Fabbriche di Nichi: a chi giova il funerale anzitempo?
(Archivio personale)
«Le fabbriche utili per il voto, ma la politica è nei partiti» - Corriere del Mezzogiorno 16/06/2011.
Fratoianni liquida l'esperienza: «Ora vengano in Sel».
Tempo fa avevo scritto sulle "fabbriche" come di un possibile mezzo, nuovo e fresco, di partecipazione giovanile alla politica, come di una speranza. Ora l'esperimento viene chiuso nel peggiore dei modi, dall'alto, con una dichiarazione. Fine dell'ennesima illusione a sinistra. Quantomeno si è usciti dall'ambiguità ed è stata fatta chiarezza.
Si veda, in proposito:
Politica e partecipazione. “Fabbriche” di democrazia partecipativa
La democrazia alla prova
Non si tratta di una biografia. È piuttosto la ricostruzione di una vicenda che intreccia mondo cattolico e mondo laico nel secondo dopoguerra. In mezzo a questi due mondi si colloca Gozzini, ma non solo. Personalità politiche, intellettuali, religiose di rilevanza nazionale sono gli indiscussi protagonisti del volume, che intende ripercorrere le tappe cruciali del dialogo tra i settori più avanzati del mondo cattolico, socialista e comunista, nella storia dell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ci si avvale di una documentazione completamente inedita, di lettere di importanti personaggi del Novecento italiano: da Turoldo, Milani e Mazzolari a Balbo, La Pira, Ossicini, Pistelli e Balducci; da Ingrao e Lombardo Radice a Longo e Berlinguer, fino a Parri, Enriques Agnoletti, Anderlini, Antonicelli e tanti altri. Il periodo cruciale della questione del dialogo si colloca nel quinquennio 1963-1967, in cui avvennero alcuni incontri decisivi tra dirigenti politici comunisti e socialisti, intellettuali cattolici e alte cariche religiose, che alimentarono un vasto movimento di idee che ha ben poco a che vedere con il successivo compromesso storico tra DC e PCI, negli anni della “solidarietà nazionale”. Fu piuttosto un vivo confronto tra personalità indipendenti e laiche, ex azionisti, comunisti, cattolici, socialisti e gruppi spontanei, uniti nella critica all’esperienza politica del centro-sinistra. Un dialogo che fu inizialmente segreto ma che divenne pubblico, maturato, culturalmente, nella
vicenda del “dialogo alla prova” e, concretizzatosi politicamente, anche se solo in parte, nella nascita del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente. Una convergenza nata sulle solide e sperimentate basi dell’antifascismo, accantonata dopo il varo della Costituzione della Repubblica e rilanciata circa venti anni dopo, nel 1967.
Tutto sarebbe rimasto nel chiuso dei circoli culturali, delle parole forbite di alcuni intellettuali, apparse su riviste più o meno note, se non fossero intervenuti due fattori determinanti: l’irrompere delle esperienze della contestazione, del dissenso religioso, dell’“autunno caldo”; e l’intervento del maggiore partito della sinistra italiana, il PCI, o almeno di una parte dei suoi vertici dirigenti. Ciò permise di dare concretezza a una non piccola rivoluzione: portare in Parlamento, per la prima volta, grazie alla spinta propulsiva della Sinistra indipendente, problemi
di grande portata culturale e politica che coinvolsero in prima persona tutta la società civile, e non solo, grazie all’istituto referendario sostenuto dalle sinistre radicali.
Questa democratica rivoluzione nella legalità contribuì a rinsaldare, in un difficile momento storico per la società, negli anni dell’eversione nera e del terrorismo brigatista, il vincolo dell’antifascismo culturale tra cattolici, comunisti, socialisti e indipendenti, che, così come aveva permesso di sconfiggere il regime fascista, sancì la fine della strategia della tensione,
mettendo letteralmente alla prova la democrazia italiana.
Pasolini disse che la Resistenza e il movimento studentesco furono «le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto» (Il Caos, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 41). È una valutazione polemica che si può condividere, a patto di non sottovalutare il significato anticipatore delle idee conciliari nel mondo cattolico, il proseguimento della tensione utopica nel mondo
laico, svolto dal “dialogo alla prova”, e la saldatura del legame antifascista, messa in atto dalla nascita della Sinistra indipendente.
(Archivio di “Red” Giorgetti)
Il volume, oltre a chiarire gli episodi che videro protagoniste le maggiori forze politiche e le componenti della società italiana, intende analizzare anche alcune vicende che fanno solo apparentemente da sfondo a decisioni più direttamente politiche: il mondo delle avanguardie cattoliche e laiche, le riviste e i movimenti d’opinione, alcune singole personalità, meno note, che ebbero invece un ruolo
rilevante in occasione di cruciali momenti della storia d’Italia; dalle elezioni del 18 aprile e l’affermarsi, anche in Italia, della guerra fredda, al XX Congresso del PCUS, che riaccese gli entusiasmi per una “via italiana al socialismo”; dalla crisi del centro-
sinistra e dalla rinascita spirituale del Concilio Vaticano II al Sessantotto e al dissenso religioso.
Attraverso l’ausilio delle lettere, dei manoscritti, degli appunti dei protagonisti, uniti all’esame delle più importanti riviste d’avanguardia cattolica, della pubblicistica comunista e socialista, e dei quotidiani più diffusi, ricostruire una vicenda intellettuale
come quella di Gozzini significa ripercorrere più di una stagione del movimento cattolico fiorentino e nazionale, di un cattolicesimo nascosto, non ancora del dissenso (anzi, che da questo tendeva a differenziarsi proprio nel momento in cui si manifestava), ma già cosciente della profonda crisi in atto nella Chiesa e del rischio che implicava per tutta la società, non solo per i credenti, la perdita di credibilità di un
discorso cristiano strumentalizzato dal potere politico. Un cattolicesimo consapevole anche del rischio di integralismo dovuto a quella visione totalizzante che comportava l’obbligatorietà dell’unità politica di tutti i cattolici. Viene fuori con chiarezza il ruolo
decisivo che ebbero alcuni intellettuali cattolici nella proposta di un rapporto tra società e Chiesa che in parte anticipò e che sicuramente contribuì agli sviluppi conciliari, senza nulla togliere al significato innovatore del papato giovanneo.
