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Bacheche vuote e crocifissi appesi

crocif
Fonte: archivio privato

Ho letto, di recente, che negli Stati Uniti, per l'esattezza in un campus dell'Università del Wisconsin, un professore ha ricevuto delle minacce da parte della polizia ed è stato censurato dai vertici dell'ateneo, con la motivazione di "cattiva condotta". Pare abbia affisso sulla bacheca del suo ufficio alcuni fogli personali. Cosa c'era scritto? Uno parafrasava il personaggio di un noto telefilm americano con frasi che incitavano alla violenza. L'altro, prendendo spunto dall'immagine di un cartone animato, ipotizzava il famigerato ritorno del fascismo. "Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini e degli animali” - aggiungeva. Questa notizia mi ha indotto a due riflessioni, una semiseria, l'altra un po' meno.
La prima
è che in terra americana, patria della libertà di pensiero e di opinione, censure di questo tipo stridano un po con l'età in cui viviamo. L'uso, molto in voga nei paesi anglosassoni, di attaccare vignette, foto, manifesti, volantini, sulla bacheca del proprio ufficio, potrà anche non piacere a qualcuno, se inteso come utilizzo privato di uno spazio pubblico, ma almeno dà l'idea di una certa vitalità e scambio, seppure scherzoso e ironico, tra docenti e studenti. Ben vengano foto divertenti e post-it con tanto di botta e risposta. Qui da noi purtroppo, negli uffici degli atenei, e da un bel po' ormai, le bacheche risultano completamente vuote. Simboleggiano, meglio di qualsiasi altra cosa, la lenta agonia di un'istituzione, dopo i tagli del governo. Non ci saranno certo violazioni di diritti, ma, con tutto il rispetto, a guardarle mettono davvero tristezza.
La seconda invece concerne, pi
ù in generale, l'utilizzo di immagini o di simboli, religiosi o di altra natura, come emblemi o rappresentazioni ufficiali di intere popolazioni, per esempio quelli appesi alle pareti. Qui il discorso si fa più scivoloso. Prendiamone non uno a caso, ma il più celebre: il crocifisso.
In alcuni paesi europei l'uso del crocifisso in luoghi pubblici, e in particolare nelle aule scolastiche,
è vietato, perché si garantisce così, non solo teoricamente, la parità tra la religione cattolica e gli altri credi religiosi professati dalla popolazione. Negli Stati Uniti i simboli religiosi non sono vietati nei luoghi pubblici quando esposti in modo appropriato e passivo, semplicemente perché i tribunali americani riconoscono il valore non solo di fede ma anche culturale e civile dei simboli religiosi. Nella fattispecie, il crocifisso è visto come simbolo cristiano ma anche del sacrificio militare. Questo ultimo aspetto mi porta ad affrontare, sinteticamente, la questione della presenza del simbolo cristiano del crocifisso nei luoghi pubblici in Italia. Lasciamo da parte la questione se è giusto che un paese laico dia la preferenza ad un simbolo religioso, che pure rappresenta una parte fondamentale della sua storia, piuttosto che ad altri. Proviamo invece a svolgere una riflessione di carattere psicologico e antropologico.
Mi pare che si debba partire dall'asserzione che il significato di un simbolo non sia oggettivo e unilaterale ma debba essere liberamente lasciato all'interpretazione di chi lo guarda.
Faccio un esempio in proposito. Una persona, magari di famiglia musulmana, regala ad un'altra un tessuto indiano coloratissimo, splendidamente ricamato con immagini floreali. Ai suoi occhi appare bellissimo, originale. Alla sua mente ricorda una storia ancestrale di popoli lontani, di usanze misteriose e sconosciute ai più. L'effetto indotto sull'altro, qualora sia, per esempio, di origine ebraica, può essere però devastante e provocare reazioni sdegnate. Ciò accade nel momento in cui in quel mosaico di forme e colori, l'altro vada subito ad individuare una piccola croce uncinata, simbolo solare diffuso in Oriente. La persona ricevente lo interpreterà, piuttosto, come una svastica nazista, con tutti i collegamenti logici del caso.
Questo piccolo esempio serve per dimostrare che qualsiasi simbolo, religioso o meno, essendo aperto a interpretazioni diverse, non potr
à mai rappresentare il pensiero di un'intera nazione. E' evidente che per alcuni cattolici, più o meno praticanti, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, rappresenti il simbolo dell'amore e del sacrificio eminentemente cristiano, ma per altri possa rappresentare, ad esempio, il potere esclusivamente temporale e politico della chiesa. In sintesi: se da un lato, missionari, sacerdoti, gente di buona volontà hanno diffuso pacificamente e con tolleranza, spesso con il crocifisso in pugno, la parola di Cristo tra la gente, dall'altro, a qualcuno quel simbolo potrebbe suggerire alla mente le stragi di islamici durante le Crociate, gli eccidi degli albigesi, i massacri dei valdesi, le torture dell'Inquisizione, lo sterminio dei nativi sudamericani, perpetrate proprio con la croce impressa sugli scudi.
