Referendum e svolte mancate
Un'analisi comparata sui dati dei 3 referendum
che hanno fatto la storia del nostro paese
Se compariamo questo referendum alle due precedenti storiche tornate referendarie del 1974 e del 1981, scopriamo che esistono molti elementi in comune a spiegare che la società civile è più avanti della politica e della classe dirigente che la governa. Sono i cittadini, i movimenti, le associazioni che, storicamente, danno la svolta. E' accaduto in passato, accade oggi. Il punto è che queste formidabili ondate progressiste la sinistra non è mai riuscita a incanalarle, fornendo risposte concrete su un versante politico.
Il primo referendum abrogativo della storia d'Italia, nel 1974, non fu promosso, come qualcuno potrebbe pensare, dai radicali o da giovani rivoluzionari di sinistra, ma dalla chiesa e dai democristiani, che, dopo l'approvazione della legge Fortuna-Baslini del 1970, diedero seguito all'idea di alto prelato, un monsignore, che aveva avanzato, alcuni anni prima (L'Italia, 17 aprile 1966), la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica cosìdelicata.
Non si creda però che l'esito di quel primo referendum fosse, alla vigilia, così scontato.
(Fonte Internet)
Il governo Rumor era appena caduto, a seguito della crisi economica e delle dimissioni del ministro del tesoro La Malfa. Basta prendere in considerazione i manifesti elettorali dell'epoca (“Pensa a tuo figlio”, “Non mescolare il tuo voto con i fascisti”) o la copertina di un libro uscito proprio in quei giorni (in cui campeggiavano le facce di Gabrio Lombardi e Loris Fortuna), per capire quanto forte fosse la contrapposizione tra i due fronti. favore della riconferma della legge si schierarono, trasversalmente, la lega italiana per il divorzio, il movimento liberazione delle donne, quelli del manifesto, i pidiuppini, la lega degli obiettori di coscienza, i radicali, le comunità di base, i cristiani per il socialismo, i cattolici democratici, gli indipendenti di sinistra, e poi i partiti Psi, Pci, Psdi, Pri, Pli. Tra i quotidiani e le riviste appoggiarono il divorzio il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, Paese Sera, l'Unità, Il Secolo XIX, La Nazione, Il Giorno, Panorama, L'Espresso, L'Europeo, Grand Hotel, Amica e Noi donne. Per l'abrogazione si espressero, dall'altro lato, i missini, la Dc, la Cei, il Papa, con Famiglia cristiana, Avvenire, La Discussione, L'Osservatore Romano, La Civiltà cattolica, Il Popolo, Il Gazzettino, Il Tempo, mentre tutta la Rai, allora l'unico mezzo di informazione veramente capillare, evitava accuratamente di far sentire la voce dei divorzisti.
Alla fine, con una sonora risposta all'alto prelato che l'aveva chiamato in causa, il popolo, dunque, si espresse, dando inizio a quel processo di secolarizzazione che ha avvicinato l'Italia agli altri paesi europei più evoluti sul versante dei diritti civili. L'affluenza fu incredibilmente alta, circa 33 milioni e 29 mila elettori, l'88,1% degli aventi diritto. I “sì” all'abrogazione della legge sul divorzio il 40,9% mentre i “no” superarono il 59%.
La clamorosa novità fu la fortissima tenuta anti-divorzista nelle campagne e nelle province, tra le donne, tra gli operai e tra i cattolici. Una enorme affluenza al voto e le più alte percentuali del “no” furono in Val D'Aosta (75%), Liguria (72%), Emilia Romagna (70%), poi in Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio, mentre tra le città, a Livorno (77%), Torino (76%), Ferrara (74%), Siena (74%), Trieste (73%), ma anche Bologna, Genova, Firenze, Reggio Emilia. Alte percentuali anti-divorziste si raggiunsero, sorprendentemente, anche nelle regioni del Sud, in testa Sardegna e Sicilia (e in particolare le città di Siracusa e Ragusa). Un'affluenza più bassa e le percentuali più alte del “sì” a Benevento, Lecce, Vicenza, Caserta, Avellino, Reggio Calabria, Potenza e Messina.