Ma significa anche entrare dentro il mondo comunista e socialista, nelle sue diverse sfaccettature, per verificarne le basi di pluralismo, di apertura a un discorso volto al superamento di una visione ideologica, spesso integralista e totalizzante; e, specialmente dopo il 1956, chiarire quali furono le sue correnti più movimentiste, i suoi protagonisti più avvertiti, che, in qualche modo, anticiparono certe dinamiche
avanzate e moderne della odierna sinistra progressista. Appare qui evidente l’inconsistenza della tesi che vorrebbe relegare a un ruolo marginale, al rango di «utili idioti», quel gruppo di intellettuali che diede vita alla Sinistra indipendente, il quale ebbe invece una grande rilevanza non solo in molte vicende interne allo stesso PCI ma, soprattutto,
nel dare inizio a un rapporto più aperto e pluralista tra politica e società civile.
Significa infine affrontare il rapporto tra cultura e politica, tra intellettuali e partiti, in particolare attraverso le vicende di quegli indipendenti, provenienti da varie matrici culturali, giellisti, ex azionisti, liberaldemocratici, social-democratici, accomunati dall’esperienza della Resistenza e dell’antifascismo, che aderirono all’appello di Ferruccio Parri. Questi accettarono, nel 1968, la proposta del Partito comunista
italiano di mettere a disposizione le proprie liste per la creazione di una formazione politica completamente indipendente, che rappresentò il primo e unico esperimento politico in Europa di questo tipo (che ha ben poco a che vedere con l’esperienza dei fronti popolari o della federazione unitaria), e che prese il nome, appunto, di Sinistra indipendente. Anche sotto il profilo della storia dei movimenti politici e delle forze intellettuali, oltre che dal punto di vista della storia sociale, il Sessantotto
si conferma ancora una volta un momento essenziale e decisivo di cesura.
È una storia, complessivamente, non unitaria, di difficile ricostruzione, di cui si devono delineare ancora le tappe, fatta di percorsi individuali. Piccoli gruppi e riviste, interessanti non solo come capitolo dell’organizzazione della cultura italiana e per la
riflessione sui rapporti tra fede, Chiesa e società civile che hanno svolto un utilissimo ruolo di “cerniera” con la politica, pur non essendo direttamente legati ad essa, anticipando e portando a maturazione importanti battaglie civili successive.
Il periodo cronologico della ricerca si chiude agli inizi degli anni Settanta, che coincidono, nella trattazione, con la preparazione della prima vera battaglia parlamentare della Sinistra indipendente, che spaccò in due il paese su un tema di grande portata civile: il divorzio. Anni che rappresentano anche l’inizio della tensione civile, del brigatismo e del compromesso storico, tutti eventi che necessitano di
precise ma diverse chiavi di lettura, per una società completamente mutata.
L’idea del volume è nata dallo sfoglio delle carte Gozzini, depositate presso l’Istituto Gramsci toscano a Firenze: un intellettuale a cui è toccato, fin da vivo, ma anche dopo la morte, il singolare destino di essere molto noto a Firenze ma pressoché sconosciuto
a livello nazionale, il cui nome è rimasto limitatamente legato solo a una legge parlamentare sulla riforma carceraria. Eppure le sue carte comprendono centinaia di lettere di vari interlocutori, quasi tutte le copie di quelle da lui spedite, una grande mole di documenti (manoscritti e dattiloscritti), che hanno rappresentato una vera novità storiografica, ricca di risvolti significativi. La storia si fa beffe, così,
della cronaca, e permette di ristabilire la giusta misura della sua opera, ma soprattutto di lanciare nuove e interessanti prospettive di ricerca su alcune vicende della storia dell’Italia repubblicana, a dimostrazione che certe idee, in apparenza sommerse, rimangono depositate sotto le macerie dell’attualità politica, sempre pronte a tornare vive.
(Introduzione tratta da: “La democrazia alla prova.
Cattolici e laici nell’Italia repubblicana degli anni cinquanta e sessanta” (Carocci, Roma)
Radici storiche della rifondazione comunista
A qualcuno potrà anche sembrare strano ma a parlare per la prima volta di «rifondazione comunista» non fu nè Cossutta, nè Garavini, nè, tanto meno, Bertinotti. E non si era neppure nel famoso 1991, bensì nel lontanissimo 1973. E' la storia che ci viene in soccorso.
«Esistono le condizioni oggettive e le potenzialità soggettive, dentro e fuori le organizzazioni riformiste,
per riproporsi con fiducia l'obiettivo della rifondazione di una forza comunista»
(Il Ponte, 30 giugno 1973, p. 740).
Questa proposta fu avanzata da Luciana Castellina, in un momento molto critico, almeno dal punto di vista elettorale, per i movimenti che dopo la contestazione studentesca, il dissenso religioso e l'autunno operaio, si erano distaccati dal Pci, dando vita prima al Manifesto e poi al Pdup. Se da un lato i risultati elettorali sembravano premiare pragmaticamente, negli anni dal 1972 al 1976, il bipolarismo Dc-Pci, piegando i cosiddetti «opposti estremismi» (almeno se si eccettua il sussulto elettorale del Msi che raggiunse addirittura l'8%, poi però subito ridimensionato), non si può non cogliere tutta la lungimiranza ideale dell'analisi svolta dalla Castellina, in un momento di grave crisi economica internazionale e nazionale, che vedeva, in parallelo, il rilancio della distensione tra Nixon e Breznev, la sbandierata (ma non reale) fine della guerra in Vietnam, la battuta d'arresto della rivoluzione cinese, le difficoltà delle lotte di liberazione nel terzo mondo; e, in ambito italiano, l'acuirsi dell'instabilità politica, della strategia della tensione e le prime avvisaglie delle azioni terroristiche dei brigatisti rossi. La critica della Castellina si incentrava sul mancato radicalismo dell'opposizione svolta dal Pci di Berlinguer ai vari governi democristiani, da Leone ad Andreotti fino a Rumor, che aveva sostanzialmente portato, a suo avviso, alla riorganizzazione intransigente democristiana sotto le bandiere di Fanfani e della battaglia antidivorzista; e poi sulla perenne crisi «attendista» dei socialisti. Si tratta di due elementi che, secondo la Castellina, davanti alle incertezze di un'opposizione così impoverita di contenuti, avrebbero apparecchiato una sostanziale svolta a destra del paese. Per questo motivo, proseguiva, si imponeva l'urgenza di costruire uno schieramento unitario, capace di una «lunga marcia» attraverso la crisi del sistema, di una «nuova opposizione» che doveva comprendere i movimenti che avevano contribuito a porre nuove problematiche, dal Sessantotto in poi, e che si apprestavano a serrare le fila per la battaglia sul divorzio, ma anche «una parte almeno delle forze tuttora interne al quadro riformista». Si trattava di una proposta che andava, almeno nelle intenzioni della Castellina, ben oltre l'unificazione tra il Manifesto e il Pdup, ma che doveva rappresentare la confluenza dei due filoni autentici del movimento operaio italiano, quello marxista ortodosso comunista e quello socialista e libertario, a cui si potevano aggiungere anche quelle forze cattoliche, sostanzialmente antisistema, che si apprestavano a combattere insieme alle forze laiche la battaglia sul divorzio, dopo i primi distacchi da parte delle comunità di base dalle posizioni chiuse e bigotte delle gerarchie ecclesiastiche in materia di autonomia ai laici, di anticoncezionali, di democrazia all'interno della Chiesa, e in contemporanea alla nascita dei Cristiani per il socialismo.
