Risorgimento. Gli italiani a tavola
Tra le classi popolari delle campagne, nel Risorgimento, l'alimentazione a base di carne era ancora un'eccezione (tanto che in Italia il suo consumo rimaneva tra i più bassi d'Europa). Continuavano ad avere un ruolo essenziale i cereali, la cui produzione passò da 34 milioni di quintali annui nel 1861 a 40 del 1880, come castagne, patate e legumi. I maggiori progressi nel campo dell'igiene alimentare, in quegli anni, furono fatti dalle classi borghesi nelle città. La cattiva alimentazione, che poteva causare malattie come la pellagra (per l'eccessivo consumo di mais), iniziava ad essere denunciata anche dalla stampa e dalla classe politica. Si diffondeva per la prima volta su tutto il territorio il consumo di pasta e di riso (passato da 2 milioni nel 1861 a 5 nel 1880), così come di vino, olio e formaggi. Questo accadeva soprattutto per le classi medio-alte, mentre per operai e contadini l'alimentazione continuava ad essere scarsa e povera di valori nutritivi, troppo legata alle disponibilità di cibo stagionali e territoriali, salvo che per le feste comandate. Nelle tavole delle famiglie povere, rurali e urbane, infatti, non c'era altro che pane di granoturco, minestre in cui erano mescolate polenta, patate e legumi vari.
Durante il Risorgimento il menù tipico di un pranzo borghese era invece: consommé (un brodo concentrato, a base di carne e ossa di manzo fatti bollire per almeno quattro ore), antipasti, pietanze di carne fredda e calda (spesso con contorno di e, fegatini, cervella o con una elaborata salsa), gelati, creme, zabaione, biscotti, dolci di pasticceria, frutta fresca e sciroppata.
Non va dimenticato però che ogni regione aveva le sue varianti culinarie. Nella tavola piemontese di Vittorio Emanuele II non dovevano mancare mai la bagnacauda, la fonduta e vari tipi di cacciagioni. I piatti preferiti da Garibaldi erano lo stoccafisso, il minestrone alla genovese con il pesto e il “ciurasco” (cosiddetto dai tempi vissuti in America), un pezzo di carne magra arrostita sulla brace. Non si possono non ricordare i barocchi cibi serviti nelle tavole siciliane della nobiltà in decadenza, raccontati nelle pagine del romanzo “Il Gattopardo”, comeil “torreggiante timballo di maccheroni”, destinato agli ospiti borghesi del principe di Salina, che sostituiva il tradizionale potage di apertura, anche questo simbolo di una rivoluzione in campo culinario oltre che politico.
Tramontate, con la crisi dell'ancién regime, le lussuose cene conviviali e di salotto del secolo dei lumi, nell’Ottocento la cucina italiana si caratterizzò sempre più in un ambito di tipo familiare e popolare, dove assumeva un ruolo fondamentale la donna, padrona di casa. Fino ad allora i manuali francesi di cucina, che fornivano ricette per le ricche dimore dei nobili, erano stati scritti soltanto da cuochi uomini. Lentamente però, soprattutto nfamiglie borghesi e popolari, si assisteva ad una sorta di “” del personale di cucina (a Bologna, nel 1850, le “cuciniere” erano il 2%, nel 1857 passarono al 10%, e nel 1899 addirittura al 48%).
Una vera svolta per la gastronomia italiana si ebbe con la pubblicazione nel 1891 del celebre ricettario, scritto da Pellegrino Artusi, dal titolo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. L'autore tentava di emancipare la cucina italiana dalla sudditanza di quella francese, valorizzando alcuni piatti tipici regionali più popolari, nella fattispecie quelli tosco-romagnoli, ed auspicando la nascita di una prima gastronomia nazional-popolare. Il motto scelto da Artusi per la copertina del suo capolavoro era emblematico
(“igiene-economia-buon gusto”), a dimostrazione dell'intento pedagogico del volume.
