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Giornalismo ed editoria anti-culturali

Capita a tutti di sfogliare, anche per sbaglio, un quotidiano. Oppure, per i più giovani, di soffermarsi su una notizia giornalistica diffusa su questo o quell’altro sito. Le notizie di stretta attualità risultano oggi sostanzialmente identiche in tutte le testate. Gli editoriali di approfondimento, quelli che dovrebbero indurre alla riflessione, sono spesso un’accozzaglia di luoghi comuni o di frasi a effetto. Nulla a che fare con l’analisi critica, lo studio dei fatti, i confronti doverosi col passato. Le pagine cosiddette culturali, quelle che un tempo erano chiamate terzepagine, contengono ogni santo giorno recensioni ben pagate dagli autori o dagli editori o gentilmente concesse ad amici e parenti più o meno stretti. Raramente si assiste a stroncature e quando capita solo sulla base di motivazioni
strumentalmente politiche, mai che si entri nel merito dei problemi sviluppati nei saggi.

Quanto ai romanzi dettano legge le mode. Prendete, ad esempio, gli editori pi
ù gettonati. La divulgazione della cultura è diventata, per loro, in genere, un’attività commerciale, che ha, molto spesso, gli stessi caratteri viziosi della pubblica amministrazione o della grande azienda. E’, in poche parole, burocratica e non tiene conto in alcun modo del merito. Nessuna voglia, dunque, di scoprire modi suggestivi e originali, ma anche profondi e ricchi di contenuti, sociali e anche, in qualche modo, politici. Nessuna voglia di contribuire a cambiare le cose, a trasformare il reale. Si limitano a fare quello che suppongono venga loro richiesto dal pubblico. E che cosa possono supporre sia loro richiesto da lettori che, in massima parte, immaginano pigri, inconsapevoli, bisognosi di distrazione in una quotidianità iper-veloce, dove si va sempre di corsa? Romanzi d’intrattenimento, sì proprio come un tempo, di svago, passatempi da leggere senza alcun impegno o partecipazione intellettuale, oppure storie che portano all’estremo realismo la cruda e dura realtà di chi soffre, oppure quei generi gialli ormai consolidati. Nient’altro. E’ evidente che si tratta di droghe culturali, palliativi che attenuano solo i sintomi di una malattia gravissima sotto gli occhi di tutti: chi dovrebbe oggi fare cultura, promuove, in sostanza, anti-cultura. Pensate sia un caso, infatti, se il “prodotto” libro, se si eccettuano quelli “pompati” da editori e grande stampa per vendere, mediante i soliti arci-noti premi letterari o la strategia delle recensioni, duri sullo scaffale delle librerie mediamente due mezze giornate?

Certo, dal giornalista non puoi aspettarti la sensibilit
à verso l’analisi, la critica, l’approfondimento degli eventi, questo è chiaro. Ma ti aspetteresti, quantomeno, la sensibilità verso l’avvenimento, la notizia. Invece non fa altro che rincorrere i desideri del pubblico, le aspettative del lettore. Non c’è da meravigliarsi, così, che in Italia si legga sempre di meno, e sempre a livelli inferiori rispetto agli altri paesi. Mi si dirà che il giornalista agisce nel contingente per il contingente. Sollevarsi a considerazioni in senso universale non fa parte della sua forma mentis. Vero. Ma una cosa è il contingente, un’altra la superficialità, la banalità, se non l’idiozia. L’intelligenza del ricercatore della notizia deve , indubbiamente, essere veloce, rapida, immediata e quindi, volendo, anche superficiale, ma non può finire col presentare falsità purché degne di interesse e curiosità nel lettore ed eliminare i contenuti. Ora, questo sarebbe tollerabile qualora i giornali, le tv, i siti fossero una tra le tante altre fonti di sviluppo della cultura nel nostro paese. Cioè a dire se le scuole fossero realmente formative, se le università funzionassero, se i libri di saggistica avessero un minimo di mercato piuttosto che rimanere accatastati sugli scaffali delle sempre più commerciali librerie del paese. Purtroppo, invece, in Italia, non solo l’informazione sull’attualità ma anche la formazione culturale della maggioranza della popolazione è in mano a questi personaggi, ai giornalisti, a questa stampa, a questa tv. Salvo rarissimi e sporadici casi, peraltro letti da una minoranza nella minoranza. Per rendere l’idea del decadimento culturale e civile del nostro paese, senza stare a scomodare scuola, università o ricerca, basti riportare 3 dati: la 75 posizione in classifica dell’Italia tra i paesi al mondo per libertà di stampa e di informazione, la 18 posizione (su 23) per quotidiani venduti tra i paesi europei, e infine il 20 posto (su 27) in Europa per lettura di libri fra i più giovani. Purtroppo chi ha in mano la diffusione culturale oggi ha in mano tutta la cultura e quindi il suo destino. La responsabilità sulla decadenza culturale del nostro paese di questi addetti ai lavori è enorme. La mentalità della maggior parte della popolazione è influenzata dalla mentalità giornalistica, superficiale, anticulturale di poche centinaia di persone, spesso al soldo di questo o di quest’altro politico. Impossibile che quelli che un tempo si chiamavano gli intellettuali, scrittori, docenti, artisti in genere, insomma gli uomini di cultura, non cerchino di adattarsi a tale mentalità. A volte lo fanno in buona fede, altre volte no. In ogni caso non fanno altro che rispondere sempre e comunque ad essa, ad assoggettarsi ad un certo modo giornalistico di esporre i fatti. E così si riscontra sempre più in libri ma anche in riviste un tempo “alte” la preoccupazione di accontentare il lettore, di assecondare il potente, di aderire al superficiale, al banale, con la scusa che i discorsi profondi e argomentati non vengono capiti.