(Archivio Alinari)
Non è casuale, dunque, che ciò accadeva proprio durante la grande crisi dell'Italia repubblicana degli anni Settanta, a cavallo tra le importanti vittorie sui diritti civili, dal divorzio all'aborto, e che la proposta provenisse proprio da una personalità di grande doti intellettuali come la Castellina, che sarebbe stata capace, così come era stata un tempo, di staccarsi dal Pci, anche di ritornarci proprio nel momento apparentemente più difficile, nel 1984, con la morte di Berlinguer (ma anche convinta sostenitrice dell'esperimento dell'apporto originale e «unitario» degli indipendenti di sinistra). Non è un caso, dunque, che quella proposta cadeva in quel cruciale momento storico, in cui si celano le chiavi di lettura più significative per capire molte delle scelte della politica italiana degli anni a venire, e ben prima della fine del comunismo sovietico e della crisi della prima repubblica, con il cambio del nome del Pci in Pds e le successive vicende che diedero vita alla nascita di Rifondazione comunista. Forse la successiva crisi del movimento dei lavoratori negli anni Ottanta, dopo le grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali della società italiana, potrebbe essere imputata proprio alla mancata realizzazione della prospettiva auspicata dalla Castellina, in alternativa a quella che definiva «l’inadeguatezza della strategia del compromesso storico nel garantire un processo di trasformazione dei meccanismi statali e capitalistici». Ogni tanto sarebbe bene dare la parola all'analisi storica per capire il senso e l'ampiezza di prospettive di certe idee che si ripropongono oggi in contesti e in situazioni solo apparentemente diversi.
(Tratto da: “il manifesto”)
Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194
La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceità dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrità e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.
(Archivio Alinari)
La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione più aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.
Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la più autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenità e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era più perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava così il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
La biografia politica di De Gasperi
Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.
- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.
(Archivio Fondazione De Gasperi)
- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilità di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].
- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.
- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).
(Tratto da: “Passato e Presente”, n. 78)
Unità nella diversità
(Archivio Alinari)
“E’ chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di don Milani per chi (…) sia stato istruito nella contrapposizione tra cattolici e comunisti, tra progressisti e reazionari, fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista (…) Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, non una contrapposizione, ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico, non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perchè non ha riferimenti attuali, non interviene nell’ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva”.
Sono parole di Michele Ranchetti, che chiariscono il motivo per cui Mario Gozzini, citando don Milani, in più di un’occasione, non si conformasse semplicemente a quella che era, ormai, specialmente dopo il Sessantotto, una consuetudine diffusa all’interno del mondo cattolico e di quello laico, anche comunista; ma attingesse direttamente dall’intimo significato dei suoi scritti, attraversandoli con la propria azione intellettuale, e lottando proprio contro quelle contrapposizioni cui accennava Ranchetti. L’incontro tra i due, come si è visto, fu breve e non ebbe seguito, ma diede certamente i suoi frutti successivamente. L’ “Unità nella diversità”- come l’aveva chiamata qualcuno, matura i risultati migliori nel lungo periodo.
Prendendo in esame la vicenda del rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, figure così diverse per linguaggio, formazione culturale, interlocutori, pur operanti, almeno fino a un certo momento, nello stesso terreno d’azione del mondo cattolico, non si può prescindere da un chiarimento riguardante la cosiddetta “unità nella diversità”. Anzi, più corretto sarebbe parlare di due facce diverse ma complementari della volontà riformatrice e rinnovatrice di un preciso, seppur esiguo, cattolicesimo italiano. Una faccia più culturale, equilibrata e poi politica, quella di Gozzini; più colloquiale e direttamente sociale, senza mediazioni di sorta, culturali, storiche, civili, alla verità religiosa,
quella di don Milani.
