I figli non sono nostri
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Quando si pensa ai diritti dell'infanzia di solito, vengono in mente i casi estremi, quelli che si esprimono bene nelle immagini dei bambini che muoiono di fame nei paesi sub-sahariani, dei piccoli rifugiati a causa di atroci guerre, dei piccoli profughi palestinesi o dei giovanissimi migranti giunti sulle carrette del mare. Situazioni come queste siamo abituati a vederle spesso in tv o in rete, provenienti da posti più o meno lontani, dove i minori sono vittime, spesso totalmente inconsapevoli, della ignorante ferocia degli adulti.
Di recente, in Honduras, centinaia di bambini, seguiti a pochi passi da agenti armati fino ai denti, hanno marciato per le strade, al grido “Non vogliamo più vedere armi, vogliamo la pace”, chiedendo al regime che si ponesse fine alle ingiustizie sociali e alla militarizzazione delle loro vite. Scene come questa sono già molto più rare. Non gli adulti ma i bambini stessi prendono consapevolezza del ruolo che hanno rispetto allo scenario del mondo futuro e chiedono il rispetto dei propri diritti.
In realtà, oggi, a parte le lamentele per il governo che non governa e per l'acutissima crisi economica, a pochissimi verrebbe in mente di pensare che nel nostro civilissimo paese i diritti dell'infanzia vengono troppo spesso ignorati e, comunque, continuano ad essere fortemente limitati. Pensare che, in tema di diritti civili e umani, l'Italia non stia peggio degli altri paesi europei più importanti, è un banale luogo comune. Una ulteriore prova di ciò è l'arretratezza in cui versiamo nel campo dei diritti dei bambini.
In un libro scritto nel lontano 1974, dal titolo emblematico, “I figli non sono nostri”, il magistrato e presidente del Tribunale per i minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, forniva una documentata requisitoria contro lo stato di abbandono, rifiuto e mis-conoscenza in cui l'allora vigente legislazione e il costume sociale confinavano i bambini, spingendoli, in molti casi, al disadattamento e alla devianza, salvo poi intervenire con sanzioni repressive. Secondo il codice civile italiano, ancora negli anni Settanta, i figli avevano solo il dovere di onorare i genitori; per il resto, essi erano paragonabili più a ombre e fantasmi che a persone in carne ed ossa.
Da allora sono passati ormai quasi quarant'anni, ma se incrociamo i dati estrapolati da alcuni rapporti forniti da Unicef, Save the children, Amnesty International, Caritas-Migrantes, Istat, Cies (Commissione indagine esclusione sociale) e Crc (Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza), scopriamo in modo inequivocabile che l'Italia è un paese incredibilmente in ritardo anche su questo delicato tema.
Secondo quanto è stato sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia (1989) e dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (1996), provvedimenti che hanno portato felicemente a compimento il cammino iniziato con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), i primi fondamentali diritti umani riguardano proprio quelli dei bambini. Il parlamento italiano era andato nella giusta direzione quando, nel 1997, aveva approvato una legge dal titolo Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e l'adolescenza che si poneva il problema non solo in riferimento a situazioni di degrado sociale, ma anche a condizioni di normale esistenza. Si trattava di garantire ai bambini e agli adolescenti, la libertà di scelta e di espressione, il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla sicurezza sociale, al ricongiungimento familiare per minori stranieri, all'affidamento e all'adozione familiare, la lotta all'abuso e allo sfruttamento sessuale e lavorativo, l'accesso ai servizi in ospedale, in particolare per i disabili, la sicurezza contro gli abusi in carcere. Ma da allora in poi, complice il non rifinanziamento del progetto, l'incidenza di quella buona legge nella realtà si è praticamente dissolta.
Il rischio di discriminazione pesa soprattutto riguardo all'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari da parte di bambini in condizione di svantaggio sociale o disagio economico, appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose, stranieri, specialmente se non accompagnati, richiedenti asilo o rifugiati, diversamente abili, nati al di fuori del matrimonio, senza famiglia, reclusi in istituti penali.
Se consideriamo il grado di benessere materiale dei bambini, a fronte della fascia più alta di paesi come Svizzera, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia (con una disuguaglianza inferiore alla media Ocse), l'Italia si colloca nella fascia più bassa, insieme a Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria, Stati Uniti e Slovacchia. Se prendiamo in considerazione la variabile dell'istruzione dei bambini, ben lontano da paesi come Finlandia, Canada, Danimarca e Svezia, il nostro paese si colloca ancora nella fascia più bassa, insieme a Lussemburgo, Repubblica Ceca, Grecia e Stati Uniti. In relazione, infine, al benessere nella salute dei bambini, a differenza di paesi avanzati della prima fascia come Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svizzera, l'Italia si trova sempre nella fascia più bassa insieme a Grecia, Spagna, Stati Uniti e Ungheria.