La verit
à è che, sarebbe inutile negarlo, oggi siamo un po’ tutti giornalisti, nel senso che viviamo e agiamo un po’ sotto il punto di vista della semplificazione e della necessità di correre e di essere al passo con la velocità della vita odierna. E la cultura, per sua essenza anti-giornalistica, è condizionata dai giornali, anzi riesce ad avere spazio e a non essere completamente ghettizzata ed emarginata solo attraverso di essi. Quindi diventa anch’essa giornalistica. Ma se si guarda al fondo delle cose, invece, i fatti di questi ultimi giorni, le mobilitazioni dei precari, degli studenti, delle donne, il voto delle amministrative, la preparazione dei referendum, dimostrano esattamente il contrario. Si può arrivare all’anima e al cuore dei lettori con argomenti difficili, purché spiegati ed esposti in modo diretto, sintetico, eppure senza banalizzare o semplificare. Dunque non rimane che parlare direttamente ai singoli lettori, con i mezzi che ci sono propri, con il passaparola, con le presentazioni, con gli incontri e le tavole-rotonde, con i blog, con facebook, in modo che la cultura torni ad essere non mediata da forme distorte di semplificazione (e spesso di strumentalizzazione), perché solo ad essa, oggi più che mai, sono legate le sorti della società. Perché solo la cultura permette di sovvertire i pronostici, di proporre visioni alternative di vita, perchè è in senso lato azione, civiltà, politica e storia. Anche questo è un modo, e si badi bene, ognuno deve avere il suo, per difendere l’Italia che ci è rimasta.


sartre
(Archivio Alinari)

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Qualche pensiero dalle Oblate

Stamattina ho letto che Asor Rosa sul manifesto sostiene che non c'è più tempo, perché un gruppo di criminali e affaristi ha preso il potere e una maggioranza corrotta e indegna vota qualsiasi cosa. Occorrerebbe, quindi, a suo avviso, un intervento del capo dello Stato che, appoggiato dalle opposizioni e coadiuvato dalle forze dell'ordine, sciolga le camere e sospenda le immunità parlamentari. Parole pesanti, sicuramente estreme, ma che devono far riflettere sulla situazione che stiamo vivendo.
Nel pomeriggio, poi, ho ascoltato Rodot
à che ha chiesto alla magistratura di resistere per tenere in piedi quel poco di stato di diritto che è rimasto e che ha smentito la filastrocca ricorrente che vorrebbe maggiori poteri all'esecutivo per fare finalmente le riforme: ha spiegato, lucidamente, che negli anni settanta le riforme più importanti per la storia di questo paese
le ha fatte tranquillamente il parlamento, altro che esecutivo forte.
Asor Rosa e Rodot
à non sono due estremisti scalmanati. Uno è stato critico letterario, l'altro un giurista. Entrambi hanno fatto diverse esperienze politiche nella sinistra, conoscono la storia del paese, non sono due sprovveduti.
La situazione, a loro avviso, sta indubbiamente precipitando.