Il simbolo religioso, nella fattispecie il simbolo cristiano per eccellenza,
è carico di valori soggettivi e, come tale, non può rappresentare tutta la cristianità italiana, né tanto meno la cristianità mondiale, ma forse, solo i cattolici. Ad esempio, per gli ebrei, per gli islamici, ma anche per molti cristiani, esso è indice di idolatria. Ecco, per questa semplice motivazione psicologica e antropologica, e non per ragioni politiche, teologiche o di puro principio filosofico, uno stato laico non dovrebbe consentire, né tanto meno imporre che il crocifisso, così come qualsiasi altro simbolo religioso, sia esposto nelle sue sedi pubbliche, e in particolare nelle scuole. Il suo posto è nelle chiese. Questo, peraltro, non significa affatto mettere in discussione i valori umani e sociali insiti nell'insegnamento del Vangelo e nella figura di Cristo. Anzi, va detto che, proprio attraverso una riforma e una revisione dell'impostazione data, ad esempio, all'ora di religione nelle scuole, esso potrebbe acquistare ulteriori motivi e momenti di studio, di analisi comparata rispetto alle altre religioni, in una sorta di nuova ora di storia delle religioni del mondo, come sosteneva, tra gli altri, l'antropologo Alfonso Di Nola. Ciò arricchirebbe fortemente, a mio avviso, il messaggio stesso del cristianesimo. Lo si affronterebbe, infatti, non in modo simbolico, emotivo e dogmatico, cioè a dire attraverso un crocifisso appeso al muro, ma in modo storico, analitico, sociale. Voler diffondere il messaggio cristiano a colpi di crocifisso significa avere una visione gretta, limitata, assolutamente incompatibile con la realtà di oggi, momento in cui occorrerebbe, più che mai, una chiesa capace di aprirsi alle novità delle nuove generazioni.
A questa spiegazione rigorosamente culturale, ne aggiungerei un'altra di carattere storico. Il crocifisso
è previsto da un decreto risalente addirittura all'Unità d'Italia, confermato poi dalla monarchia nel 1908, ma è stato imposto nelle scuole statali solo dal regime fascista nel 1924, anno del delitto Matteotti, e poi passato automaticamente indenne nel Concordato del 1929. Ora, a quell'epoca, il simbolo del crocifisso non era esclusivo nelle pareti delle scuole, ma era affiancato, alla sua destra, dal ritratto del Re d'Italia, e alla sua sinistra, da quello del Duce. Ed aveva un senso proprio in quel preciso contesto. Già prima, ad esempio durante il Risorgimento e per tutto il primo periodo post-unitario, la questione della libertà religiosa era stata affrontata e dibattuta con una serietà ed un rigore morale completamente sconosciuti al regime, tanto che vari governanti e politici, fino a Giolitti, non accettarono mai la pretesa dei cattolici di imporre il crocifisso nei luoghi pubblici. Successivamente, nei decenni repubblicani, la scelta di mantenere quel simbolo religioso come emblema dell'italianità fu dovuta a questioni di semplice opportunità politica, per ingraziarsi le alte sfere ecclesiastiche, prima da parte degli spesso poco religiosi e moralmente corrotti dirigenti democristiani, poi da parte dell'altrettanto corrotto leader socialista. Oggi, nella cosiddetta “seconda repubblica”, seppure in una società ormai completamente secolarizzata, l'atteggiamento di supina sudditanza e riverenza di maggioranza e opposizione nei confronti della Chiesa, continua (si prenda, ad esempio, il recente articolo di Veltroni sul “Foglio” di Ferrara, dal titolo “Io sto col Papa”). Vivaddio, la storia d'Italia, fino a prova contraria, non è stata fatta solo da Mussolini, Andreotti e Craxi, ma anche da Mazzini, Garibaldi e Cavour. E non tutti hanno permesso che il crocifisso fosse assurto a simbolo dell'italianità e presente immancabilmente nei luoghi pubblici, come spesso qualcuno cerca di far credere agli italiani.
Forse in un futuro prossimo, una classe politica completamente rinnovata, attenta, critica, fatta da giovani con una mentalit
à aperta al nuovo contesto globale e multiculturale, ma non per questo contraria pregiudizialmente a certi valori religiosi, e tanto meno digiuna dei principi (l'art. 3, 8 e 19) che definiscono incompatibile la presenza di qualsiasi simbolo religioso in posizione di monopolio con il dettato costituzionale, deciderà di equiparare finalmente il nostro paese, anche su questo argomento apparentemente futile o astratto, ma in realtà carico di significati, agli altri più avanzati paesi europei. Non sarebbe affatto un modo per sminuire il valore della religione cattolica, ma piuttosto per darle uno “scossone”, nel tentativo di renderla più viva e vitale, e non così arroccata su se stessa e separata dalla società in cui viviamo. 