Il quadro sociologico e regionale emerso fu evidente. Il trend positivo, una sorta di traino, si ripercuoteva direttamente alle successive elezioni amministrative e regionali: rispetto alla disponibilità di voti degli schieramenti, Dc e Msi, uniti al referendum, avevano perso il 6,6%, circa 2 milioni e 700 mila voti, e infatti, nel 1975, la Dc calava e si attestava al 35% (e il Msi al 6%), mentre la sinistra era in crescita, con il Pci che aumentava del 5% e passava al 33,4%, il Psi + 2% e arriva al 12%, e il centro-sinistra insieme raggiungeva quota 45%, circa il 4% sopra il centro-destra. L'incredibile voto referendario e la evidente crescita di consensi elettorali della sinistra non erano però tramutati in un concreto risultato politico.
(Fonte Internet)
Anche nel 1981 la promozione del referendum che intendeva abrogare la legge sull'aborto del 1978 fu monopolizzata dai movimenti cattolici e in particolare da un ex giudice, divenuto presidente del Movimento per la vita. Anche in quell'occasione la contrapposizione nel paese fu fortissima, da un lato i radicali che rivendicavano l'aborto libero, dall'altro gli appelli delle parrocchie, dei parroci durante le omelie, e delle organizzazioni cattoliche, perfino le veglie di preghiera e le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum, mentre in casi estremi anche le statue del santo patrono sfilavano accompagnate dal cartello vota “sì”.
La campagna referendaria fu segnata da una certa sproporzione mediatica delle forze in campo. A favore del referendum anti-aborto o, comunque, per un'astensione diretta contro la riconferma della legge 194, si schierarono in una specie di santa alleanza, la Dc, il Msi, il Papa, la Cei, il Mpv, Comunione e liberazione, La Civiltà cattolica, L'Osservatore Romano, l'Opus Dei, Azione cattolica, le Acli, la Cisl, Il Sabato, il Corriere della Sera, Il Popolo, La Discussione, Il Tempo, mentre la Rai si trovò in evidente imbarazzo a parlare di “194” e di interruzione di gravidanza. Uniti in difesa della legge Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, Sinistra indipendente, Pdup, e poi i movimenti dell'Udi, l'Mld, i gruppi del dissenso cattolico (Cdb e Cps), l'Arci, e i giornali Paese Sera, La Stampa, la Repubblica, l'Unità, il manifesto, Il Messaggero, L'Espresso.
Il risultato fu una sberla contro Chiesa e Dc e la conferma di un paese indirizzato verso una maggiore laicità, quantomeno di principio. Le donne, anche quelle cattoliche, i movimenti e i partiti uniti a difesa della legge, nonché il discutibile referendum radicale pro aborto, furono gli elementi che contribuirono a quell'indimenticabile risultato. L'affluenza fu, anche in quel caso, molto alta, con il 79,6%. Si espresse per il “sì” all'abrogazione della legge sull'aborto il 32,1% mentre per il no ben il 67,9% degli italiani.
Ancora una volta le percentuali più alte a favore della legge furono in regioni come Val D'Aosta (77,3%), Umbria (76,9%), Emilia Romagna (76,8%), Liguria (76,1%), Toscana (75,4%), Piemonte (73,9%), mentre quelle più alte del “sì” si ebbero in Trentino e Alto Adige 50,3%, Veneto 43,4% e Molise 39,7%. Rilevante apparve il fatto che in paesi di montagna e piccole province, dove la Dc aveva ottenuto alle precedenti elezioni anche il 70%, i voti contro la legge furono appena il 50%, mentre al Sud, in particolare in Calabria e in Basilicata, ci fu un'incredibile alta percentuale di astensioni, sommata alle tante schede bianche. Non è un caso dunque che alle successive elezioni politiche, quelle del 1983, la Dc ottenne il 32% dei consensi, cioè a dire il suo minimo storico, con addirittura – 8% rispetto alla precedente tornata elettorale. Anche questa volta però, il senso anti-governativo del voto, verso un partito e un sistema che iniziava a risentire degli scandali della corruzione, non venne affatto concretizzato dalla sinistra, che ottenne sì un discreto risultato elettorale, ma che non fu in grado di fornire una proposta alternativa di governo. Non a caso il Psi abbracciò la Dc per dar vita a quel pentapartito che fece epoca negli anni ottanta.
Infine arriviamo all'oggi.
