Pd

Se la sinistra entra in pista senza automobile

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Fonte: Qualcosa di Sinistra

E’ ormai risaputo, del tutto assodato, che l’Italia delle istituzioni pubbliche, così come la sua classe politica, è completamente delegittimata. E allora che si fa? chiederete voi. Che succederà quando questo governo tecnico terminerà il suo compito e sarà ridata la parola agli elettori?
La soluzione prospettata dai principali partiti, cio
è la riforma del meccanismo di elezione che modifica i criteri (mescolando proporzionale e maggioritario a seconda delle convenienze del momento) e mantiene la scelta dei candidati alle segreterie, non ci piace per nulla.
Non ci piace neppure, peraltro, l’idea che passa in molti ambienti della cosiddetta anti-politica, cio
è l’eliminazione dei partiti, la partecipazione diretta dei cittadini alla politica non si sa bene poi con quali criteri, il respingimento delle candidature sulla base di fedine penali o esperienze politiche passate, come se bastasse l’aver fatto, anche bene, il consigliere comunale o l’assessore in una giunta per macchiarsi in eterno di una specie di colpa primigenia.
No, la questione posta in questo modo
è astratta: in una democrazia parlamentare, sono sempre e comunque le forze politiche, che piaccia o meno, i soggetti che agiscono e prendono le decisioni. Occorre assolutamente riformarli, dunque, anche stravolgerli nella loro struttura, per cambiare le istituzioni nel profondo.
Si illude, infatti, chi ritiene l’attuale Pdl logoro, il Terzo Polo inconsistente, il Pd disorientato. Apparentemente
è proprio così, ma in realtà questi partiti hanno dimostrato di avere risorse inesauribili, a volte con accordi sottobanco, altre volte perfino alla luce del sole, per superare indenni qualsiasi crisi. Andreottianamente, verrebbe da dire. Di certo, non sembrano capaci di saper mobilitare gli elettori e di compiere quelle riforme di cui parlano, viene ormai da dubitare quanto sinceramente, da anni. Però, è pur sempre vero che questi partiti, insieme, raggiungono circa la metà dei voti degli elettori, checché ne pensi l’antipolitica.
Il discredito in cui essi versano, oggettivamente,
è davvero tanto. Non è, peraltro, una novità. Capitò qualcosa di simile dopo Tangentopoli: Dc, Psi e partiti minori furono spazzati via, l’ex Pci poi Pds si salvò per il rotto della cuffia, ma, timido, informe, indeciso, non seppe mettere in piedi quella alternativa di riformismo militante che sarebbe servita per cambiare fin dalle fondamenta il paese. Poi venne Berlusconi, il resto lo conosciamo.
Che fare, dunque?
Il vero problema della crisi politica italiana (ma anche di quella economica e sociale)
è la mancanza di forze politiche nuove. Senza questa condizione, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, non ci sarà alcun reale rinnovamento, lo stato italiano continuerà, più o meno inesorabilmente, il suo declino, fino ad arrivare ai livelli più bassi tra le cosiddette democrazie, non solo europee, su tutti i fronti: Pil, lavoro, ricerca e sviluppo “umano”, diritti.
Ci sovviene in aiuto la storia. Di fronte al sommovimento radicale dovuto a Tangentopoli, non spunt
ò come un fungo solo Berlusconi, ma ci furono anche altri fenomeni: il tentato rinnovamento del Pri, la nascita della Rete di Orlando, Dalla Chiesa e Novelli, i sindaci della sinistra critica, la stessa Lega Nord, che comunque esprimeva una reale voglia di cambiamento, sebbene eterogenea e ambigua. Proprio come accade oggi, con il movimento Cinque stelle, con Sinistra ecologia e libertà, con la rete dei sindaci Pisapia e De Magistris, e con altri gruppi più o meno visibili.
A questo quadro ricco ma molto vario, vanno aggiunti gruppi di intellettuali, associazioni, riviste, movimenti, una vasta area di operatori e soggetti sociali, per usare un termine per la verit
à un po’ abusato, la cosiddetta “società civile”, tutta gente non iscritta ad alcun partito, che vorrebbe costituire una nuova politica. Soggetti caratterizzati da un bisogno di rappresentatività in parlamento, che fino ad oggi non si è mai potuto realizzare, sia per colpa delle tradizionali forze politiche, sia per colpa del proprio velleitarismo, della propria conflittualità. Ma anche da un bisogno di moralità, di pulizia, di “buona politica”, che si è espresso in più occasioni, idealmente nei movimenti di piazza, con studenti, lavoratori, pensionati, donne (si pensi alla imponente manifestazione del “Se non ora quando”), e più concretamente, nei referendum autogestiti sui beni pubblici (che non a caso ha ricordato, storicamente, la mobilitazione atipica sul referendum contro il nucleare militare e poi civile degli anni ottanta, con i partiti a ruota della società), con un risultato a tal punto imprevedibile, quasi stupefacente, da rompere completamente i vecchi e usurati schemi politici, anche con l’aiuto di una risorsa nuova, insperata, e quanto mai democratica, come i social network.