Può essere utile, a tal fine, tornare indietro di qualche anno, e accennare ad uno scambio d’idee tra Elio Vittorini e Carlo Bo. Alla fine del 1945, Vittorini, dalle colonne de “Il Politecnico”, lanciava un appello per una “nuova cultura” che contribuisse alla ricostruzione politica e sociale del paese. Fra i capisaldi di questa “nuova cultura”, Vittorini inseriva di diritto il nome di Cristo. Bo, dalle pagine di “Costume”, lo invitava a “credere nella vita che è Cristo, fuori da ogni modo di cultura e di società”. In risposta, Vittorini lo chiamava a “far valere il più possibile, nel comune lavoro degli uomini cristiani e non cristiani, (…) la sua effettiva importanza storica, la sua importanza, anche potenzialmente sociale, la sua importanza, in una parola, culturale”. Bo aveva dunque risposto alla sollecitazione di Vittorini con una richiesta di conversione, dimostrando di non aver colto il senso del suo appello. Ma qualcuno avrebbe presto raccolto la “sfida” lanciata dal non cattolico Vittorini, e avrebbe provato a dare una risposta non solo teorica, ma sulla propria pelle, dentro la propria stessa vita quotidiana. “Cristo è o non è, anche, cultura?” E’ una domanda che Gozzini e don Milani, per altri versi, affronteranno durante tutta la loro opera. Don Milani guarderà sempre con sospetto alla cultura, agli intellettuali, e proporrà una cultura “altra”, quella della “sua” scuola. Gozzini, e su questo punto si consumerà, come vedremo, il mancato sviluppo del rapporto tra i due, è ben saldo dentro un tipo di azione culturale, forse più tradizionale nei metodi, ma non per questo meno rivoluzionaria nei contenuti. Entrambi credono sicuramente nell’importanza storica di Cristo e quindi nel suo valore culturale. Ma l’intuizione di Vittorini chiamava in causa un altro tema decisivo per i due nostri autori, quando faceva riferimento alla legittima possibilità di introdurre la democrazia nella chiesa:
“Per gli uni (cattolici, n.d.a.) la chiesa è al di sopra della vita. Per gli altri (non cattolici, n.d.a.) è semplicemente fuori dalla vita. Ed entrambi hanno torto allo stesso modo; entrambi non vedono la grande importanza che essa ha nella vita.”
La grande importanza che la chiesa, una chiesa giusta, onesta, democratica, può avere nella vita, nella realtà, per tutti. Don Milani ha insistito spesso su questo punto. Ma è questo un argomento ricorrente nella storia del cattolicesimo italiano: chi lotta all’interno del mondo cattolico, affinchè si cerchi di introdurre nella chiesa un modo più democratico, magari provando ad iniziare un confronto aperto con il mondo dei non credenti, collaborando con loro, finisce per essere attaccato ed accusato o di essere un ex prete, se parte della chiesa, o di essere “passato ai barbari”, se laico. Don Milani sarà accusato, in vita, di essere un prete rosso, di essersi “venduto” ai comunisti (in particolar modo dalla stampa cattolica o di destra), di essere un “alienato”, da parte della stessa chiesa. La stessa accusa di essersi “venduto” toccherà Gozzini nel ’76, dopo il “dialogo alla prova” e l’impegno da “indipendente” accanto al Pci. Il Concilio Vaticano II c’era stato da un pezzo, ed aveva, in parte, dato alcune risposte alle domande di democrazia che si levavano verso la chiesa. Eppure, come si può ben capire, ancora discriminazione e pregiudizio rimanevano intatte costanti di certi reiterati giudizi.
Questa “resistenza” nella diversità è ripresa con la stessa appassionata volontà riformatrice, sia da don Milani, sia, successivamente, da Gozzini. E’ nota la “resistenza” di don Milani prima nella comunità limitrofa di San Donato, poi dall’eremo di Barbiana. Don Milani sfugge ogni irrigidimento in schemi, ogni etichetta. Non è stato un prete dissidente o un sovversivo, non è stato un “cattolico di sinistra”, non è stato l’anti-intellettuale. Per questo è così difficile parlare di lui, accostarlo ad altri personaggi o vicende, ma è da qui, soprattutto, che nasce il fascino entusiasta di parlarne. Obbediente a Dio, alla chiesa, al primato della coscienza; ma di un’obbedienza che si è manifestata agli atei come prova di rigorosa coerenza, come radice indiscutibile di testimonianza, che si è manifestata a molti preti e cattolici come la via per restare fedeli alla chiesa ma non ai privilegi borghesi, agli ordinamenti “fascisti”. La sua è una resistenza “obbediente” ma, come tale, paradossalmente, è rivoluzionaria.
Gozzini invece è ancora tutto da studiare. Anche se non sfugge, perfino ad uno primo sguardo sulla sua opera, il ruolo di coscienza critica interna, di ricettacolo di confronto, dialogo, pluralismo, prima dentro al mondo cattolico, poi dentro a quello comunista.
In effetti, don Milani e Gozzini si posero, tra i tanti temi affrontati, alcuni problemi analoghi: è possibile una forma di “democrazia” dentro la chiesa? Può la speranza di una salvezza ultraterrena, dare il tempo, segnare il ritmo, all’azione, tutta terrena, dell’uomo? E’ vero che la maggiore forza dello spirito cristiano, ben più della relativa e mutevole ideologia, è rappresentata dalla cosiddetta “riserva critica”, ovvero ciò che non permette di fermarsi mai su nessun assetto storico come qualcosa di immutabile e di assoluto? E se sì, su questa base, si può riuscire ad avviare un confronto critico o anche un dialogo tra due mondi, appunto, “diversi”, per cultura, religione, tradizioni, come quello cristiano e quello comunista?
Eppure il rapporto tra questi due uomini, la loro coerente “diversità”, il recupero di certe istanze e peculiarità nel lungo periodo, vanno studiati per cogliere il significato di quella battaglia comune, non solo per una chiesa più democratica ma per un mondo più giusto, portata avanti, anche in nome di quella stessa diversità. Diversità, non solo di idee (e, a volte, ideologie) ma, più in generale, di religioni, di culture, di popoli, e attraverso la quale, forse, si potrà finalmente risolvere la questione dell’incomunicabilità, della guerra, tra i diversi, e gettare le basi per nuove, più solidali e democratiche, città del mondo.
(Estratto da: “Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2)
Il disagio dei cattolici e la miopia della sinistra
(Archivio Alinari)
In questi giorni ricorre il trentennale del referendum del 1981 che sancì la conferma della “194” , la legge che introduceva per la prima volta in Italia, in ritardo rispetto a molti altri paesi europei, la regolamentazione dell'interruzione della gravidanza. Promossa dal deputato socialista Loris Fortuna, dal movimento organizzato delle donne e dai radicali, pur con le varianti limitative introdotte, volute dai comunisti e dai cattolici democratici, la legge era stata votata in Parlamento da Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e Sinistra indipendente, con la contrarietà di Dc (seppure con molte defezioni) ed Msi. Il Parlamento italiano era giunto a quel voto dopo un dibattito lungo ma di alto livello culturale, con un Paese fortemente diviso nelle piazze: non, come si è soliti semplificare, tra abortisti e anti-abortisti, quanto tra sostenitori e oppositori di una legge che voleva limitare al massimo il drammatico fenomeno degli aborti clandestini.