Stavolta i comitati che hanno promosso i referendum su acqua pubblica, nucleare e giustizia erano espressioni variegate, poco etichettabili, gruppi e movimenti della società orientati tendenzialmente a sinistra (ma non solo), decisi a far conoscere i quesiti referendari alla cittadinanza con ogni mezzo a loro disposizione. E' stata chiara, infatti, fin dall'inizio, la sproporzione mediatica delle forze contrapposte. Per l'astensionismo o per il “no” all'abrogazione delle leggi governative si è dichiarata la presunta maggioranza degli elettori, cioè a dire ilPdl, la Lega, Fli, l'Udc, ma anche la Cisl, la Confindustria, e poi quasi tutta la stampa televisiva, cioè la Rai (Tg1 e Tg2) e Mediaset, quella dei giornali, Il Corriere della Sera, Sole24ore, Giorno/Resto del Carlino/Nazione, Il Giornale di Sicilia, Il Gazzettino, Il Giornale, Il Mattino, Il Tempo, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Padania, Liberoe Panorama. Per i referendum, in modo trasversale, si sono schierati i comitati promotori sull'acqua pubblica e contro il nucleare, movimenti e gruppi come Legambiente, WWF, Italia Nostra, Arci, Protezione Civile, la Rete degli Studenti, Emergency, Donneinmovimento, Libertà e Giustizia, Cultura Sviluppo e Legalità, Medici per l’ambiente, gruppi sindacali come Cgil, Fiom, Cobas, l'Azione cattolica, le Acli, gli scout di Agesci, Pax Christi, poi i partiti Pd, Idv, Sel, FdS, socialisti, tra le tv solo la7, tra i giornali, Avvenire, Il Fatto quotidiano, il manifesto, l'Unità, la Repubblica, La Stampa, Famiglia cristiana, Il Messaggero, L'Espresso.
Un ruolo decisivo è stato giocato dalla rete, attraverso il passaparola, che ha saputo raggiungere luoghi e persone diverse, creando una mobilitazione “alternativa”. Interessante il dato proveniente dall'analisi del “Battiquorum” su facebook che alla mezzanotte del 12 giugno, su un totale di 3 milioni e 635 mila utenti circa, dava il 65% come indifferente, cioè la famosa massa grigia che non vota, il 21,8% formata da attivisti pro referendum, mentre appena il 12,4% addirittura contrario. Morale della favola, il paese reale è risultato ben più avanti rispetto allo stesso popolo di facebook, che pure rappresenta oggi un termometro socio-culturale del quale qualunque nuova forma di politica non potrà non tener conto.
L'affluenza del 57%, circa 29 milioni di elettori, e le percentuali tra il 94% e il 96% dei sì ai quesiti sono già storia. Anche in questo caso la maggiore affluenza è al Nord, con le regioni Trentino (64,6%), Emilia Romagna (64%), Toscana (63,5%), Marche (61%), con le città Firenze (67%), Bologna (66%), Trento e Bolzano (65%), Torino (61%), Venezia, Genova e Ragusa (60%), Roma (59%). Le più basse percentuali invece confermano un Sud più pigro, con la regione Calabria 50% e le città di Crotone (45%), Catania, Reggio Calabria, Foggia (49%), Caserta e Palermo (50%).
Donne, giovani, precari, studenti, credenti e non, Nord più consapevole e Sud critico, tutti protagonisti di un referendum che è in perfetta continuità con i referendum storici e che ha tutto il diritto di entrare nella storia della democrazia partecipativa del nostro paese. Emerge, infatti, ancora una volta, un chiaro dato che è ormai una costante: la richiesta da parte della società di partecipazione e di apertura sul versante dei diritti e della difesa dell'ambiente. Saprà stavolta la sinistra all'opposizione incanalare e dar voce a queste diffuse trasversali spinte progressiste?
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Sui nuovi referendum. Rimaniamo dentro la storia
(Archivio Alinari)
Vorrei condividere con voi un semplice ragionamento sul significato dei referendum abrogativi e sul quorum, partendo dalla storia.
Non tutti sanno che l'istituto del referendum in Italia è stato approvato nel 1970, subito dopo l'entrata in vigore della legge sul divorzio, su spinta della chiesa e della democrazia cristiana proprio in funzione anti-divorzista.
