Concordato tra Stato e Chiesa: privilegi di ieri e di oggi
Fonte: Linkiesta
Dei presunti privilegi che la Chiesa godrebbe nei confronti dello Stato si sente spesso parlare. È un po' come una specie di leggenda metropolitana, tramandata di bocca in bocca da molta gente. Soprattutto in questi difficili mesi di crisi economica, in cui il governo chiede sacrifici a tutti, l'argomento dei privilegi ecclesiastici è tornato di moda e infiamma gli animi dei cittadini, non più dei soliti anticlericali, ma anche quelli di osservatori abitualmente ben più pacati.
Cosa siano i Patti Lateranensi è molto probabile che, anche per sentito dire, la maggior parte degli Italiani lo sappia. In cosa consistano realmente, a quali rapporti e relazioni tra Stato e Chiesa diano vita, invece, sono quesiti pressoché sconosciuti ai più, noti solo a qualche vecchio studioso e a pochi, interessati, addetti ai lavori. Per provare a fare un discorso aperto, a tutto tondo, non ideologico, sul Concordato, occorre rifarsi, come quasi sempre accade, alla storia e fornire dati comparativi. Possibilmente, partire dai precedenti, cioè dal considerare quale fosse la situazione che caratterizzava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa nell'Ottocento, prima dell'Unità d'Italia. Proviamo a farlo sinteticamente.
Ancora nell'Ottocento, la Chiesa provvedeva ai propri “bisogni” con un sistema di autofinanziamento, avendo un diritto di decima. Essa fruiva di donazioni, lasciti, ed era ricca al punto da non necessitare di aiuti da parte dello Stato. La sua presenza nella società era enorme: basti pensare anche solo al fatto che i servizi sociali, di assistenza e di istruzione, non erano forniti dai “piccoli” stati italiani ma erano gestiti dalla “grande” Chiesa.
Con l'Unità d'Italia, lo Stato italiano prende in mano tutti questi servizi, ma con essi anche le rendite in base alle quali la Chiesa esercitava quei compiti. Questo meccanismo mise la Chiesa in condizioni di maggiore difficoltà sotto il profilo patrimoniale. Le parti si erano dunque invertite: se prima lo Stato si serviva della Chiesa per supplire alle proprie carenze, da quel momento in poi fu la Chiesa a doversi appoggiare alle strutture pubbliche per poter esercitare, grazie al suo aiuto, alcuni dei suoi precedenti compiti. Ci furono confische, espropri, passaggi di beni e denaro a favore dello Stato.
Si giunse dunque al Concordato, con questo retroterra che non va dimenticato. Mussolini, firmando il famoso accordo nel 1929, davanti al cardinal Gasparri in rappresentanza di Pio XI, garantiva alla Chiesa la libertà e l'indipendenza del suo governo spirituale, stabiliva che lo Stato pagasse una enorme somma di denaro come risarcimento, concedendole una zona del suo territorio, il Vaticano, ammetteva il matrimonio cattolico e l'insegnamento religioso nelle scuole, riconoscendo giuridicamente gli ordini religiosi e concedendo alcuni privilegi ai membri del clero. In particolare, confermava la congrua, cioè che lo Stato si accollasse una parte dello stipendio dei sacerdoti, per giungere, infine, a concedere un vero e proprio stipendio statale a quei preti che svolgessero funzioni pubbliche, come nell'esercito o nelle scuole (ancora oggi, peraltro, sono scelti dalle diocesi ma assunti e retribuiti dalle regioni o dallo Stato).
Dopo la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, tutti i partiti furono sostanzialmente d'accordo nell'evitare di chiedere la denuncia degli accordi lateranensi. Per i leader dei principali partiti bastò inserire in un articolo della Costituzione, il famigerato articolo 7, un riferimento preciso alla continuità sulla questione del Concordato. L'impressione, ormai consolidata dalla storiografia, è che la Dc, poco interessata a questioni culturali e religiose, dovesse, in qualche modo, restituire il favore dell'appoggio fornito dalla Chiesa alle elezioni, mentre i comunisti, per mantenere la pace religiosa nel paese, non avessero alcuna voglia di imboccare la via dell'anticlericalismo. I socialisti affermarono addirittura che anche la più piccola delle riforme agrarie interessasse loro più della revisione del Concordato. All'assemblea costituente, infatti, solo una sparuta minoranza, qualche ex azionista e qualche cristiano-sociale, aveva osato protestare. Nient'altro.