Sembra incredibile ma ci posizioniamo al ventesimo posto sui 24 paesi Ocse quanto a livello di benessere materiale dei bambini, al ventunesimo sul benessere educativo, e al penultimo posto nel campo della salute. Aggregando gli indici delle tre fasce si ottiene una classifica che vede Danimarca e Finlandia in testa, Italia e Grecia in coda.
I minori in condizione di povertà relativa in Italia sono circa 1 milione e 728 mila, ossia il 23% della popolazione povera; ben il 61% di loro ha meno di 11 anni; il 72% risiede al Sud, dove si concentra il 65% delle famiglie povere; nonostante nel Sud risieda soltanto il 32% del totale.
Come testimoniato da un dossier della Caritas, i minorenni stranieri che vivono in Italia (1 su 5 del totale) raggiungono livelli di istruzione molto bassi: meno del 25% continua gli studi dopo il diploma, contro il 40% degli italiani; hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari di base (1 migrante su 3 non ha il tesserino sanitario); il 90% non è in grado di convertire il permesso di soggiorno, al raggiungimento della maggiore età. La conseguenza è l'allontanamento, oppure il passaggio alla invisibilità sociale. Le recenti politiche sull'immigrazione hanno alimentato sempre più condizioni di precarietà esistenziale e culturale nelle famiglie straniere e si sono rivelate dannose per la maturazione psicologica e lo sviluppo sociale dei figli dei migranti, cioè dei giovani italiani di domani. Emerge, più in generale, una grave carenza sul principio di partecipazione dei bambini, richiamato nell'art.12 della Convenzione del 1989: la scuola non riesce a svolgere alcun ruolo significativo nello sviluppo dei processi partecipativi dei minori, e non tiene affatto in considerazione le opinioni, le indicazioni, le aspettative degli alunni.
In questo contesto così sconfortante, le uniche forme di “interesse” da parte della società (non solo italiana) nei confronti del comportamento dei bambini, sembrano indirizzasi su strade completamente sbagliate. Nel 2010 un gruppo di ricercatori dell'università della California ha pubblicato sul “Journal of Nutrition Education and Behavior” una indagine dal titolo Characteristics of Food Industry Web Sites and “Advergames” Targeting Children. La ricerca è stata condotta su circa trecento pagine web di aziende e catene di ristorazione, allo scopo di esaminare le strategie da esse adottate per prolungare il tempo di permanenza dei bambini sui loro siti. La tendenza riscontrata è stata l'uso di videogiochi on-line assolutamente diseducativi, che catturano l'interesse dei bambini, irretendoli dentro forme di pubblicità invasiva. La tecnica pubblicitaria si chiama advergames e fa uso di software on line, spesso costruiti con tecnologia flash, con grafiche coloratissime e famosi personaggi di fumetti e film di animazione. In mezzo al gioco, all'improvviso e in maniera prolungata, compaiono spot pubblicitari che riguardano cibi altamente calorici, come caramelle e cioccolato. Questi meccanismi sono usati, con tutta evidenza, per tenere i bambini incollati allo schermo del pc, affinché interiorizzino messaggi pubblicitari ingannevoli.
E' evidente, dunque, che non siamo poi così lontani dal quadro di arretratezza e di ingiustizia che lamentava Meucci quarant'anni fa: ancora oggi i bambini (poveri e stranieri) in Italia sono considerati alla stregua di meri strumenti senza diritti, tutt'al più, oggetti di consumo.
Fonte: Linkiesta
Testamento biologico: è l'ora di aggiornarci agli altri paesi
(Fonte Internet)
Dopo una pausa di circa due anni, ritorna al voto in parlamento, proprio in questi giorni, nel silenzio più assoluto di tv e stampa, il dibattito sul cosiddetto testamento biologico.
L'argomento è delicato e il dibattito, nonostante non si sia mai trovata alcuna sintesi legislativa, affonda le sue radici, almeno in Italia, addirittura nei lontani anni settanta. Le cosiddette “tecnologie della sopravvivenza” hanno posto, in modo sempre più urgente, gravi interrogativi sui limiti dell'accanimento terapeutico, cioè di quell'insieme di iniziative clinico-assistenziali, di carattere piuttosto eccezionale, che vengono attuate intorno a un malato terminale, cioè in condizioni gravissime o già piuttosto prossimo alla morte, e perfino sull'eutanasia.