Fonte: Cronache Laiche

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Risorgimento. Gli italiani a tavola

Tra le classi popolari delle campagne, nel Risorgimento, l'alimentazione a base di carne era ancora un'eccezione (tanto che in Italia il suo consumo rimaneva tra i più bassi d'Europa). Continuavano ad avere un ruolo essenziale i cereali, la cui produzione passò da 34 milioni di quintali annui nel 1861 a 40 del 1880, come castagne, patate e legumi. I maggiori progressi nel campo dell'igiene alimentare, in quegli anni, furono fatti dalle classi borghesi nelle città. La cattiva alimentazione, che poteva causare malattie come la pellagra (per l'eccessivo consumo di mais), iniziava ad essere denunciata anche dalla stampa e dalla classe politica. Si diffondeva per la prima volta su tutto il territorio il consumo di pasta e di riso (passato da 2 milioni nel 1861 a 5 nel 1880), così come di vino, olio e formaggi. Questo accadeva soprattutto per le classi medio-alte, mentre per operai e contadini l'alimentazione continuava ad essere scarsa e povera di valori nutritivi, troppo legata alle disponibilità di cibo stagionali e territoriali, salvo che per le feste comandate. Nelle tavole delle famiglie povere, rurali e urbane, infatti, non c'era altro che pane di granoturco, minestre in cui erano mescolate polenta, patate e legumi vari.
Durante il Risorgimento il men
ù tipico di un pranzo borghese era invece: consommé (un brodo concentrato, a base di carne e ossa di manzo fatti bollire per almeno quattro ore), antipasti, pietanze di carne fredda e calda (spesso con contorno di e, fegatini, cervella o con una elaborata salsa), gelati, creme, zabaione, biscotti, dolci di pasticceria, frutta fresca e sciroppata.
Non va dimenticato per
ò che ogni regione aveva le sue varianti culinarie. Nella tavola piemontese di Vittorio Emanuele II non dovevano mancare mai la bagnacauda, la fonduta e vari tipi di cacciagioni. I piatti preferiti da Garibaldi erano lo stoccafisso, il minestrone alla genovese con il pesto e il “ciurasco” (cosiddetto dai tempi vissuti in America), un pezzo di carne magra arrostita sulla brace. Non si possono non ricordare i barocchi cibi serviti nelle tavole siciliane della nobiltà in decadenza, raccontati nelle pagine del romanzo “Il Gattopardo”, comeil “torreggiante timballo di maccheroni”, destinato agli ospiti borghesi del principe di Salina, che sostituiva il tradizionale potage di apertura, anche questo simbolo di una rivoluzione in campo culinario oltre che politico.
Tramontate, con la crisi dell'anci
én regime, le lussuose cene conviviali e di salotto del secolo dei lumi, nell’Ottocento la cucina italiana si caratterizzò sempre più in un ambito di tipo familiare e popolare, dove assumeva un ruolo fondamentale la donna, padrona di casa. Fino ad allora i manuali francesi di cucina, che fornivano ricette per le ricche dimore dei nobili, erano stati scritti soltanto da cuochi uomini. Lentamente però, soprattutto nfamiglie borghesi e popolari, si assisteva ad una sorta di “” del personale di cucina (a Bologna, nel 1850, le “cuciniere” erano il 2%, nel 1857 passarono al 10%, e nel 1899 addirittura al 48%).
Una vera svolta per la gastronomia italiana si ebbe con la pubblicazione nel 1891 del celebre ricettario, scritto da Pellegrino Artusi, dal titolo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. L'autore tentava di emancipare la cucina italiana dalla sudditanza di quella francese, valorizzando alcuni piatti tipici regionali pi
ù popolari, nella fattispecie quelli tosco-romagnoli, ed auspicando la nascita di una prima gastronomia nazional-popolare. Il motto scelto da Artusi per la copertina del suo capolavoro era emblematico
(“igiene-economia-buon gusto”), a dimostrazione dell'intento pedagogico del volume.

(Estratto da: “
L’Italia unita. Il Risorgimento e le sue storie” (Giunti, Firenze)

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