(Estratto da: “L’Italia unita. Il Risorgimento e le sue storie” (Giunti, Firenze)
(Archivio Giunti)
Unità nella diversità
(Archivio Alinari)
“E’ chiaro perché sia così difficile capire gli scritti di don Milani per chi (…) sia stato istruito nella contrapposizione tra cattolici e comunisti, tra progressisti e reazionari, fra chiesa gerarchica e chiesa del dissenso, fra cultura borghese e cultura marxista (…) Per essi, una contrapposizione così semplice e primitiva come quella presente in Milani, non una contrapposizione, ma un nesso in un sistema sicuramente e trionfalmente gerarchico, non è più comprensibile perché non sembra corrispondere ad alcun sistema di appartenenze, perchè non ha riferimenti attuali, non interviene nell’ordine della conflittualità politica, non sembra considerare e accogliere i termini, appunto, della storia individuale e collettiva”.
Sono parole di Michele Ranchetti, che chiariscono il motivo per cui Mario Gozzini, citando don Milani, in più di un’occasione, non si conformasse semplicemente a quella che era, ormai, specialmente dopo il Sessantotto, una consuetudine diffusa all’interno del mondo cattolico e di quello laico, anche comunista; ma attingesse direttamente dall’intimo significato dei suoi scritti, attraversandoli con la propria azione intellettuale, e lottando proprio contro quelle contrapposizioni cui accennava Ranchetti. L’incontro tra i due, come si è visto, fu breve e non ebbe seguito, ma diede certamente i suoi frutti successivamente. L’ “Unità nella diversità”- come l’aveva chiamata qualcuno, matura i risultati migliori nel lungo periodo.
Prendendo in esame la vicenda del rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, figure così diverse per linguaggio, formazione culturale, interlocutori, pur operanti, almeno fino a un certo momento, nello stesso terreno d’azione del mondo cattolico, non si può prescindere da un chiarimento riguardante la cosiddetta “unità nella diversità”. Anzi, più corretto sarebbe parlare di due facce diverse ma complementari della volontà riformatrice e rinnovatrice di un preciso, seppur esiguo, cattolicesimo italiano. Una faccia più culturale, equilibrata e poi politica, quella di Gozzini; più colloquiale e direttamente sociale, senza mediazioni di sorta, culturali, storiche, civili, alla verità religiosa,
quella di don Milani.
Può essere utile, a tal fine, tornare indietro di qualche anno, e accennare ad uno scambio d’idee tra Elio Vittorini e Carlo Bo. Alla fine del 1945, Vittorini, dalle colonne de “Il Politecnico”, lanciava un appello per una “nuova cultura” che contribuisse alla ricostruzione politica e sociale del paese. Fra i capisaldi di questa “nuova cultura”, Vittorini inseriva di diritto il nome di Cristo. Bo, dalle pagine di “Costume”, lo invitava a “credere nella vita che è Cristo, fuori da ogni modo di cultura e di società”. In risposta, Vittorini lo chiamava a “far valere il più possibile, nel comune lavoro degli uomini cristiani e non cristiani, (…) la sua effettiva importanza storica, la sua importanza, anche potenzialmente sociale, la sua importanza, in una parola, culturale”. Bo aveva dunque risposto alla sollecitazione di Vittorini con una richiesta di conversione, dimostrando di non aver colto il senso del suo appello. Ma qualcuno avrebbe presto raccolto la “sfida” lanciata dal non cattolico Vittorini, e avrebbe provato a dare una risposta non solo teorica, ma sulla propria pelle, dentro la propria stessa vita quotidiana. “Cristo è o non è, anche, cultura?” E’ una domanda che Gozzini e don Milani, per altri versi, affronteranno durante tutta la loro opera. Don Milani guarderà sempre con sospetto alla cultura, agli intellettuali, e proporrà una cultura “altra”, quella della “sua” scuola. Gozzini, e su questo punto si consumerà, come vedremo, il mancato sviluppo del rapporto tra i due, è ben saldo dentro un tipo di azione culturale, forse più tradizionale nei metodi, ma non per questo meno rivoluzionaria nei contenuti. Entrambi credono sicuramente nell’importanza storica di Cristo e quindi nel suo valore culturale. Ma l’intuizione di Vittorini chiamava in causa un altro tema decisivo per i due nostri autori, quando faceva riferimento alla legittima possibilità di introdurre la democrazia nella chiesa:
“Per gli uni (cattolici, n.d.a.) la chiesa è al di sopra della vita. Per gli altri (non cattolici, n.d.a.) è semplicemente fuori dalla vita. Ed entrambi hanno torto allo stesso modo; entrambi non vedono la grande importanza che essa ha nella vita.”