Il problema in sostanza venne accantonato per più di un decennio, fino a quando non fu riproposto dalla rivista il Mondo (quella di Ernesto Rossi, per intenderci) in occasione di un convegno, organizzato nell'aprile 1957. In quell'occasione fu lanciata la prima proposta pubblica di abrogazione del Concordato, suscitando ovviamente forti proteste nel mondo cattolico.
La questione veniva nuovamente messa a tacere, per essere ripresa negli anni Sessanta, dal nascente movimento dei radicali di Pannella. Il vento della secolarizzazione iniziava a spirare e preannunciava le storiche battaglie sui diritti civili. Ne era passata, d'altronde, di acqua sotto i ponti e da “oltre Tevere”, qualcuno “in alto", aveva iniziato a capire che con lo Stato era forse giunto il momento di trattare.
Sondaggi e opinioni a parte, le forze politiche, ancora negli anni Settanta, non erano affatto convinte di volersi impelagare in una sorta di battaglia campale contro la Chiesa e preferivano impegnare il parlamento a costituire una commissione di studio sul problema e il governo a intraprendere contatti diretti con la Santa Sede. Era, con tutta evidenza, un modo per rinviare sine die il problema.
Solo la sinistra socialista (con Basso), i repubblicani (con Spadolini) e gli indipendenti di sinistra (con Parri) continuavano a proporre una revisione a tappeto del Concordato, sottolineando gli aspetti cruciali della questione: le “finte innovazioni”, evidenti ad esempio nella falsa rinuncia della Chiesa alla definizione della religione cattolica come “unica religione di Stato”, elemento, per la verità, decaduto in Italia fin dal 1948; l'accettazione da parte dello Stato dell'autorità della Chiesa sulla attribuzione automatica dei finanziamenti pubblici e anche sulla sua scelta di insegnanti e docenti nelle scuole e università private cattoliche; i privilegi per enti e beni ecclesiastici.
Era quello un copione che più volte, nel corso degli anni, si riproponeva all'attenzione degli Italiani. Grandi questioni di principio, ma poi, nei fatti, nessuna modifica di sostanza.
Il Concordato era infatti uno degli esempi più classici di come la Chiesa, arroccata a difesa delle sue posizioni di privilegio, iniziasse a perdere terreno e consenso tra la gente comune, come avrebbero dimostrato, nei decenni successivi, il calo inesorabile dei fedeli praticanti e delle stesse “vocazioni”. Ed era anche un terreno che, se avesse visto la compattezza e la giusta convinzione da parte del fronte laico, avrebbe potuto riservare spiacevoli sorprese alle gerarchie ecclesiastiche. Ma la vicenda prese, come vedremo, una ben diversa piega.
Il punto era che democristiani e comunisti, cioè a dire la maggioranza dei seggi in parlamento, non erano d'accordo a inimicarsi la Chiesa con forti scelte di laicità che intaccassero non tanto i principi ideali, quanto i suoi stessi interessi economici e finanziari. Per dare un'idea di quali fossero questi interessi, basti riportare qualche breve passo tratto da due “storici” articoli, uno pubblicato su il Mondo (dicembre 1976) e l'altro sul Corriere della Sera (gennaio 1977):
“Solo a Roma è stato calcolato che le proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici ammontano a oltre 80 milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della città. In Italia, secondo un'approssimazione per difetto, superano i 400 mila ettari... Gli enti ecclesiastici godono di un regime fiscale di favore che comprende non solo la proprietà ma anche le attività costruttive e di esercizio. Gli acquisti sono esenti dalle imposte e dalle tasse di registro, successione e di ipoteca, da quelle sull'asse ereditario e di donazione, dalla tassa di riscossione governativa per l'accettazione di liberalità o per atti a titolo oneroso. Le proprietà sono esenti da contributi di miglioria, dalle imposte sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili... La Chiesa cattolica riceve ogni anno dallo Stato una serie di finanziamenti diretti. Somme ragguardevoli sono iscritte nei bilanci dei vari ministeri, soprattutto dell'interno e del tesoro. Il bilancio del ministero dell'interno a favore del culto nel 1976 è stato di 39 miliardi di lire. L'anno prossimo è prevista una cifra pari a 46 miliardi”.