Finora i partiti tradizionali hanno dormito sonni abbastanza tranquilli perch
é queste forze si sono mosse in modo sfilacciato, disarticolato, eterogeneo. Ma l’esistenza di fili conduttori, aspirazioni e ideali che li uniscono, in particolare temi come la critica al neo-liberismo, la lotta alla corruzione, la battaglia contro la criminalità, la difesa dei beni comuni e dell’ambiente, rappresenta la base per la costruzione di una nuova forza politica capace di interpretare correttamente le richieste e di seguire le dinamiche di una società moderna e globale completamente mutata rispetto al passato.
In una nuova situazione di transizione politica come l’attuale, questi soggetti, che sono la parte indubbiamente pi
ù viva e dinamica della società italiana, sottopongono quotidianamente a una critica impietosa la forma-partito, uno strumento giudicato ormai non più intoccabile. In tal senso, l’unico modo che il partito avrebbe per salvarsi dal naufragio e per rimanere in vita, è quello di evitare di chiudersi nella solita funzione decisionale burocratica e di vertice (a questo proposito dovrebbe far pensare il fatto che, nei vari appuntamenti delle primarie, da Vendola a De Magistris da Pisapia a Zedda, fino al recente Doria, venga sempre premiato il candidato che non è espressione diretta del partito), e di aprirsi al microcosmo delle diversità che pullulano nel sociale, interloquendo con esso a partire dai problemi del lavoro, della scuola, dell’ambiente, dell’immigrazione, della pace.
Lo si
è visto nella parabola del Pd, che pure inizialmente era stato accolto in modo entusiasta dall’elettorato del centro-sinistra: un patrimonio di speranze è stato sprecato incredibilmente e la colpa ricade, senza scusanti, nell’attuale dirigenza, che dovrebbe quantomeno fare autocritica, cospargersi la testa di cenere, e aprirsi finalmente all’esterno. Anzi, per dirla alla Moretti, dovrebbe aprire le porte a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, e dire “venite, venite nel partito, prendetelo!”.
Nel Pd, infatti, storie troppo diverse, pregiudizi, interessi immediati contrastanti, gruppi di potere non disponibili a lasciarsi liquidare, hanno condizionato e condizionano tuttora fortemente le nuove leve, ed i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti: disorientamento assoluto dell’elettorato abituale, vento dell’antipolitica.
E’ bene anche dire, per correttezza, che il quadro del rinnovamento sarebbe incompleto se non si aggiungesse quella minoritaria parte di mondo racchiuso nei partiti tradizionali, che pure spinge, timidamente, in direzione del cambiamento. Ci sono pezzi e soggetti costruttivi anche dentro ai partiti tradizionali,
è evidente. Se anziché parlare di Pdl si parlasse di elettorato di centro-destra, se anziché dire Terzo Polo si dicesse elettore moderato, se anziché scrivere Pd si intendesse centro-sinistra, se invece di Chiesa ci si riferisse al mondo cattolico della base, si capisce bene come in queste realtà esistano forze vere e sincere, schierate contro la degenerazione e la corruzione, con le quali poter costruire una politica nuova.
Va assolutamente evitato di riproporre meccanismi e dinamiche vecchie, destinate alla sconfitta, foriere solamente di illusioni. Il popolo del centro-sinistra ne ha subite fin troppe, fin dal lontano ’48: negli anni sessanta la divisione tra Pci e Psi scavata dal centro-sinistra, negli anni settanta quella dovuta al compromesso storico, negli anni ottanta il craxismo, negli anni novanta i contrasti dell’Ulivo, infine, l’indeterminatezza del Pd.
E’ giunto il momento che le forze vitali della societ
à mettano da parte divisioni e rancori, che i pochi settori vivi dentro i partiti della sinistra si uniscano per dar vita ad una forza politica di sinistra completamente nuova, che selezioni, in modo partecipato e democratico, sulla base delle competenze professionali, la propria giovane classe dirigente, capace di parlare un linguaggio moderno, dinamico ma carico di contenuti e non ignaro del ruolo fondamentale della memoria storica. La storia recente dimostra che costruire un calderone vuoto, un partito liquido senza spina dorsale, senza riferimenti culturali precisi, è stato dannosissimo. Parlare di alleanze, di primarie, di candidato premier e di programma politico, allo stato attuale, è del tutto inutile. Sarebbe, semplicemente, come entrare in pista senza automobile.

