mar 2012

Trent'anni fa, quando Comiso era la Val di Susa

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Fonte: Linkiesta

A Comiso erano arrivati, percorrendo una vecchia strada provinciale proveniente da Catania, nei modi più svariati: in macchina, in moto col sacco a pelo, sui pullman, perfino con l’autostop, sui camion degli autotrasportatori di primizie. Era estate, l’8 agosto 1983. Volevano opporsi all’installazione dei Cruise, impedire agli automezzi militari di portare i missili nucleari e alle impastatrici degli operai di entrare nell’area sorvegliata. La ragion di Stato, fino a quel momento, aveva vinto e il programma del governo, in accordo con gli Usa, era andato avanti.
Gente di tutte le et
à si era data appuntamento e si apprestava ad esprimere una protesta pacifica. Erano gruppi di pacifisti, giunti da ogni parte d’Italia, e anche d’Europa, per fare blocco davanti al cancello dell’aeroporto del Magliocco. Erano giovani e meno giovani: nuovi obiettori di coscienza, pacifisti storici, antifascisti che avevano fatto la Resistenza, ex sessantottini, autonomisti, antagonisti. C’erano pure molti bambini che osservavano con curiosità i poliziotti schierati a muro davanti al cancello e i pacifisti che si erano accovacciati a semicerchio per terra in duplice fila.
C’era il movimento delle donne: giovanissime, che portavano giacche indiane e la kefiah sopra le spalle, erano state loro a bloccare i camion, semplicemente infilandocisi sotto, fra ruota e ruota. E cos
ì i Cruise avevano dovuto aspettare, ancora. Alcune di loro avevano usato un modo davvero singolare e stravagante: erano arrivate al cancello della base militare con enormi gomitoli di lana ed avevano cominciato a fare il girotondo fra i poliziotti esterrefatti, svolgendo il filo finché cancello, poliziotti e ragazze non avevano finito per essere tutti avvolti in una “ragnatela” colorata, chiamata pace. Sul muro sovrastato dal filo spinato, dietro una lunghissima fila di eucalipti, quel giorno i pacifisti avevano appeso un enorme striscione di tela con la scritta: «Vogliamo vivere, vogliamo amare, diciamo no alla guerra nucleare!».
Si era giunti a quel giorno, dopo lunghe polemiche, dure contrapposizioni, infiniti discorsi. La Dc, il Psi di Craxi e i partiti laici minori (in particolare il Pri di Spadolini) si erano schierati compatti a difesa delle decisioni del governo. Il Pci locale, cos
ì come la federazione giovanile, aveva appoggiato senza distinguo la protesta anti-nucleare, ma dalla direzione nazionale era arrivato l’ordine di mantenere la calma e di non sbilanciarsi troppo. La stampa, i media, i palazzi della politica, avevano fatto notare ai cittadini di Comiso che l’arrivo degli americani (centinaia di famiglie che si spostavano per accompagnare i militari) avrebbe ravvivato tutta l’economia della zona. Insieme erano arrivati anche i timori per le speculazioni della criminalità organizzata.
In pochi, nelle istituzioni, presero le difese dei giovani pacifisti. Tra questi, il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che gi
à qualche tempo prima, al Consiglio d’Europa a Strasburgo, si era espresso apertamente in favore di un disarmo totale, lo rimarcò nel consueto messaggio di fine anno del 1983. Berlinguer fece notare al governo che forse non era il caso di insistere vista la vicinanza con l’anniversario della bomba atomica sganciata su Hiroshima.
A dire il vero, in quel caso, la politica non ebbe n
é il tempo né la capacità di gestire la situazione e di anestetizzarla a suo modo. Si verificò, infatti, qualcosa di spontaneo, mai prima accaduto nella movimentata storia siciliana: era partita un’ondata di protesta che aveva presto superato lo stretto di Sicilia, per raggiungere le più importanti piazze d’Italia, valicando anche i confini nazionali. In pochissimo tempo si formarono dei Comitati per Comiso per impedire la realizzazione del progetto della Nato. Migliaia di persone nelle piazze a manifestare. A differenza del passato, il movimento di massa non fu gestito dai partiti, né dai sindacati, ma rimase una spontanea forma di mobilitazione in cui si trovarono uniti gruppi ecologici indipendenti, associazioni di cittadini, comunità religiose, classi scolastiche, contadini, commercianti, semplici cittadini.