Oggi, alla Camera, quantomeno, le opposizioni sono state compatte, il che potrebbe far sperare in un minimo di unit
à di azione. Voglio ricordare che le piaghe, che oggi si sono incancrenite sui processi, in realtà vengono da lontano: dall'approvazione del decreto Berlusconi bis, a cui il Pci non fece un'opposizione adeguata, al rimando continuo del conflitto di interessi, su cui i governi di centro-sinistra dei vari Pds, Ds, Margherita, etc fino al Pd, hanno enormi responsabilità. Questo va detto semplicemente per dovere di cronaca o di storia che sia.
Che fare dunque? Io credo che l'opposizione debba riflettere su quello che sta succedendo in Italia dal 1984 ad oggi. Non certo fermarsi a contemplare il passato, ma volgersi verso il futuro, e non per lanciarsi in un frenetico attivismo di piazza, ma riconoscendo che si
è creata una situazione del tutto nuova, perché si delegittima tutto, la Corte costituzionale, il Csm, il parlamento, la presidenza della Camera, quella della repubblica. E' necessario risolverla con il consenso di una nuova maggioranza. Per esempio, fare un'attenta critica dei propri errori e delle proprie recenti e meno recenti azioni, porterebbe alcune persone a riavvicinarsi alla politica e a questa opposizione. Riconoscere, ad esempio, che il proprio linguaggio politico è ormai inadeguato, è sprofondato per intero nel passato. Non si può sperare neppure nella sola magistratura, né tanto meno nella rivoluzione: gli italiani sono dei rammolliti, non l'hanno mai fatta, figuriamoci se la farebbero oggi.
No, occorre riprendere l'iniziativa a livello locale, riunirsi nelle singole citt
à, mettere alcune regole sull'elezione della nuova classe politica, non solo il divieto di candidatura a seguito di condanne a vario livello, ma anche, a questo punto, il divieto di ricandidatura a chiunque abbia finora svolto incarichi politici ufficiali a tutti i livelli, dai comuni di 2 mila abitanti al parlamento. Mettere un limite di età per candidarsi, tipo 60 anni. Si potrebbe, ad esempio, ricominciare da qui per rinnovare completamente la classe dirigente. Qualcuno dirà che potrebbe anche essere un rimedio inutile. Si, è vero, ma peggio della politica che abbiamo oggi non potrebbe mai essere. E quindi varrebbe comunque la pena di provarci. Sarebbe quanto meno un modo per diminuire il drastico tasso di disoccupazione giovanile di circa mille unità.

Allo stato attuale, non sappiamo cosa diventer
à domani questo paese, quali saranno le dimensioni di questa crisi economica, politica, sociale, culturale e adesso anche dello stato di diritto. Manca solamente che l'esercito prenda il potere e non ci saremmo fatti mancare nulla. Ma in Italia l'esercito conta quanto il due di coppe quando la briscola è a spade e poi sarebbe chiedere troppo vivere un vero golpe come nei film.
Qualunque cosa accada bisogna prendere atto che la societ
à italiana, dagli anni ottanta in poi, è molto cambiata, ha allentato i suoi anticorpi democratici, è stata plasmata e indirizzata verso una deriva populista nazional-popolare mediatica plebiscitaria. Purtroppo questo è un dato di fatto. Lo si è visto a partire dai referendum sulla conferma dell'ergastolo, ai mancati quorum per certe leggi sui diritti civili, fino ad alcune votazioni con i vari simboli ad personam, con la sinistra a rincorrere la destra, lo dimostrano perfino i dati dell'audience di raiuno in prima serata, qualsiasi cosa mettano in programmazione, sempre gli stessi. Occorre semplicemente prendere atto di ciò e provare a ricostruire un tessuto connettivo nuovo, partendo da certi capisaldi: i diritti sanciti nella nostra costituzione, una delle migliori del mondo, gli esempi di certe democrazie straniere, sul versante della politica economica, del welfare, del lavoro, il fermento di vita e di speranza proveniente dal sud del mondo. Non rimane che mettersi dunque all'opera, ognuno nel suo orizzonte.

scendo
(Archivio Alinari)

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