La grande importanza che la chiesa, una chiesa giusta, onesta, democratica, può avere nella vita, nella realtà, per tutti. Don Milani ha insistito spesso su questo punto. Ma è questo un argomento ricorrente nella storia del cattolicesimo italiano: chi lotta all’interno del mondo cattolico, affinchè si cerchi di introdurre nella chiesa un modo più democratico, magari provando ad iniziare un confronto aperto con il mondo dei non credenti, collaborando con loro, finisce per essere attaccato ed accusato o di essere un ex prete, se parte della chiesa, o di essere “passato ai barbari”, se laico. Don Milani sarà accusato, in vita, di essere un prete rosso, di essersi “venduto” ai comunisti (in particolar modo dalla stampa cattolica o di destra), di essere un “alienato”, da parte della stessa chiesa. La stessa accusa di essersi “venduto” toccherà Gozzini nel ’76, dopo il “dialogo alla prova” e l’impegno da “indipendente” accanto al Pci. Il Concilio Vaticano II c’era stato da un pezzo, ed aveva, in parte, dato alcune risposte alle domande di democrazia che si levavano verso la chiesa. Eppure, come si può ben capire, ancora discriminazione e pregiudizio rimanevano intatte costanti di certi reiterati giudizi.
Questa “resistenza” nella diversità è ripresa con la stessa appassionata volontà riformatrice, sia da don Milani, sia, successivamente, da Gozzini. E’ nota la “resistenza” di don Milani prima nella comunità limitrofa di San Donato, poi dall’eremo di Barbiana. Don Milani sfugge ogni irrigidimento in schemi, ogni etichetta. Non è stato un prete dissidente o un sovversivo, non è stato un “cattolico di sinistra”, non è stato l’anti-intellettuale. Per questo è così difficile parlare di lui, accostarlo ad altri personaggi o vicende, ma è da qui, soprattutto, che nasce il fascino entusiasta di parlarne. Obbediente a Dio, alla chiesa, al primato della coscienza; ma di un’obbedienza che si è manifestata agli atei come prova di rigorosa coerenza, come radice indiscutibile di testimonianza, che si è manifestata a molti preti e cattolici come la via per restare fedeli alla chiesa ma non ai privilegi borghesi, agli ordinamenti “fascisti”. La sua è una resistenza “obbediente” ma, come tale, paradossalmente, è rivoluzionaria.
Gozzini invece è ancora tutto da studiare. Anche se non sfugge, perfino ad uno primo sguardo sulla sua opera, il ruolo di coscienza critica interna, di ricettacolo di confronto, dialogo, pluralismo, prima dentro al mondo cattolico, poi dentro a quello comunista.
In effetti, don Milani e Gozzini si posero, tra i tanti temi affrontati, alcuni problemi analoghi: è possibile una forma di “democrazia” dentro la chiesa? Può la speranza di una salvezza ultraterrena, dare il tempo, segnare il ritmo, all’azione, tutta terrena, dell’uomo? E’ vero che la maggiore forza dello spirito cristiano, ben più della relativa e mutevole ideologia, è rappresentata dalla cosiddetta “riserva critica”, ovvero ciò che non permette di fermarsi mai su nessun assetto storico come qualcosa di immutabile e di assoluto? E se sì, su questa base, si può riuscire ad avviare un confronto critico o anche un dialogo tra due mondi, appunto, “diversi”, per cultura, religione, tradizioni, come quello cristiano e quello comunista?
Eppure il rapporto tra questi due uomini, la loro coerente “diversità”, il recupero di certe istanze e peculiarità nel lungo periodo, vanno studiati per cogliere il significato di quella battaglia comune, non solo per una chiesa più democratica ma per un mondo più giusto, portata avanti, anche in nome di quella stessa diversità. Diversità, non solo di idee (e, a volte, ideologie) ma, più in generale, di religioni, di culture, di popoli, e attraverso la quale, forse, si potrà finalmente risolvere la questione dell’incomunicabilità, della guerra, tra i diversi, e gettare le basi per nuove, più solidali e democratiche, città del mondo.
(Estratto da: “Rivista di Storia del Cristianesimo”, n. 2)