Quel giorno, schierati a difesa degli operai che dovevano costruire la base missilistica, c’era una folta schiera di poliziotti e carabinieri, fatti partire di prima mattina dalle caserme della vicina Ragusa e di Catania. Erano giovani anch’essi, e stavano schierati in piedi, nelle loro divise cachi e azzurre, davanti al cancello, a fronteggiare i giovani pacifisti accovacciati per terra. Era una situazione simile a quelle che Pasolini aveva gi
à descritto molti anni prima nei suoi pungenti articoli sul Sessantotto, sui borghesi, studenti e poliziotti.
Mentre la manifestazione si svolgeva assolutamente in modo pacifico, ad un certo punto accadde qualcosa di imponderabile. I giovani lanciavano improperi e accuse ai politici e alcuni agenti, impauriti dall’aggressivit
à verbale, presero l’iniziativa e li caricarono alle spalle. I militari davanti al cancello, anche loro, si avventarono contro gli altri ragazzi, che non ebbero neppure il tempo di alzarsi. Per paura della reazione, gli agenti caricarono, sopra le teste e le braccia dei ragazzi, chiusi là in mezzo. Prima si sentirono urla e lamenti, poi un grande polverone si levò dalla terra. Alcuni riuscirono ad alzarsi e a scappare dai lati verso i campi. Altri agenti, presi alla sprovvista da alcuni giovani che avevano risposto alla carica, iniziarono a sparare i lacrimogeni. Altri ancora inseguirono i ragazzi e le ragazze che scappavano, coinvolgendo negli scontri anche medici e infermieri, preti, giornalisti e fotografi, che avevano cercato, inutilmente, di far tornare la calma. Alla fine della giornata si contarono 18 fermati e circa un centinaio di feriti e contusi, di cui 4 molto gravi.
Subito gli italiani solidarizzarono con il movimento. Il Pci, come accadde in tutte le pi
ù importanti battaglie sui diritti, seguì a ruota la società civile. Poi vennero Chernobyl e il referendum vinto contro il nucleare civile. La vicenda si concluse, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della contrapposizione dei blocchi Usa-Urss, con la smilitarizzazione dell’area dell’aeroporto di Comiso e con la vittoria dei gruppi pacifisti.
In Val di Susa, il 25 febbraio 2012, c’
è stato un corteo variegato e pacifico. La giornata di mobilitazione contro la Tav, cioè la linea dell’Alta Velocità Torino-Lione, ha visto protagonisti diverse realtà sociali provenienti da tutta Italia, dai gruppi locali ai centri sociali, dalle associazioni ambientaliste ai movimenti per l’acqua pubblica, dai collettivi studenteschi alla Fiom, da alcuni partiti di sinistra a semplici cittadini, tantissime donne, vecchi, bambini e stranieri.
Le ragioni della protesta sono, in sintesi, il devastante impatto ambientale, gli alti costi dell’opera, la mancanza di dialogo con le popolazioni locali da parte dei governi e delle forze di maggioranza in parlamento. Cori, slogan e musica caratterizzano il corteo composto da migliaia di persone, con in testa i familiari degli attivisti arrestati in precedenza per alcuni scontri con la polizia. Nei giorni scorsi, com’
è accaduto già in altre occasioni passate, per esempio nel luglio 2011, alcuni gruppi isolati di violenti hanno cominciato a lanciare pietre e petardi e a ingaggiare scontri con le forze dell’ordine, che hanno risposto con cariche ed uso di gas lacrimogeni.
A prima vista, si tratta di due situazioni che potrebbero apparire molto diverse, quella di Comiso e della Val di Susa, eppure non lo sono affatto. La partita che si gioca tra popolazioni locali e ragion di Stato
è la stessa.