Non si immagini, dunque, che a impugnare l'utilizzo di questa nuova arma popolare fosse un giovane rivoluzionario e o un provetto masaniello. Era stato, molto più sommessamente, un alto prelato, un monsignore, per la prima volta ("L'Italia", 17 aprile 1966), ad avanzare la proposta che si interpellasse direttamente il popolo per decidere sul divorzio, l'unico in grado, a suo avviso, di prendere una posizione netta su una tematica così delicata.
Cosa accadde al primo referendum abrogativo della storia d'Italia , nel 1974, (altro conto è quello arci-noto tra monarchia e repubblica) è risaputo: vittoria schiacciante del fronte divorzista, amara sconfitta per democristiani e chiesa, inizio del processo di secolarizzazione anche in Italia. E' interessante sottolineare però, ai fini del nostro discorso, la percentuale dei votanti a quel primo referendum: qualcosa di assolutamente impensabile oggi, cioè a dire votarono in 33 milioni e 29 mila cittadini (su 39 milioni iscritti nelle liste), cifra pari addirittura all'88,1%.
Il secondo importante appuntamento referendario (c'era stato nel frattempo quello del 1978 sul finanziamento pubblico ai partiti, che aveva visto un quorum del 81,2% e la vittoria del "no") fu organizzato e monopolizzato anche stavolta dai movimenti cattolici per tentare di abrogare la legge sull'aborto: ad aizzare le masse, in quel caso, non furono esponenti dei radicali o giovani estremisti, come si potrebbe credere parlando vagamente del tema "referendum popolari", ma fu piuttosto un ex giudice, presidente del Movimento per la vita. Quella volta votarono il 79,6% degli aventi diritto, con un'alta partecipazione di credenti che disattesero le indicazioni delle alte gerarchie ecclesiastiche, un dato in calo rispetto alla tornata precedente, che confermarono la validità della legge, dando un colpo mortale al tentativo di Comunione e Liberazione e Mpv di riaggregare il mondo cattolico intransigente. Già in quell'occasione, dove si erano accorpati al referendum sull'aborto anche altri quesiti (come ordine pubblico ed ergastolo), i più avvertiti tra gli esponenti dei radicali fecero autocritica per un utilizzo dello strumento referendario totalmente travisato rispetto alle origini: la strategia dei pacchetti referendari espressi in modo poco chiaro e difficilmente assimilabile dall'opinione pubblica, gestiti peraltro fuori dalle elezioni politiche, con enorme spreco di denaro pubblico, appariva totalmente errata.
Il calo della percentuale dei votanti al referendum proseguì imperterrita nel 1985 con il referendum sulla scala mobile (77,9%), nel 1987 su responsabilità civile dei giudici e nucleare (65,1%), ma il quorum era stato comunque sempre raggiunto fino a quel momento. Il motivi erano, evidentemente, l'uso di argomenti chiari e la mobilitazione dei partiti e dei movimenti presenti nel paese.
A partire dal 1990 in poi la cosiddetta strategia dei pacchetti referendari, proseguita dai radicali, portò ad un utilizzo smodato e indiscriminato dell'istituto, su problematiche come la caccia, la riduzione dei deputati, le droghe, l'abrogazione di ministeri, le concessioni televisive, gli orari degli esercizi commerciali, l'obiezione di coscienza, le carriere dei magistrati, l'ordine dei giornalisti, etc, tutti argomenti che avrebbero dovuto essere risolti, se il parlamento avesse funzionato regolarmente come in qualunque altro paese civile, attraverso leggi ordinarie.
Il calo dei votanti fu, tornata per tornata, continuo e progressivo: dal 43% del 1990 al 30% del 1997, dal 49% del 1999 al 32,2% del 2000. Fino a toccare il fondo, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita del 2005, quando la chiesa e molti partiti di governo (ma non solo) avevano consigliato l'astensionismo, per cui andavano a votare solamente il 25% degli italiani. E il distacco dalla politica era confermato ancora nel 2009 con un calo ulteriore dei votanti al 23% in occasione dei quesiti tutti tecnici sulle liste elettorali.