Fu chiesta la costituzione, dagli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, di diverse commissioni di studio di politici, specialisti, studiosi e furono coinvolte delegazioni della Santa Sede, ma ogni volta i punti cruciali rimanevano inalterati. La solita “grande novità” di principio, vecchia ormai di decenni, relativa cioè alla religione cattolica non più religione di Stato. Il solito rinvio sulle questioni più scottanti. In poche parole, la famosa “bozza di revisione” compiva, da anni, una specie di percorso carsico: per la maggior parte del tempo segreta, invisibile, sotterranea, riemergeva improvvisamente di quando in quando, prendeva una boccata d'aria, non sempre in parlamento, ma passata sottobanco alla stampa, da guardarsi di sghimbescio, per poi far perdere nuovamente le proprie tracce. La Chiesa non era intenzionata, in alcun modo, a cedere i suoi privilegi. Inoltre, col passare del tempo, fu sempre più esautorato il ruolo del parlamento sulla questione, limitando la possibilità di critica dei singoli deputati, e demandando tutto agli accordi diretti tra governo e Vaticano.
Questo almeno fino al 1984, quando a Villa Madama il “decisionista” Craxi e monsignor Casaroli in rappresentanza di Giovanni Paolo II, firmavano un accordo di modifica del Concordato lateranense, secondo la stessa prassi usata tra Stato e Chiesa ai tempi di Mussolini, cioè senza alcuna possibilità di intervento da parte del parlamento. Veniva così varato solennemente un nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, votato da tutto l'arco costituzionale (con la sola astensione dei liberali e il voto contrario di radicali, Pdup e Sinistra indipendente).
Più che un evento storico di eccezionale rilevanza, come venne subito dipinto sulla stampa, il nuovo Concordato fu un'occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche da parte del governo. Uno dei tanti compromessi politici della storia d'Italia, probabilmente il più grande, quanto a forze in campo coinvolte e a interessi finanziari, fatto, come tante altre volte, sulla testa del cittadino.
Il nuovo Concordato fondava un regime che non era né quello della separazione tra Stato e Chiesa, né quello dello stato confessionale. Cosa si stabiliva? In teoria, grandi affermazioni di principio: si aboliva l’ormai anacronistico (oltre che anti-costituzionale) riferimento al cattolicesimo come sola religione ufficiale; si assicurava allo Stato una propria autonomia nelle questioni di diritto familiare, l'insegnamento della religione nelle scuole diventava facoltativo e non più obbligatorio; si aboliva la congrua per i sacerdoti.
Nei fatti però, la libertà della Chiesa faceva un indubbio passo avanti, quella dello Stato rimaneva sostanzialmente quale era, mentre le sue finanze, con buona probabilità, diminuivano. Proviamo a spiegare brevemente perché.
Nelle scuole l'insegnamento della religione veniva impartito da insegnanti nominati dall'autorità ecclesiastica, ma pagati dallo Stato. Era introdotta l'ora di religione nelle scuole materne. Si stabiliva che le scuole private cattoliche avessero un trattamento scolastico uguale a quelle statali, senza però precisare i loro obblighi nei confronti dello Stato. Si prevedeva il finanziamento da parte dei cittadini, aprendo la strada al sistema dell'8 per mille del gettito Irpef (con il meccanismo della donazione automatica alla Chiesa cattolica per il cittadino che non avesse espresso alcuna scelta). Era sancito l'obbligo per lo Stato di finanziare le attività, il personale e il funzionamento della Chiesa cattolica, con le sue decina di migliaia di istituti religiosi, parrocchie ed enti di varia natura, che avessero dichiarato di svolgere un “servizio sociale”. Veniva garantita l'esenzione dall'Iva e dall'imposta su terreni e fabbricati e sulle successioni. Erano accollati allo Stato, infine, gli oneri per la costruzione e la manutenzione di edifici di culto, per la tutela del patrimonio artistico gestito da enti e istituzioni ecclesiastiche.
