliare, anche per sbaglio, un quotidiano. Oppure, per i più giovani, di soffermarsi su una notizia giornalistica diffusa su questo o quell’altro sito. Le notizie di stretta attualità risultano oggi sostanzialmente identiche in tutte le testate. Gli editoriali di approfondimento, quelli che dovrebbero indurre alla riflessione, sono spesso un’accozzaglia di luoghi comuni o di frasi a effetto. Nulla a che fare con l’analisi critica, lo studio dei fatti, i confronti doverosi col passato. Le pagine cosiddette culturali, quelle che un tempo erano chiamate terzepagine, contengono ogni santo giorno recensioni ben pagate dagli autori o dagli editori o gentilmente concesse ad amici e parenti più o meno stretti. Raramente si assiste a stroncature e quando capita solo sulla base di motivazioni
strumentalmente politiche, mai che si entri nel merito dei problemi sviluppati nei saggi.
Quanto ai romanzi dettano legge le mode. Prendete, ad esempio, gli editori più gettonati. La divulgazione della cultura è diventata, per loro, in genere, un’attività commerciale, che ha, molto spesso, gli stessi caratteri viziosi della pubblica amministrazione o della grande azienda. E’, in poche parole, burocratica e non tiene conto in alcun modo del merito. Nessuna voglia, dunque, di scoprire modi suggestivi e originali, ma anche profondi e ricchi di contenuti, sociali e anche, in qualche modo, politici. Nessuna voglia di contribuire a cambiare le cose, a trasformare il reale. Si limitano a fare quello che suppongono venga loro richiesto dal pubblico. E che cosa possono supporre sia loro richiesto da lettori che, in massima parte, immaginano pigri, inconsapevoli, bisognosi di distrazione in una quotidianità iper-veloce, dove si va sempre di corsa? Romanzi d’intrattenimento, sì proprio come un tempo, di svago, passatempi da leggere senza alcun impegno o partecipazione intellettuale, oppure storie che portano all’estremo realismo la cruda e dura realtà di chi soffre, oppure quei generi gialli ormai consolidati. Nient’altro. E’ evidente che si tratta di droghe culturali, palliativi che attenuano solo i sintomi di una malattia gravissima sotto gli occhi di tutti: chi dovrebbe oggi fare cultura, promuove, in sostanza, anti-cultura. Pensate sia un caso, infatti, se il “prodotto” libro, se si eccettuano quelli “pompati” da editori e grande stampa per vendere, mediante i soliti arci-noti premi letterari o la strategia delle recensioni, duri sullo scaffale delle librerie mediamente due mezze giornate?
Certo, dal giornalista non puoi aspettarti la sensibilità verso l’analisi, la critica, l’approfondimento degli eventi, questo è chiaro. Ma ti aspetteresti, quantomeno, la sensibilità verso l’avvenimento, la notizia. Invece non fa altro che rincorrere i desideri del pubblico, le aspettative del lettore. Non c’è da meravigliarsi, così, che in Italia si legga sempre di meno, e sempre a livelli inferiori rispetto agli altri paesi. Mi si dirà che il giornalista agisce nel contingente per il contingente. Sollevarsi a considerazioni in senso universale non fa parte della sua forma mentis. Vero. Ma una cosa è il contingente, un’altra la superficialità, la banalità, se non l’idiozia. L’intelligenza del ricercatore della notizia deve , indubbiamente, essere veloce, rapida, immediata e quindi, volendo, anche superficiale, ma non può finire col presentare falsità purché degne di interesse e curiosità nel lettore ed eliminare i contenuti. Ora, questo sarebbe tollerabile qualora i giornali, le tv, i siti fossero una tra le tante altre fonti di sviluppo della cultura nel nostro paese. Cioè a dire se le scuole fossero realmente formative, se le università funzionassero, se i libri di saggistica avessero un minimo di mercato piuttosto che rimanere accatastati sugli scaffali delle sempre più commerciali librerie del paese. Purtroppo, invece, in Italia, non solo l’informazione sull’attualità ma anche la formazione culturale della maggioranza della popolazione è in mano a questi personaggi, ai giornalisti, a questa stampa, a questa tv. Salvo rarissimi e sporadici casi, peraltro letti da una minoranza nella minoranza. Per rendere l’idea del decadimento culturale e civile del nostro paese, senza stare a scomodare scuola, università o ricerca, basti riportare 3 dati: la 75 posizione in classifica dell’Italia tra i paesi al mondo per libertà di stampa e di informazione, la 18 posizione (su 23) per quotidiani venduti tra i paesi europei, e infine il 20 posto (su 27) in Europa per lettura di libri fra i più giovani. Purtroppo chi ha in mano la diffusione culturale oggi ha in mano tutta la cultura e quindi il suo destino. La responsabilità sulla decadenza culturale del nostro paese di questi addetti ai lavori è enorme. La mentalità della maggior parte della popolazione è influenzata dalla mentalità giornalistica, superficiale, anticulturale di poche centinaia di persone, spesso al soldo di questo o di quest’altro politico. Impossibile che quelli che un tempo si chiamavano gli intellettuali, scrittori, docenti, artisti in genere, insomma gli uomini di cultura, non cerchino di adattarsi a tale mentalità. A volte lo fanno in buona fede, altre volte no. In ogni caso non fanno altro che rispondere sempre e comunque ad essa, ad assoggettarsi ad un certo modo giornalistico di esporre i fatti. E così si riscontra sempre più in libri ma anche in riviste un tempo “alte” la preoccupazione di accontentare il lettore, di assecondare il potente, di aderire al superficiale, al banale, con la scusa che i discorsi profondi e argomentati non vengono capiti.
La verità è che, sarebbe inutile negarlo, oggi siamo un po’ tutti giornalisti, nel senso che viviamo e agiamo un po’ sotto il punto di vista della semplificazione e della necessità di correre e di essere al passo con la velocità della vita odierna. E la cultura, per sua essenza anti-giornalistica, è condizionata dai giornali, anzi riesce ad avere spazio e a non essere completamente ghettizzata ed emarginata solo attraverso di essi. Quindi diventa anch’essa giornalistica. Ma se si guarda al fondo delle cose, invece, i fatti di questi ultimi giorni, le mobilitazioni dei precari, degli studenti, delle donne, il voto delle amministrative, la preparazione dei referendum, dimostrano esattamente il contrario. Si può arrivare all’anima e al cuore dei lettori con argomenti difficili, purché spiegati ed esposti in modo diretto, sintetico, eppure senza banalizzare o semplificare. Dunque non rimane che parlare direttamente ai singoli lettori, con i mezzi che ci sono propri, con il passaparola, con le presentazioni, con gli incontri e le tavole-rotonde, con i blog, con facebook, in modo che la cultura torni ad essere non mediata da forme distorte di semplificazione (e spesso di strumentalizzazione), perché solo ad essa, oggi più che mai, sono legate le sorti della società. Perché solo la cultura permette di sovvertire i pronostici, di proporre visioni alternative di vita, perchè è in senso lato azione, civiltà, politica e storia. Anche questo è un modo, e si badi bene, ognuno deve avere il suo, per difendere l’Italia che ci è rimasta.
(Archivio Alinari)