Fonte: Qualcosa di Sinistra

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A ferragosto, qualche pensiero su questa politica

Dopo aver trascorso una ventina di giorni a "disintossicarmi" da un certo ordine di problemi, come la politica e le prime pagine dei giornali, che ci coinvolge in prima persona per ovvi motivi, non solo come cittadini ma anche come osservatori della società contemporanea, mi preme sottoporre all'attenzione degli amici alcune brevi osservazioni sull'evolversi della situazione del nostro paese. E visto che ormai di centro-destra, dopo gli scandali, le denunce e gli scontri all'ultimo sangue, si parla sempre, è forse più utile concentrarsi per un attimo sulla situazione del centro-sinistra, e in particolare, del suo partito più consistente elettoralmente, ovvero il Pd. Affrontando almeno due aspetti: la selezione della sua classe dirigente e del suo leader e la stesura di un programma davvero di sinistra alternativo e convincente. A questo punto però va fatta una premessa di carattere generale. E riguarda la questione che si pone : andare o meno, quanto più rapidamente, alle elezioni anticipate. Berlusconi e Bossi le sbandierano per impaurire i settori più moderati dell'opposizione, Di Pietro, Vendola e le sinistre più radicali le invocano per fare una sorta di pulizia generale affidata agli elettori. In mezzo a questi ci sta tutto un mondo, una sorta di palude, che vuole invece cercare il modo di evitarle o comunque di posticiparle per traghettare il paese verso le riforme, verso una ripresa economica e per far vivacchiare ancora per qualche tempo i propri parlamentari (diciamolo pure!). E in questa prospettiva i vertici del Pd, contando sulla imparzialità istituzionale della Presidenza della Repubblica, spinta per dovere costituzionale a sondare qualsiasi ipotesi fattibile prima di sciogliere le camere, hanno proposto la carica di una Presidenza del Consiglio di transizione o di "responsabilità nazionale", come si usa dire di recente, prima a Tremonti, poi a Casini, a Draghi, a Montezemolo, e chi più ne ha più ne metta. Andare a elezioni anticipate in questa situazione, senza aver modificato quantomeno la legge elettorale, appare un grande rischio, perché Berlusconi, puntando tutto sull'enorme disparità mediatica, potrebbe trasformare la campagna elettorale, come al solito, in un plebiscito a suo favore, e peraltro nell'ipotesi di tre grandi coalizioni (o anche di più), rischierebbe davvero di prendere tutto con un jolly (cioè a dire di nuovo il governo), per una manciata di voti a suo favore. Però è anche vero che non appare fattibile una nuova legge elettorale senza l'avallo di gruppi parlamentari consistenti numericamente come il Pdl e la Lega. Quindi l'idea di un governo tecnico per modificare la legge appare anch'essa poco percorribile. A questo punto rimarrebbe una soluzione più sbrigativa in termini temporali e probabilmente anche più chiara per gli elettori. Non è necessario infatti che si formi un governo tecnico per fare una nuova legge elettorale, ma basterebbe che un'opposizione unita e compatta, compresi i casiniani, i rutellini e ora anche i finiani, si mettesse d’accordo sulla proposta di un semplice disegno di legge, chiedendone la discussione parlamentare. In tal modo i berlusconiani e i bossiani sarebbero costretti ad opporsi in parlamento, si aprirebbe una crisi vera, la gente saprebbe finalmente come stanno le cose e chi si oppone davvero al cambiamento politico, e così si arriverebbe a una fase che potrebbe portare o alla formazione di un governo tecnico, però con un chiaro mandato, ovvero quello di modificare la legge elettorale (cosa molto più probabile tenuto conto della volontà della presidenza della repubblica) oppure al voto senza se e senza ma. In entrambi i casi però il ruolo che assumerebbe la posizione del Pd diventa di cruciale importanza. A prescindere, infatti, dalle due possibili soluzioni alternative, il Pd dovrebbe, a partire da oggi, cioè a dire da ferragosto, anziché bivaccare in spiaggia, pensando a possibili inciuci autunnali o, come amano tanto D'Alema e Casini, cioè a tessere nell'ombra dialogando con poteri più o meno forti, stabilire finalmente una linea coerente e chiara. La parola chiave è mobilitazione: andare a cercare le persone porta a porta, martellare su tutti i giornali, in rete, in tv (per quanto possibile), coinvolgere, chiamando a raccolta tutta quella gente (che è davvero tanta ormai) che ne ha le scatole piene di queste beghe del centro-destra e di questo modo di mal-governare sulla testa dei cittadini. Un grande partito come il Pd