Sul momento tutti parlarono di evento epocale, di accordi che avrebbero giovato sia alla Chiesa che allo Stato e dipinsero Craxi e gli artefici di quel trattato, tra cui anche l'attuale ministro Tremonti, come una sorta di eroi nazionali.
Sono passati 27 anni dal quell'evento storico, abbastanza per valutarne gli effetti concreti.
Nel 2007 l'Unione Europea chiedeva spiegazioni all'Italia sui troppi privilegi della Chiesa in materia fiscale, frutto del nuovo Concordato, sollevando un polverone tra le file cattoliche e religiose. Già durante gli anni precedenti, con i primi governi Berlusconi, e poi in maniera propulsiva negli anni a seguire, sono stati introdotti altri provvedimenti che si potrebbero definire “di favore” nei confronti della Chiesa: l'esenzione dall'Ici (le prime esenzioni furono peraltro inaugurate nel 1992 dal governo Amato), per una somma compresa fra i 400 e i 600 milioni di euro; quella dall'Ires (portata al 50% per gli enti assistenziali), con un risparmio annuo di circa 900 milioni; i finanziamenti alle università private e all'editoria cattoliche; le convenzioni privilegiate con istituti ed enti nel settore della sanità. E altro ancora.
Probabilmente le indicazioni dell'Ue avrebbero dovuto essere tenute in conto anche da altri governi, se è vero che oggi la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico.
Se paragoniamo i dati forniti negli articoli del 1976 e quelli di oggi, ci rendiamo conto di quanto il nuovo Concordato abbia inciso, ma non certo a favore dello Stato.
Secondo i più recenti calcoli, nel complesso, un gettito di circa 3,5 miliardi di euro all'anno, se si considerano i finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e il mancato gettito fiscale.
Da dieci anni a questa parte, infatti, solo con l'8 per mille ammonta a circa 1 miliardo di euro l'anno e nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni. Non si dimentichi il particolare che questa cifra affluisce nella casse della Chiesa solo sulla base di una apparente volontà maggioritaria dei cittadini italiani: solo il 44% dei contribuenti indica a chi attribuirlo e di questi solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Tuttavia, grazie al meccanismo risalente al nuovo Concordato, le quote dell'8 per mille non espresse, cioè quelle di coloro che non hanno fatto alcuna scelta, non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartite tra le confessioni religiose, in base alle percentuali ottenute. In questo modo la Chiesa cattolica percepisce l'85% dei contributi.
A questi vanno sommati i 360 milioni per gli stipendi degli insegnanti dell'ora di religione, 460 milioni per esigenze di culto e pastorale, 235 milioni per interventi caritativi, altri 700 milioni circa versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Si aggiunga che questa è una particolarità tutta italiana. In Spagna, ad esempio, le quote non espresse del 5 per mille restano allo Stato. In Germania i cittadini possono scegliere di versare l'8 o il 9 per cento del proprio reddito alle diverse chiese. Nel resto dei paesi europei vige il principio della volontarietà del contributo, senza trucchi.
Alla luce di questa sintetica ricostruzione storica e dei dati di comparazione forniti, mi pare che si possa già abbozzare una prima valutazione di fondo, sia sui mancati benefici venuti dal rinnovo del Concordato, sia in termini di libertà e di laicità per lo Stato (acuiti dai provvedimenti dei governi successivi), sia -soprattutto- sulle pesanti ripercussioni in termini concretamente economici sui cittadini italiani, credenti e non.
Fonte: Linkiesta
Bacheche vuote e crocifissi appesi
Fonte: archivio privato
Ho letto, di recente, che negli Stati Uniti, per l'esattezza in un campus dell'Università del Wisconsin, un professore ha ricevuto delle minacce da parte della polizia ed è stato censurato dai vertici dell'ateneo, con la motivazione di "cattiva condotta". Pare abbia affisso sulla bacheca del suo ufficio alcuni fogli personali. Cosa c'era scritto? Uno parafrasava il personaggio di un noto telefilm americano con frasi che incitavano alla violenza. L'altro, prendendo spunto dall'immagine di un cartone animato, ipotizzava il famigerato ritorno del fascismo. "Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini e degli animali” - aggiungeva.