Dopo la promulgazione, la polemica pubblica si indirizzava sul tema dell'obiezione di coscienza all'aborto, prevista dalla legge, ma utilizzata strumentalmente dalle forze intransigenti e, in particolare, dal nascente Movimento per la vita (Mpv), per boicottarne la corretta applicazione. Durante il confronto che precedette il referendum, i fronti contrapposti videro schierate, da un lato, a favore della legge, le forze laiche presenti in Parlamento, dall'altro, le gerarchie ecclesiastiche, la Dc (la cui segreteria, peraltro, decise di non spendersi molto durante la campagna referendaria), alcuni movimenti cattolici come Mpv e Comunione e Liberazione (Cl). Rappresentarono una variante significativa ai fini di spostare il voto di una buona parte dell'elettorato dei credenti a favore della legge, gruppi, riviste, personalità cattoliche che decisero di seguire la propria coscienza e di votare in maniera difforme alle direttive ecclesiastiche e ai richiami di Papa Wojtyla. Oltre alle prese di posizione contrarie al referendum abrogativo manifestate dai Cristiani per il socialismo, dalle Comunità di base, dai candidati cattolici indipendenti, spiccarono, durante il dibattito referendario, le dichiarazioni controcorrente, da un lato, di Pietro Scoppola, che, pur avendo appoggiato in precedenza i gruppi della sinistra cattolica che avevano mediato per l'approdo alla legge, decise di schierarsi a favore; dall'altro, l'intervista rilasciata al Corriere della Sera da Norberto Bobbio che si espresse,
seppure con motivazioni esclusivamente ideali, contro la legge.
A parte le dichiarazioni di principio dei rappresentanti della Dc, dell'Azione cattolica e della Chiesa , ad un'analisi più attenta, emergeva una posizione del mondo cattolico nient'affatto allineata e tanto meno compatta. Se i documenti episcopali emanati in prossimità del referendum presupponevano una società italiana non ancora secolarizzata, in cui il modello soggettivo di fede era confuso con quello proposto come ufficiale dalla chiesa, in una visione completamente superata dai fatti, l'orientamento di movimenti come Acli e Cisl era stato di distacco, per cui si propendeva per un timido “sì” al referendum ma si dava agli aderenti la possibilità di votare secondo coscienza. Lo stesso atteggiamento aveva assunto, in sostanza, la Dc.
Lo scollamento di un mondo cattolico sempre più inquieto di fronte a problematiche morali di così vasta portata dava un esito referendario sorprendente (segnato anche dall'attentato al Papa), che riportava il 32% per il “sì” contro il 68% di voti che riconfermavano la legge. Colpisce la quasi coincidenza tra la percentuale del “sì” e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale, che dal 69% del 1956 era calata al 30% nei primi anni ottanta (nonostante l'ancora altissima percentuale degli italiani battezzati, circa il 97%). La società appariva largamente secolarizzata e notevolmente autonoma rispetto alle indicazioni dei partiti. Va ricordato, inoltre, il dato di altissima partecipazione da parte del mondo cattolico al Centro e al Nord, fortemente mobilitato dalle sinistre laiche e dai cattolici democratici, contrapposto invece alla forte astensione al Sud, nelle zone rurali ad alto tasso di voto democristiano. La Chiesa appariva la grande sconfitta del referendum: cresceva il numero di coloro che, pur dichiarandosi credenti, non ritenevano di essere obbligati a seguire le sue indicazioni su questioni morali che toccavano da vicino la vita di tutti i cittadini.
A distanza di trent'anni dall'esito di quel referendum, risulta ormai un dato di fatto il significato positivo di quella battaglia: l'Italia ha oggi il tasso di abortività più basso del mondo, cioè a dire 8,3 interruzioni di gravidanza ogni mille donne (e diminuisce ancora tra le minorenni al 4,8), mentre, più in generale, gli aborti sono calati del 50%, passando dai 231 mila del 1982 ai 116 mila del 2009 (di cui ben il 33% è dovuto alle immigrate, quindi la percentuale degli aborti tra le donne italiane è ancora inferiore). Appare più interessante, invece, fare un confronto con il mondo cattolico, la chiesa e le forze di sinistra odierne. Dopo la fine della Dc, le gerarchie ecclesiastiche hanno avuto la possibilità di “fare politica” a tutto campo, rivolgendosi non solo al centro, ma anche a destra e a sinistra indistintamente, nel tentativo di condizionare i programmi e incassare provvedimenti legislativi favorevoli alla chiesa. Questo scenario si è rivelato in tutta la sua portata in occasione della enorme astensione del mondo cattolico al referendum del 2005, quello relativo alle modifiche alla legge “40” sulla fecondazione assistita. Nella stessa direzione - nel senso di ingraziarsi la Chiesa - vanno le più recenti prese di posizione del governo di centro-destra, con l'appoggio trasversale dell'Udc, su alcuni temi: l'opposizione all'utilizzo delle cellule staminali nella ricerca scientifica, in opposizione a quanto indicato da tutta la comunità scientifica internazionale; l'indicazione contraria alle direttive anticipate di trattamento sul testamento biologico, che non devono essere vincolanti per il medico, secondo cui l'idratazione e la nutrizione artificiali non possono essere sospese perché considerate forme di sostegno vitale; il “no” fermo a ogni forma di eutanasia; la contrarietà all'utilizzo e alla diffusione della pillola abortiva Ru486. Le ragioni del favore fatto dal governo alla Chiesa non sono solo di principio e di ordine morale ma anche di business.