Fonte: Linkiesta

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Obiezione e aborto: storie di un paese incivile

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Fonte: Internet

Nell'autunno del 1957 il corpo di una ragazza di diciassette anni veniva adagiato su un tavolo anatomico, nella penombra di una stanza dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Palermo. La giovane, in fin di vita, era stata trasportata dal suo piccolo paese nell'interno siciliano in un disperato tentativo di salvarla, ma era morta lungo la strada provinciale. Intorno al suo corpo, ormai cadavere, i medici cercavano di svelare il segreto di quella morte improvvisa. Unici indizi visibili due grandi cerotti applicati all'altezza dei reni, di quelli usati contro il mal di schiena, e i segni di una serie di ipodermoclisi sugli avambracci, a seguito di un lavaggio del sangue. L'autopsia accertò subito che da tre mesi la giovane era incinta, ma soprattutto che era morta avvelenata, perché nel suo corpo erano state rinvenute tracce di segala, un'erba che nei paesi di campagna veniva usata per interrompere le gravidanze. Solo dopo qualche tempo il caso venne denunciato all'autorità giudiziaria. Le indagini iniziarono a far luce sulla vicenda: la ragazza era fidanzata con un cugino di qualche anno più grande; quando questi capì che la cugina aspettava un bambino, consultò una vecchia "mammana" che, per tremila lire, gli procurò un mazzetto di erbe secche. La giovane, seguendo i consigli del fidanzato, iniziò ad applicare le erbe e a bere l'intruglio, un po' al giorno, ma dopo poco cominciò a star male, a vomitare e ad avvertire atroci dolori al ventre e ai reni. I genitori, ignari di tutto, dopo aver provato una cura casalinga con dei cerotti, si resero conto che il dolore della figlia peggiorava e chiamarono il medico di famiglia. Questi, pensando a una forma di avvelenamento, ma ignorando che la ragazza continuasse a bere il decotto, eseguì il lavaggio del sangue. La decisione del ricovero in ospedale avvenne quando ormai era troppo tardi.