Questa notizia mi ha indotto a due riflessioni, una semiseria, l'altra un po' meno.
La prima è che in terra americana, patria della libertà di pensiero e di opinione, censure di questo tipo stridano un po con l'età in cui viviamo. L'uso, molto in voga nei paesi anglosassoni, di attaccare vignette, foto, manifesti, volantini, sulla bacheca del proprio ufficio, potrà anche non piacere a qualcuno, se inteso come utilizzo privato di uno spazio pubblico, ma almeno dà l'idea di una certa vitalità e scambio, seppure scherzoso e ironico, tra docenti e studenti. Ben vengano foto divertenti e post-it con tanto di botta e risposta. Qui da noi purtroppo, negli uffici degli atenei, e da un bel po' ormai, le bacheche risultano completamente vuote. Simboleggiano, meglio di qualsiasi altra cosa, la lenta agonia di un'istituzione, dopo i tagli del governo. Non ci saranno certo violazioni di diritti, ma, con tutto il rispetto, a guardarle mettono davvero tristezza.
La seconda invece concerne, più in generale, l'utilizzo di immagini o di simboli, religiosi o di altra natura, come emblemi o rappresentazioni ufficiali di intere popolazioni, per esempio quelli appesi alle pareti. Qui il discorso si fa più scivoloso. Prendiamone non uno a caso, ma il più celebre: il crocifisso.
In alcuni paesi europei l'uso del crocifisso in luoghi pubblici, e in particolare nelle aule scolastiche, è vietato, perché si garantisce così, non solo teoricamente, la parità tra la religione cattolica e gli altri credi religiosi professati dalla popolazione. Negli Stati Uniti i simboli religiosi non sono vietati nei luoghi pubblici quando esposti in modo appropriato e passivo, semplicemente perché i tribunali americani riconoscono il valore non solo di fede ma anche culturale e civile dei simboli religiosi. Nella fattispecie, il crocifisso è visto come simbolo cristiano ma anche del sacrificio militare. Questo ultimo aspetto mi porta ad affrontare, sinteticamente, la questione della presenza del simbolo cristiano del crocifisso nei luoghi pubblici in Italia. Lasciamo da parte la questione se è giusto che un paese laico dia la preferenza ad un simbolo religioso, che pure rappresenta una parte fondamentale della sua storia, piuttosto che ad altri. Proviamo invece a svolgere una riflessione di carattere psicologico e antropologico.
Mi pare che si debba partire dall'asserzione che il significato di un simbolo non sia oggettivo e unilaterale ma debba essere liberamente lasciato all'interpretazione di chi lo guarda.
Faccio un esempio in proposito. Una persona, magari di famiglia musulmana, regala ad un'altra un tessuto indiano coloratissimo, splendidamente ricamato con immagini floreali. Ai suoi occhi appare bellissimo, originale. Alla sua mente ricorda una storia ancestrale di popoli lontani, di usanze misteriose e sconosciute ai più. L'effetto indotto sull'altro, qualora sia, per esempio, di origine ebraica, può essere però devastante e provocare reazioni sdegnate. Ciò accade nel momento in cui in quel mosaico di forme e colori, l'altro vada subito ad individuare una piccola croce uncinata, simbolo solare diffuso in Oriente. La persona ricevente lo interpreterà, piuttosto, come una svastica nazista, con tutti i collegamenti logici del caso.
Questo piccolo esempio serve per dimostrare che qualsiasi simbolo, religioso o meno, essendo aperto a interpretazioni diverse, non potrà mai rappresentare il pensiero di un'intera nazione.
E' evidente che per alcuni cattolici, più o meno praticanti, il crocifisso esposto nei luoghi pubblici, rappresenti il simbolo dell'amore e del sacrificio eminentemente cristiano, ma per altri possa rappresentare, ad esempio, il potere esclusivamente temporale e politico della chiesa.