A differenza del passato, però, su questi punti è venuta a mancare la compatta e coerente opposizione da parte della maggiore forza dell'opposizione e del centro-sinistra, il Pd, rilevatosi incerto e contraddittorio, per il timore di rompere con il mondo cattolico ad esso più vicino. A questo punto si tratta di analizzare meglio questo rapporto, con un mondo cattolico sempre più inquieto, confuso sulle opzioni politiche proposte, propenso all'astensionismo, diviso tra cattolici progressisti e intransigenti, e con le gerarchie ecclesiastiche, decise invece ad appoggiare un governo con sempre meno appeal, pur di incassare i suoi interessi sui temi cosiddetti non negoziabili. Guardare al mondo cattolico nella sua interezza è un errore grossolano. Lo fa oggi il Pd, così come lo faceva il Pci di Togliatti, quando non distingueva tra questione cattolica e questione democristiana. L'episcopato, ormai dalle vicende del referendum sull'aborto, anche se la scomparsa del partito democristiano lascerebbe ipotizzare il contrario, non rappresenta realmente il portavoce politico di tutti i credenti. Occorre distinguere sempre, infatti, tra credenti intransigenti e credenti che decidono di riservare il primato delle scelte su questi temi alla propria coscienza. E proprio su questo punto il Pd e tutta la sinistra dovrebbe impostare un approccio completamente diverso, intanto mettendo da parte la soggezione e il senso di inferiorità dimostrato nei confronti della chiesa, poi cercando di compattare e unificare le visioni di molti cattolici che, su temi come un testamento biologico ispirato all'autodeterminazione, come la regolamentazione delle coppie di fatto etero e omosessuali, come la difesa della “194”, si trovano sostanzialmente d'accordo.
Un po' quello che accadde, come si è visto, nel caso della battaglia referendaria sull'aborto.
Questo mondo cattolico, indispettito dal silenzio nei confronti del governo e dal conformismo verso la maggioranza imposto dalle gerarchie ecclesiastiche, aspetta un interlocutore politico serio. Si tratta di persone credenti impegnate nel quotidiano, presenti nelle parrocchie, nelle associazioni, nelle scuole, che esprimono un bisogno di moralità, di onestà, di serietà istituzionale, allo stesso modo di tanti altri non credenti. Tutto ciò poco ha a che vedere con la prospettiva di alleanza strategica con il terzo polo, fatta sulla testa degli elettori e della stessa base dei partiti di sinistra. L'esempio della mobilitazione durante il referendum sull'aborto, se letto correttamente, fornisce spunti interessanti per sciogliere il nodo di questo travagliato
e quanto mai decisivo rapporto tra mondo cattolico e forze di sinistra in Italia oggi.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 45)
(Archivio Alinari)
Qualche pensiero dalle Oblate
Stamattina ho letto che Asor Rosa sul manifesto sostiene che non c'è più tempo, perché un gruppo di criminali e affaristi ha preso il potere e una maggioranza corrotta e indegna vota qualsiasi cosa. Occorrerebbe, quindi, a suo avviso, un intervento del capo dello Stato che, appoggiato dalle opposizioni e coadiuvato dalle forze dell'ordine, sciolga le camere e sospenda le immunità parlamentari. Parole pesanti, sicuramente estreme, ma che devono far riflettere sulla situazione che stiamo vivendo.
Nel pomeriggio, poi, ho ascoltato Rodotà che ha chiesto alla magistratura di resistere per tenere in piedi quel poco di stato di diritto che è rimasto e che ha smentito la filastrocca ricorrente che vorrebbe maggiori poteri all'esecutivo per fare finalmente le riforme: ha spiegato, lucidamente, che negli anni settanta le riforme più importanti per la storia di questo paese
le ha fatte tranquillamente il parlamento, altro che esecutivo forte.
Asor Rosa e Rodotà non sono due estremisti scalmanati. Uno è stato critico letterario, l'altro un giurista. Entrambi hanno fatto diverse esperienze politiche nella sinistra, conoscono la storia del paese, non sono due sprovveduti.
La situazione, a loro avviso, sta indubbiamente precipitando.
Oggi, alla Camera, quantomeno, le opposizioni sono state compatte, il che potrebbe far sperare in un minimo di unità di azione. Voglio ricordare che le piaghe, che oggi si sono incancrenite sui processi, in realtà vengono da lontano: dall'approvazione del decreto Berlusconi bis, a cui il Pci non fece un'opposizione adeguata, al rimando continuo del conflitto di interessi, su cui i governi di centro-sinistra dei vari Pds, Ds, Margherita, etc fino al Pd, hanno enormi responsabilità. Questo va detto semplicemente per dovere di cronaca o di storia che sia.
Che fare dunque? Io credo che l'opposizione debba riflettere su quello che sta succedendo in Italia dal 1984 ad oggi. Non certo fermarsi a contemplare il passato, ma volgersi verso il futuro, e non per lanciarsi in un frenetico attivismo di piazza, ma riconoscendo che si è creata una situazione del tutto nuova, perché si delegittima tutto, la Corte costituzionale, il Csm, il parlamento, la presidenza della Camera, quella della repubblica. E' necessario risolverla con il consenso di una nuova maggioranza. Per esempio, fare un'attenta critica dei propri errori e delle proprie recenti e meno recenti azioni, porterebbe alcune persone a riavvicinarsi alla politica e a questa opposizione. Riconoscere, ad esempio, che il proprio linguaggio politico è ormai inadeguato, è sprofondato per intero nel passato. Non si può sperare neppure nella sola magistratura, né tanto meno nella rivoluzione: gli italiani sono dei rammolliti, non l'hanno mai fatta, figuriamoci se la farebbero oggi.
No, occorre riprendere l'iniziativa a livello locale, riunirsi nelle singole città, mettere alcune regole sull'elezione della nuova classe politica, non solo il divieto di candidatura a seguito di condanne a vario livello, ma anche, a questo punto, il divieto di ricandidatura a chiunque abbia finora svolto incarichi politici ufficiali a tutti i livelli, dai comuni di 2 mila abitanti al parlamento. Mettere un limite di età per candidarsi, tipo 60 anni. Si potrebbe, ad esempio, ricominciare da qui per rinnovare completamente la classe dirigente. Qualcuno dirà che potrebbe anche essere un rimedio inutile. Si, è vero, ma peggio della politica che abbiamo oggi non potrebbe mai essere. E quindi varrebbe comunque la pena di provarci. Sarebbe quanto meno un modo per diminuire il drastico tasso di disoccupazione giovanile di circa mille unità.