dovrebbe, per il patrimonio culturale e politico che ha ereditato, formulare un programma sintetico, chiaro e coerente di sinistra, e non pensare esclusivamente a garantirsi la rielezione dei propri dirigenti, eletti peraltro senza l'approvazione dei propri elettori ma dall'alto, in perfetto stile berlusconiano. Dovrebbe, in primis, mettere al centro della propria azione politica di contrasto e di alternativa inequivocabile a questo governo alcuni punti-chiave. In parte lo sta iniziando a fare, come sul tema della legalità (qui sollecitato dal gruppo di Repubblica e da alcuni magistrati avvertiti, pungolato poi da quello che è il cavallo di battaglia di Di Pietro). O come sul tema del lavoro, sollecitato soprattutto da Vendola. O ancora come sul tema del federalismo e della politica economica, spinto da Chiamparino. Tutte queste personalità insieme, cioè a dire Di Pietro, Vendola, Chiamparino, Bersani, rappresentano, ognuno nel suo modo specifico, più o meno condivisibile singolarmente, ma comunque delle risorse formidabili, da valorizzare imprescindibilmente attraverso le primarie. Come ha sostenuto intelligentemente Pasquino (studioso ed ex parlamentare della Sinistra indipendente tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, argomento che sto studiando in questi ultimi mesi) sarebbe auspicabile che il Pd utilizzasse le primarie non solo per scegliere il leader, ma anche per la selezione dei suoi candidati in parlamento (da indire in maniera selettiva e in casi particolari, per esempio quando secondo gli elettori un parlamentare ha fatto male il suo lavoro nel precedente mandato), abbandonando il metodo della scelta pilotata dai più importanti dirigenti e basata esclusivamente se non sulla parentela, quantomeno sulla simpatia, sul tempo della militanza (cioè a dire più francobolli hai attaccato da giovane per il partito più hai possibilità di farti candidare) , elementi che non sono certo garanzia di un gruppo parlamentare competente e adeguato (neppure organizzare centri studi, istituti culturali, campi estivi e fondazioni varie si è dimostrato, dalla storia del pds in poi, un metodo efficace di formazione della classe dirigente). Insomma un partito degno di questo nome dovrebbe comunicare con i propri elettori (reali, potenziali, quindi quelli che si sono astenuti, e anche con gli elettori delusi dell'avversario) attraverso la formulazione di un programma, la diversificazione delle idee e la loro promozione da parte dei diversi candidati, e poi attraverso il metodo conclusivo della scelta attraverso le primarie. Semplicemente questo e null'altro esso dovrebbe fare. Infine, qualcosa di più sul programma. A parte i già citati punti imprescindibili, cioè legalità, questione morale, lavoro e politica economica, occorrerebbe aggiungere almeno due ordini di problemi: beni comuni e diritti civili. Su questo terreno dovrebbe giocarsi la demarcazione forte rispetto al futuro centro-destra. Come ha sottolineato argutamente Rodotà (altro insigne studioso e anch'egli ex parlamentare della Sinistra indipendente), i beni comuni appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive, perchè patrimonio dell'umanità: acqua, energia, conoscenza (internet ma non solo). I diritti civili, quindi l'uguaglianza tra coppie sposate e di fatto, tra eterosessuali e omosessuali, il ricorso eventuale alla pillola abortiva, la fecondazione assistita, la possibilità di morire in certi casi limite secondo la propria volontà, etc. rappresentano elementi decisivi e cruciali in una società del futuro auspicabilmente più democratica. Il dibattito è aperto, si tratta semplicemente di iniziare a coinvolgere su queste problematiche, con il porta a porta, stanando la gente dal suo torpore a dal suo pessimismo, organizzando incontri e tavole rotonde, richiamando più persone possibile, in modo da sensibilizzarle, da renderle partecipi di scelte che determineranno le loro stesse sorti e soprattutto quelle dei propri figli. Diamoci dentro, dunque, e ritroviamoci al più presto, insieme, alle prossime battaglie di democrazia.
Buon ferragosto e buon proseguimento di estate a tutti.

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(Archivio personale)

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Veltroni, la laicità e i santi in paradiso

Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere. Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
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(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.

(Tratto da:
“Diario della settimana”)

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