In sintesi: se da un lato, missionari, sacerdoti, gente di buona volontà hanno diffuso pacificamente e con tolleranza, spesso con il crocifisso in pugno, la parola di Cristo tra la gente, dall'altro, a qualcuno quel simbolo potrebbe suggerire alla mente le stragi di islamici durante le Crociate, gli eccidi degli albigesi, i massacri dei valdesi, le torture dell'Inquisizione, lo sterminio dei nativi sudamericani, perpetrate proprio con la croce impressa sugli scudi.
Il simbolo religioso, nella fattispecie il simbolo cristiano per eccellenza, è carico di valori soggettivi e, come tale, non può rappresentare tutta la cristianità italiana, né tanto meno la cristianità mondiale, ma forse, solo i cattolici. Ad esempio, per gli ebrei, per gli islamici, ma anche per molti cristiani, esso è indice di idolatria.
Ecco, per questa semplice motivazione psicologica e antropologica, e non per ragioni politiche, teologiche o di puro principio filosofico, uno stato laico non dovrebbe consentire, né tanto meno imporre che il crocifisso, così come qualsiasi altro simbolo religioso, sia esposto nelle sue sedi pubbliche, e in particolare nelle scuole. Il suo posto è nelle chiese.
Questo, peraltro, non significa affatto mettere in discussione i valori umani e sociali insiti nell'insegnamento del Vangelo e nella figura di Cristo. Anzi, va detto che, proprio attraverso una riforma e una revisione dell'impostazione data, ad esempio, all'ora di religione nelle scuole, esso potrebbe acquistare ulteriori motivi e momenti di studio, di analisi comparata rispetto alle altre religioni, in una sorta di nuova ora di storia delle religioni del mondo, come sosteneva, tra gli altri, l'antropologo Alfonso Di Nola. Ciò arricchirebbe fortemente, a mio avviso, il messaggio stesso del cristianesimo. Lo si affronterebbe, infatti, non in modo simbolico, emotivo e dogmatico, cioè a dire attraverso un crocifisso appeso al muro, ma in modo storico, analitico, sociale. Voler diffondere il messaggio cristiano a colpi di crocifisso significa avere una visione gretta, limitata, assolutamente incompatibile con la realtà di oggi, momento in cui occorrerebbe, più che mai, una chiesa capace di aprirsi alle novità delle nuove generazioni.
A questa spiegazione rigorosamente culturale, ne aggiungerei un'altra di carattere storico. Il crocifisso è previsto da un decreto risalente addirittura all'Unità d'Italia, confermato poi dalla monarchia nel 1908, ma è stato imposto nelle scuole statali solo dal regime fascista nel 1924, anno del delitto Matteotti, e poi passato automaticamente indenne nel Concordato del 1929.
Ora, a quell'epoca, il simbolo del crocifisso non era esclusivo nelle pareti delle scuole, ma era affiancato, alla sua destra, dal ritratto del Re d'Italia, e alla sua sinistra, da quello del Duce. Ed aveva un senso proprio in quel preciso contesto. Già prima, ad esempio durante il Risorgimento e per tutto il primo periodo post-unitario, la questione della libertà religiosa era stata affrontata e dibattuta con una serietà ed un rigore morale completamente sconosciuti al regime, tanto che vari governanti e politici, fino a Giolitti, non accettarono mai la pretesa dei cattolici di imporre il crocifisso nei luoghi pubblici. Successivamente, nei decenni repubblicani, la scelta di mantenere quel simbolo religioso come emblema dell'italianità fu dovuta a questioni di semplice opportunità politica, per ingraziarsi le alte sfere ecclesiastiche, prima da parte degli spesso poco religiosi e moralmente corrotti dirigenti democristiani, poi da parte dell'altrettanto corrotto leader socialista. Oggi, nella cosiddetta “seconda repubblica”, seppure in una società ormai completamente secolarizzata, l'atteggiamento di supina sudditanza e riverenza di maggioranza e opposizione nei confronti della Chiesa, continua (si prenda, ad esempio, il recente articolo di Veltroni sul “Foglio” di Ferrara, dal titolo “Io sto col Papa”).
Vivaddio, la storia d'Italia, fino a prova contraria, non è stata fatta solo da Mussolini, Andreotti e Craxi, ma anche da Mazzini, Garibaldi e Cavour. E non tutti hanno permesso che il crocifisso fosse assurto a simbolo dell'italianità e presente immancabilmente nei luoghi pubblici, come spesso qualcuno cerca di far credere agli italiani.