Allo stato attuale, non sappiamo cosa diventerà domani questo paese, quali saranno le dimensioni di questa crisi economica, politica, sociale, culturale e adesso anche dello stato di diritto. Manca solamente che l'esercito prenda il potere e non ci saremmo fatti mancare nulla. Ma in Italia l'esercito conta quanto il due di coppe quando la briscola è a spade e poi sarebbe chiedere troppo vivere un vero golpe come nei film.
Qualunque cosa accada bisogna prendere atto che la società italiana, dagli anni ottanta in poi, è molto cambiata, ha allentato i suoi anticorpi democratici, è stata plasmata e indirizzata verso una deriva populista nazional-popolare mediatica plebiscitaria. Purtroppo questo è un dato di fatto. Lo si è visto a partire dai referendum sulla conferma dell'ergastolo, ai mancati quorum per certe leggi sui diritti civili, fino ad alcune votazioni con i vari simboli ad personam, con la sinistra a rincorrere la destra, lo dimostrano perfino i dati dell'audience di raiuno in prima serata, qualsiasi cosa mettano in programmazione, sempre gli stessi. Occorre semplicemente prendere atto di ciò e provare a ricostruire un tessuto connettivo nuovo, partendo da certi capisaldi: i diritti sanciti nella nostra costituzione, una delle migliori del mondo, gli esempi di certe democrazie straniere, sul versante della politica economica, del welfare, del lavoro, il fermento di vita e di speranza proveniente dal sud del mondo. Non rimane che mettersi dunque all'opera, ognuno nel suo orizzonte.
(Archivio Alinari)
A proposito del cambiare opinione politica
(Fonte Internet)
“Il Psi mirava a recuperare il tempo perduto che portò nel 1946-47 tutta la sinistra italiana a essere subalterna al liberismo, perchè la sua cultura riteneva che l'alternativa fosse o sovranità del mercato o pianificazione globale, trascurando le tematiche del Welfare state, della piena occupazione, delle riforme sociale. Uno degli aspetti più paradossali della situazione di quegli anni fu proprio nel fatto che il Psi abbandonò queste tematiche alla sinistra democristiana di Dossetti... Il Psi si deve misurare in prima persona con il nodo della governabilità e con quello conseguente della centralità o meno di non voler dar luogo a una serie di elezioni anticipate fino al collasso delle istituzioni...La governabilità non è un dato tecnico e neutro di pura macchina politica e di potere. La governabilità è fatta di rapporti con le altre forze politiche e con le forze sociali. Il Psi al governo deve misurarsi con il problema di tenere il collegamento con i sindacati. Nel parlamento e nel paese bisogna fare i conti con il Pci. A qualcuno potrà non piacere, ma questa constatazione non è una manifestazione di subalternità, bensì di realismo politico... C'è una centralità socialista che consiste nello spostare a sinistra, su posizioni programmatorie, razionalizzanti, innovative, settori di ceto medio, di borghesia imprenditoriale, portandoli però a una saldatura con una classe operaia matura, capace di graduare le sue politiche rivendicative, in grado con i sindacati di mettersi sul terreno della democrazia industriale, della partecipazione, di una programmazione che sia insieme riforma dello stato, nuova politica industriale, confronto con i vincoli e le compatibilità. E qui sorgono altri problemi. Non c'è riformismo, non c'è laburismo, senza classe operaia...Ma qui emergono i nodi strutturali e politici. Una politica seriamente riformista (basta pensare al fisco, al credito , alle partecipazioni statali), viene inevitabilmente a scontrarsi con il sistema di potere della Dc...Un'ipotesi riformista, per tutte queste ragioni, non può risolversi nell'integralismo socialista, nella riproposizione dell'autosufficienza socialista."
Così scriveva Cicchitto in un articolo dal titolo "Il nuovo corso del Psi: che fare perchè non si cada nel centro-sinistra", pubblicato su Paese Sera il 20 luglio 1980. Mi pare non ci siano da fare commenti. Altro che "responsabili" odierni, viene da pensare qualcosa del tipo "trasformisti di tutte le epoche, unitevi!". Una sola cosa, forse, è il caso di dire: sarebbe bene che gli elettori sapessero a quale livello di piroette programmatiche può arrivare un uomo politico, prima di votarlo.
Fuga dall'Italia
Chiede oggi Crainz al paese, dalle pagine di Repubblica, a proposito dello sciopero della stampa di domani: è possibile continuare in questo modo? La sua risposta è ovviamente "no", e vi argomenta tutta una serie di motivi per cui siamo arrivati oltre il limite di guardia della democrazia, riportando, da fine storico qual è, qualche glorioso esempio di giornalismo del passato che non si piegò al conformismo e che contribuì alla riscossa democratica del paese, svoltasi anche ma non solo nelle piazze (si pensi all'opposizione ferrea in parlamento dei partiti della sinistra laica ma anche delle forze cattoliche democratiche in piena secolarizzazione), per esempio, dopo i danni provocati dal governo di Tambroni del 1960: giornalisti e stampa, partiti antifascisti, forze intellettuali, sindacati, associazioni e gruppi della società civile, tutti uniti. Quello è stato indubbiamente un momento storico difficilissimo, che poteva preludere al peggio, per esempio al "tintinnar di sciabole" del golpe o ad altre soluzioni reazionarie, ma è altrettanto indubbio che quella era tutta un'altra Italia. Era un popolo che seppe reagire, perché, in fondo, si voleva bene, voleva bene al suo paese.
Voler bene all'Italia, oggi, è molto e sempre più difficile per gli italiani. Quando dico oggi non intendo dire negli ultimi decenni o anni, come a volte si dice, individuando nell'annus domini 1994 ovvero nella discesa in campo di Berlusconi con il suo discorso andato in onda a reti unificate, l'esempio di tutti i recenti mali della nazione. Mi riferisco, piuttosto, alle azioni e alla strategia politica di questo ultimo governo in carica (il conto si fa in mesi, dunque). Non si tratta di strategia della tensione ovviamente (di tensione se ne crea eccome nel paese, anche se il precedente storico non è proprio calzante), né tanto meno di strategia dell'attenzione (forse attenzione sì, ma alle classi agiate), ma si potrebbe parlare piuttosto di strategia della distruzione: nel senso di distruggere quasi tutto ciò che di buono il paese aveva fino ad oggi. Non entro nel merito dei provvedimenti che vanno in questa sventurata direzione, lo hanno fatto altri ben più preparati di me nello specifico delle varie leggi (che sarebbero da chiamare non tanto leggi ad personam quanto ad factiones, perché vanno a salvaguardare gli interessi di lobbies e gruppi di potere ben precisi, mentre le masse che hanno votato centro-destra rimangono tuttora a bocca asciutta o quanto meno ad aspettare, illusoriamente, che si vedano i frutti delle tante promesse).