La storia raccontata è solo una delle tante di aborto clandestino procurato degli anni precedenti all'approvazione della legge 194, e delle pochissime rese pubbliche grazie alla prima inchiesta di Milla Pastorino uscita su "Noi donne" nel 1961.
Nel 1978, in ritardo rispetto agli altri paesi europei pi
ù avanzati, giunse la legge. A distanza di più di trent'anni, una relazione del Ministero della Salute sullo stato di attuazione della legge contenente le norme per la tutela sociale della maternità e per l'interruzione volontaria della gravidanza, riconosce una diminuzione del 50% (115 mila casi) rispetto al 1982, anno in cui fu registrato il più alto ricorso all'aborto, con ben 234 mila casi. Qualche giorno dopo l'approvazione di quella discussa legge, gli "indipendenti di sinistra", che avevano contribuito attivamente all'approdo finale, sostennero che il numero troppo elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici si sarebbe potuto trasformare in un "vero e proprio boicottaggio della legge". A loro avviso, andava puntualizzato che non avrebbe potuto fare obiezione di coscienza chi non partecipava direttamente all'aborto e che gli stessi obiettori avrebbero dovuto svolgere tutte le attività che non riguardavano l'intervento abortivo in senso stretto.
Le prime luci del giorno penetrano nella stanza di un ospedale romano dove una giovane donna
è in lacrime nel suo letto. Si trova lì ormai da due giorni per subire un intervento abortivo. Siamo nel Duemila, già inoltrato da un bel po'. La vita che porta in grembo da più di venti settimane è affetta da una gravissima malformazione al cervello, tutti gli specialisti consultati le hanno sconsigliato di portare a termine la gravidanza. La procedura di induzione consiste nell’introduzione nell’utero di alcune "candelette" di prostaglandina per stimolare le contrazioni del travaglio. Fino alla dodicesima settimana l’interruzione di gravidanza avviene tramite raschiamento, ma dopo il feto è troppo grande ed è necessario un vero e proprio travaglio di parto. L'attesa della donna si è protratta tantissimo perché il giorno del ricovero erano di turno solo medici obiettori di coscienza. E tutti si sono rifiutati puntualmente di avviare la procedura. Alla donna non è rimasto che piangere ed attendere che iniziasse il turno di un medico non obiettore.
Questo
è solo uno dei tantissimi casi di donne, documentato da una inchiesta di Cinzia Sciuto pubblicata su "D" di Repubblica, che, nonostante la legge lo stabilisca, hanno dovuto attendere moltissimo tempo prima di poter effettuare l'interruzione di gravidanza.
Quello dell'aborto sta diventando sempre pi
ù, proprio come alcuni avevano previsto nei giorni appena successivi all'approvazione della 194, un vero e proprio percorso ad ostacoli. I dati parlano chiaro: i ginecologi obiettori di coscienza sono passati dal 58% del 1994 al 69% del 2006 fino al 70,7% del 2009; gli anestesisti obiettori sono passati dal 45% del 2003 al 51,7% del 2009; il personale non medico obiettore è passato dal 38% del 1994 al 44,4% del 2009. Va ricordato che percentuali di obiezione superiori all’80% tra i ginecologi si osservano in Basilicata, in Campania, in Molise e in Sicilia. Non esiste, inoltre, un elenco dei medici non obiettori. Secondo una indagine empirica fatta da un'associazione di volontari, risulta che i ginecologi non obiettori strutturati dentro gli ospedali italiani sarebbero circa 150, molti dei quali in età avanzata, che presto andranno in pensione. Di recente, alla luce di questi dati, qualcuno ha ritenuto che l'obiezione di coscienza all'aborto per i medici andrebbe addirittura vietata. E' evidente che oggi, chi decide di fare il ginecologo, sa che l’interruzione di gravidanza è un diritto sancito dalla legge, e che rientra nei suoi obblighi professionali. Gli ospedali non dovrebbero trincerarsi dietro la scusa di non avere medici disponibili a effettuare le interruzioni di gravidanza perché si tratta di un servizio che deve obbligatoriamente essere fornito, come previsto dall’articolo 9 della legge 194. E' anche vero che non si può obbligare chi obietta, per cui andrebbe semplicemente bilanciato meglio, prevedendo procedure specifiche, il rapporto tra medici obiettori e non.
Nella riflessione di un medico che non ha obiettato, Giovanni Fattorini, si coglie la particolarit
à di un paese come il nostro, in cui chi fa coraggiosamente il proprio dovere rischia perfino di essere malvisto: “Siamo stati in pochi, in questi anni, ad occuparcene nel concreto. All'inizio, quasi con titubanza, poco incoraggiati quando non malvisti da entrambe le parti: colpevoli “abortisti” per gli uni, poco difesi, quasi “imbarazzanti” per gli altri. Noi abbiamo continuato a incontrare centinaia di donne, ma anche uomini e bambini, quelli nati e quelli che non sono nati. In molti ci hanno rimesso la carriera, mente altri l'hanno fatta perché schierati “correttamente”. Certificare frettolosamente è facile, ragionare ed entrare in relazione con la singola donna, invece, è molto complicato. Operare nel concreto di ogni situazione, unica ed irripetibile, è difficile. Lo abbiamo fatto senza sentirci eroi, ma medici che hanno a cuore il proprio dovere: quello verso ogni persona e verso la propria comunità civile. Lo abbiamo fatto in condizioni ospedaliere proibitive.”
In un paese civile non si tratterebbe di eroismo ma di normalit
à. Le donne che richiedono l'applicazione della 194 non esercitano un diritto, ma subiscono una necessità, e gli ospedali, i medici, i concittadini, la chiesa e lo stato, dovrebbero trattarle con dignità e rispetto. Questo, almeno, in un paese civile.

Fonte: Cronache laiche

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