Forse in un futuro prossimo, una classe politica completamente rinnovata, attenta, critica, fatta da giovani con una mentalità aperta al nuovo contesto globale e multiculturale, ma non per questo contraria pregiudizialmente a certi valori religiosi, e tanto meno digiuna dei principi (l'art. 3, 8 e 19) che definiscono incompatibile la presenza di qualsiasi simbolo religioso in posizione di monopolio con il dettato costituzionale, deciderà di equiparare finalmente il nostro paese, anche su questo argomento apparentemente futile o astratto, ma in realtà carico di significati, agli altri più avanzati paesi europei. Non sarebbe affatto un modo per sminuire il valore della religione cattolica, ma piuttosto per darle uno “scossone”, nel tentativo di renderla più viva e vitale, e non così arroccata su se stessa e separata dalla società in cui viviamo.
Fonte: Cronache Laiche
Veltroni, la laicità e i santi in paradiso
Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.
(Tratto da: “Diario della settimana”)
La biografia politica di De Gasperi
Questo libro (Piero Craveri, De Gasperi, Bologna, il Mulino) è la biografia politica di De Gasperi. L'autore utilizza il percorso politico dello statista democristiano per tracciare un quadro dell'Italia della prima metà del secolo XX, appoggiandosi all'ampia bibliografia a disposizione sull'argomento, ma aggiungendo a questa un profondo scavo archivistico che comprende le carte private dello statista. Viene fuori una ricostruzione che ci trasmette una diversa lettura della figura del leader democristiano rispetto a quella tratteggiata negli studi pionieristici di Scoppola, in cui la dimensione della politica estera sembra condizionare fortemente le scelte di politica interna.
Emerge chiaramente che De Gasperi è il politico italiano che più di ogni altro ha avuto il merito di garantire all'Italia la stabilità necessaria per la ricostruzione del dopoguerra. Le tappe che scandiscono questa biografia sono di per sé emblematiche dello spessore del personaggio: dalla formazione politica nel Trentino asburgico ai contatti con il cattolicesimo di Murri (presto rinnegato); dall'ingresso nel partito popolare di Sturzo all' “integralismo pragmatico”; dal solidarismo leonino all'antifascismo “religioso” (ben evidente nella vicenda del Concordato) e anticomunista; dalla fondazione della Dc, senza la benedizione del Vaticano, ma in continuità con la stagione liberale pre-fascista, alla neutralità durante il referendum del 1946 (l'autore insiste sul fatto che l'interrogativo se De Gasperi fosse repubblicano o monarchico non abbia rilevanza storiografica [p. 216]); dalla Costituente al disegno centrista e al “partito nazionale”; dalla scelta occidentale alla contrapposizione al partito romano nei giorni della “operazione Sturzo”, fino alla sconfitta sulla legge “truffa”.
Sullo sfondo di una figura politica così solida e, secondo l'autore, del tutto coerente ad una precisa visione culturale
di democratico cristiano, emergono tuttavia alcune contraddizioni.
- La sottovalutazione iniziale, comune peraltro a molti altri politici cattolici (ma non a Sturzo o a Miglioli), del fenomeno fascista [p. 72], con la scelta di collaborare al primo governo Mussolini per “ristabilire la legge e la disciplina nel paese” [p. 81]. Pur mediata, in seguito, dall'idea della cosiddetta stabilizzazione democratica in funzione anti-comunista, qui appare in nuce la logica del futuro centrismo protetto.
- Il solidarismo leonino che spinge De Gasperi al coinvolgimento dello Stato in materia economica [p. 12] cozza con la logica liberista e liberale. A differenza di quanto ipotizzato da Quagliariello (Id., De Gasperi letto da Craveri, in http://www.gaetanoquagliariello.it/node/312, 12 maggio 2008), Craveri sostiene che lo stesso De Gasperi non amava essere definito un cattolico liberale [p. 37]. D'altronde l'appoggio fornito al cosiddetto “quarto partito”, cioè a dire al capitale finanziario e industriale guidato da Costa, fornisce bene il senso della strategia, questa sì avallata da Vaticano e Stati Uniti, con cui la Dc decise di impostare la politica economica della ricostruzione [p. 290].