Dico solo che è difficile, per i tanti giovani che vivono qui e che non sono già andati via, voler bene a questo paese. Un paese che non dà più da vivere e da lavorare ai suoi cittadini (il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli drammatici dei primi anni cinquanta, con la differenza però che a quel tempo c'erano state prima il regime fascista e poi la seconda guerra mondiale), che non dà case da acquistare né da affittare a prezzi decenti ai suoi giovani o alle nuove coppie. E' difficile vivere in un paese dove tutto quanto si è sofferto sembra rimanere inutile ed esser tradito (si pensi alle fatiche dei costituenti e dei partiti antifascisti per dar vita ad una costituzione completamente condivisa), la libertà e i diritti per cui si è sempre sperato e ci si è battuti disperdere il loro senso in una politica da troppe parti condotta con ambiguità, intrighi, compromessi di ogni sorta. E vedere che il veleno intossicante che proviene da un certo modo di far politica da anni ormai di moda ha ammorbato anche chi viene da una storia diversa, alta e onesta moralmente, è proprio difficile. E' difficile sentire fiducia in se stessi e per gli altri in un paese dove ben poco va esente dall'egoismo di parte, dall'opportunismo, dal malaffare portato a modello di comportamento per tutti, anzi quasi premiato (si pensi alla nomina dell'ultimo ministro di questo governo, poi costretto alle dimissioni), dove la cronaca è satura di imbrogli, sotterfugi, vizi (non solo sessuali), e dove una smisurata incertezza ostruisce il nostro futuro. Difficile credere nella bontà dell'esistenza quotidiana quando essa, come accade oggi in Italia, non offre quasi più speranze di un miglioramento, non dico solo economico ma quanto meno nei comportamenti, nei rapporti umani. Per questi motivi e per tanti altri che ognuno di voi tutti avrà ben chiari nella sua mente, in molti italiani, oggi, provano un disgusto per il loro paese, un sentimento di ripugnanza e di amara irrisione verso le cose che li circondano, verso le persone che dovrebbero guidarli politicamente, almeno sulla base delle regolari elezioni democratiche, e provano un impulso di levarsele di dosso, di uscire fuori, di andarsene lontani una volta per sempre, per non cadere nella ragnatela di questo meccanismo, di questo sistema di vita e di politica, ma anche per evitare il peggio, di ricadere in reazioni del passato che hanno creato tanto dolore. L'Italia, oggi, è brutto dirlo, per la sua storia, per la sua cultura, senza voler fare la parte dei disfattisti e dei troppo pessimisti, è diventata una specie di macchina in frantumi che non sa più funzionare. E' il caso di lasciarla a se stessa? alle sue macerie? ad un futuro inimmaginabile per le generazioni a venire? Così sentono molti giovani, che pure hanno già lottato affinché certi meccanismi e certe cose cambiassero, o quanto meno non si incancrenissero. Così sentono in tanti italiani, e non solo giovanissimi: al di là delle frontiere, negli Usa come in Inghilterra, in Germania come in Olanda, in Cina come in India, l'estero li attrae, ad esso indirizzano, forse anche sbagliando, ogni loro speranza per l'avvenire. Per tutti loro, o comunque per una gran parte, alla luce degli ultimi due anni di questo governo, e non certo per la solita pregiudiziale anti-berlusconiana che non porta da nessuna parte, ma per fatti e iniziative concrete, non vi sarà stata altra alternativa che andar via. In primis, per i ricercatori, come sottolinea oggi Vaccarino sulla Stampa. A contrastare questo destino, amaro e ingiusto, non rimane che una carta, l'unica possibile, allo stato attuale: che tutta la gente che non avalla questo sistema di governo (non solo gente che ha votato per il centro-sinistra ma anche, ovviamente, gente di centro-destra, per questo sarebbe utile andare a parlare in mezzo a loro, evitando di creare steccati e di parlare sempre e solo ai soliti noti che la pensano come noi), dia mandato a nuove schiere di giovani, uomini e donne, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai avuto condanne penali, ma che hanno invece tante nuove esperienze da proporre, tratte dalla loro vita, dalla loro occupazione e specializzazione, dai loro studi, di formare una nuova opposizione, che si dia un linguaggio politico assolutamente inedito, fatto di azioni concrete, buone pratiche, leggi che stiano al passo con i migliori esempio europei e del mondo, per guidare un nuovo processo democratico, finalmente fondato su valori come il pluralismo, la laicità, l'importanza del ruolo della cultura e dell'istruzione, della ricerca, tenendo conto delle prospettive aperte dal nuovo contesto globale.
Non so se ci vorrebbe un partito completamente nuovo o basterebbe aggiustarne uno vecchio, questo è un problema tecnico o comunque secondario, di sicuro ci vorrebbe una classe dirigente completamente rinnovata e ringiovanita, una suddivisione interna dei compiti e delle mansioni fondata sul valore della competenza e dell'efficienza (non intesa in termini produttivi come un prodotto, ma in termini di qualità culturale in senso lato), e un leader che parli un linguaggio assolutamente diverso da quello espresso in questi ultimi decenni, diciamo dal 1984 in poi, a sinistra come a destra.
Con queste nuove condizioni, cioè a dire con una destra diversa da quella che imperversa oggi, e con una sinistra altrettanto nuova, o almeno con dei leader capaci di esprimere la volontà di due parti del paese opposte, con visioni e idee divergenti, ma civilmente e seriamente disponibili al confronto sulle questioni specifiche, con la condivisione delle regole di base per tutti, solo così molti italiani, soprattutto giovani, potrebbero ritornare indietro dalla loro amara decisione. Se così, invece, non sarà, non rimarrà, per ognuno di noi, che la
fuga dall’Italia.
(Fonte Internet)