La prima forma di eutanasia era stata chiesta nel 1969 dall'inglese Lord Raglan alla Camera dei Lords con il Voluntary Euthanasia Bill il cui scopo era quello di autorizzare i medici a dare l'eutanasia ai pazienti che l'avessero richiesta, ma era poi stata respinta. Dalla cosiddetta eutanasia “attiva”, cioè attuata, generalmente mediante aiuto del sanitario, con il ricorso a sostanze narcotiche o tossiche, somministrate in dosi mortali, a quella “passiva”, trattandosi di omissione di soccorso, con la sospensione delle terapie ordinarie e ancora perfettamente utili a un miglioramento di condizioni, o almeno a bloccare il processo patologico del male.
Aiutare a morire “bene” e senza sofferenza è un compito del medico? Turbare l'ordine biologico significa manipolare la vita e la morte umane? Quali sono le definizioni di vita e di morte nella biologia e nella medicina contemporanee e quali i problemi scientifici, etici e normativi dell'accertamento di morte? Certo, senza codificare nulla, casi più o meno diffusi di eutanasia si sono sempre praticati negli ospedali, affidando tutto solo al senso di pietà del personale coinvolto. Ma, mentre la scienza medica è andata molto avanti nella terapia anti-dolore, la scienza sociale non ha ancora saputo affrontare seriamente il problema di come attrezzarsi rispetto allo stato irreparabile del singolo. Per non parlare poi della politica.
Da quando il solito deputato socialista Fortuna, nel dicembre 1984, aveva proposto le Nome sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell'eutanasia passiva, fondate sul principio del rifiuto del malato, richiesto esplicitamente, ad essere sottoposto ad accanimento terapeutico, il dibattito, che ha avuto toni finanche più accesi dei tempi dell'aborto, non si è mai fermato. Per il fronte laico non è lo stato ma il singolo individuo (o eventualmente i suoi familiari) che può decidere sulla sua eventuale morte.
Il dibattito che si è sempre contraddistinto per alto tasso di dottrina giurisprudenziale ha apparentemente spaccato in due l'opinione pubblica ed ha avuto una accelerazione dopo le vicende di Welby, Coscioni ed Englaro. Con delle sfumature: possibilisti Pd, una parte del Terzo Polo, contrari Pdl, destre, Lega, Udc, favorevoli radicali, socialisti, liberali, Idv, Sel e Fds.
Per la Chiesa (salvo qualche teologo più progressista) tutte le iniziative proposte, che vanno dalla soppressione silenziosa prima che il malato si accorga di morire, alle più ingegnose metodiche di trattamento clinico per prolungare, anche solo di poco, la vita che sta spegnendosi in modo naturale, sono da considerarsi alla stregua dell'omicidio doloso, senza consenso della vittima.
Nel nostro paese, stando all'ordinamento, l'eutanasia attiva viene assimilata all'omicidio volontario. In caso di consenso del malato è prevista la reclusione con pena dai 6 a 15 anni. Anche il suicidio assistito è considerato reato. Negli altri paesi, l'eutanasia passiva e il testamento biologico sono permessi, con modalità diverse, in Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera, Lussemburgo, Australia, Canada, Cina, Stati Uniti, mentre il Inghilterra e Germania il suicidio assistito non è considerato reato.
Se però andiamo oltre le posizioni (strumentali e ideologiche) presentate dai fronti contrapposti, ci accorgiamo che accade la stessa dinamica verificatasi nel caso di vicende fondamentali nel processo di secolarizzazione della società italiana, come divorzio e aborto. Secondo i più recenti sondaggi gli italiani non sarebbero poi così divisi: sono favorevoli per il 75% all'eutanasia passiva e al testamento biologico e più del 90% sostiene che sia necessario superare l'attuale normativa vigente, assolutamente anacronistica.
Alla Camera, in questi giorni, la maggioranza, con l'appoggio esterno dell'Udc, incurante dei pareri di autorevoli giuristi, sta andando in direzione opposta. Nega infatti il diritto di rifiutare trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico, e dà il potere decisionale più al medico che non al paziente.
Ora, su un argomento così delicato è evidente che sarebbe bene evitare i frontismi e le contrapposizioni troppo aspre. Ma, pur lasciando comunque libertà di scelta alle singole coscienze, ogni forza politica degna di questo nome dovrebbe esprimere una sua posizione ufficiale, chiara, senza ambiguità, e contribuire al dibattito per il superamento e non certo per l'arretramento della legislazione vigente, adeguandola e aggiornandola agli altri paesi europei più avanzati.
Fonte: “Linkiesta”