- L'appoggio alle azioni di mantenimento dell'ordine e della legalità messe in campo da Scelba e dai reparti speciali della Celere [p. 286], al costo di far pagare un caro prezzo alla sua visione democratica (basti pensare a Portella delle Ginestre), si scontra con il tentativo di coinvolgimento, con qualche ministero in dono, dei qualunquisti di Giannini [p. 320, 337] e con il convincimento di De Gasperi, evidente in occasione dell'estromissione delle sinistre dal governo e nella fase dell'operazione Sturzo, di contenere l'avanzata e il recupero dei voti dell'elettorato moderato. Un approccio più organico alla riforma agraria e fondiaria e una più incisiva lotta al problema della disoccupazione nel Mezzogiorno (dove invece ha finito per prevalere una gestione interclassista e condizionata da interessi corporativi) avrebbero potuto essere una risposta concreta al possibile spostamento a destra dell'elettorato cattolico.
(Archivio Fondazione De Gasperi)
- La diffidenza, ribadita da De Gasperi in occasione del dibattito costituente, riguardo alla possibilità di dare troppo spazio e centralità al potere esecutivo [p. 340] non si concilia, almeno dal punto di vista di una coerente visione politica, con la scelta, manifestata di lì a qualche anno, di optare per l'approvazione di una legge maggioritaria. Questa scelta fu attuata, secondo l'autore, non tanto come un normale tentativo di stabilizzazione in senso maggioritario, ma soprattutto in funzione di difesa delle istituzioni democratiche
contro gli “opposti estremismi” [p. 556].
- L'ampio raggio delle intenzioni programmatiche dei governi De Gasperi, ovvero la riforma istituzionale e le leggi di applicazione della Costituzione (anche se lo statista era contrario, per esempio, all'introduzione del referendum e della Corte Costituzionale [p. 556]), la riforma tributaria, quella dei sindacati, della scuola, della stampa e della previdenza sociale, l'aggiornamento del codice penale, il decentramento amministrativo e l'istituzione delle Regioni, non si traducono, soprattutto per la preoccupazione del mondo industriale e della Chiesa, in risultati adeguati. Se si eccettuano le concretizzazioni messe in atto soprattutto da Fanfani al ministero del Lavoro (ammortizzatori sociali, varo della Fim, piano Ina-casa, riforma dell'ufficio collocamento), la riforma agraria e fondiaria,
la politica di integrazione europea.
- Il ridimensionamento dell'influenza su De Gasperi di pensatori come Mounier e Maritain, sottolineata da Scoppola come elemento di pluralismo, e annoverata invece da Craveri come una visione integralista non attribuibile a lui [p. 130, 270]; questo aspetto, che diventava una sorta di “osmosi” con la visione ideologico-politica di Togliatti e di Nenni, avrebbe avuto come conseguenza, secondo l'autore, la mancata partecipazione da parte di De Gasperi (a differenza di Dossetti e La Pira) allo “spirito costituente” [p. 338-340].
- La connotazione federalista ante litteram di De Gasperi (quella europeista pare ormai assodata [p. 488]), motivata dall'autore con la convinzione del politico di lasciare ai privati la gran parte dei capitali presenti sul mercato, con il consenso del ceto imprenditoriale e del ceto medio produttivo “nordista”, si affianca al disinteresse per un approccio risolutivo alla questione economica meridionale (se si esclude l'istituzione della tanto discussa Cassa per il Mezzogiorno) [p. 386, 557].
Per concludere, si tratta di un lavoro di notevole spessore, che fornisce numerosi spunti per una riflessione più approfondita sul centrismo degasperiano, sui suoi contenuti riformistici e non solo funzionali alla stabilizzazione moderata dopo la rottura dell'unità antifascista, ma che sorvola sulla chiusura conservatrice che segna le fasi di maggior tensione dell'attività di governo dello statista democristiano. Ferma restando la distinzione dell'autore dall' “ordine ad ogni costo” perseguito da Scelba [p. 464]).
(Tratto da: “Passato e Presente”, n. 78)