Ma veniamo all'oggi. Questo appuntamento referendario, per la tipologia dei quesiti (nucleare, acqua pubblica, giustizia), per il percorso politico che lo ha preceduto, per la mobilitazione che, soprattutto in questi ultimi giorni, ha suscitato nella popolazione, sembra rientrare, di diritto, nella storia originaria e gloriosa dell'istituto del referendum abrogativo. Con la differenza che, stavolta, le forze popolari e anche i partiti, che li hanno promossi, non sono la chiesa e i movimenti cattolici intransigenti, ma piuttosto sono quei movimenti che hanno fatto sentire fortemente la propria voce in occasione, negli ultimi tempi, contro i provvedimenti del governo, contro le "uscite" del premier, e infine, durante la campagna elettorale per le ultime amministrative. Si tratta di un blocco sociale ricomposto, di una spinta popolare proveniente dal basso, con grandi protagonisti i giovani e le donne, che ha costretto, incredibilmente, i partiti di opposizione ad accodarsi, a non bloccare o smorzare come al solito l'entusiasmo, insomma si tratta di una novità per la storia recente del nostro paese. Una novità che però ha almeno tre importantissimi e gloriosi precedenti storici: le vittorie dei movimenti progressisti, laici e cattolici, in occasione dei referendum su divorzio (1974), aborto (1981) e nucleare (1987).
A questo punto è doveroso un appello a tutti. In quelle occasioni storiche il quorum fu, come ho già accennato, rispettivamente, dell'87%, del 79% e del 65%. Facciamo in modo di rimanere dentro la storia e facciamo sì che, anche questa volta, il quorum sia raggiunto e diventi una spinta propulsiva e incontenibile verso il (peraltro già vicino e ormai auspicabile) cambiamento di questo nostro paese.
A ferragosto, qualche pensiero su questa politica
Dopo aver trascorso una ventina di giorni a "disintossicarmi" da un certo ordine di problemi, come la politica e le prime pagine dei giornali, che ci coinvolge in prima persona per ovvi motivi, non solo come cittadini ma anche come osservatori della società contemporanea, mi preme sottoporre all'attenzione degli amici alcune brevi osservazioni sull'evolversi della situazione del nostro paese. E visto che ormai di centro-destra, dopo gli scandali, le denunce e gli scontri all'ultimo sangue, si parla sempre, è forse più utile concentrarsi per un attimo sulla situazione del centro-sinistra, e in particolare, del suo partito più consistente elettoralmente, ovvero il Pd. Affrontando almeno due aspetti: la selezione della sua classe dirigente e del suo leader e la stesura di un programma davvero di sinistra alternativo e convincente. A questo punto però va fatta una premessa di carattere generale. E riguarda la questione che si pone : andare o meno, quanto più rapidamente, alle elezioni anticipate. Berlusconi e Bossi le sbandierano per impaurire i settori più moderati dell'opposizione, Di Pietro, Vendola e le sinistre più radicali le invocano per fare una sorta di pulizia generale affidata agli elettori. In mezzo a questi ci sta tutto un mondo, una sorta di palude, che vuole invece cercare il modo di evitarle o comunque di posticiparle per traghettare il paese verso le riforme, verso una ripresa economica e per far vivacchiare ancora per qualche tempo i propri parlamentari (diciamolo pure!). E in questa prospettiva i vertici del Pd, contando sulla imparzialità istituzionale della Presidenza della Repubblica, spinta per dovere costituzionale a sondare qualsiasi ipotesi fattibile prima di sciogliere le camere, hanno proposto la carica di una Presidenza del Consiglio di transizione o di "responsabilità nazionale", come si usa dire di recente, prima a Tremonti, poi a Casini, a Draghi, a Montezemolo, e chi più ne ha più ne metta.
Andare a elezioni anticipate in questa situazione, senza aver modificato quantomeno la legge elettorale, appare un grande rischio, perché Berlusconi, puntando tutto sull'enorme disparità mediatica, potrebbe trasformare la campagna elettorale, come al solito, in un plebiscito a suo favore, e peraltro nell'ipotesi di tre grandi coalizioni (o anche di più), rischierebbe davvero di prendere tutto con un jolly (cioè a dire di nuovo il governo), per una manciata di voti a suo favore. Però è anche vero che non appare fattibile una nuova legge elettorale senza l'avallo di gruppi parlamentari consistenti numericamente come il Pdl e la Lega.
Quindi l'idea di un governo tecnico per modificare la legge appare anch'essa poco percorribile.
A questo punto rimarrebbe una soluzione più sbrigativa in termini temporali e probabilmente anche più chiara per gli elettori. Non è necessario infatti che si formi un governo tecnico per fare una nuova legge elettorale, ma basterebbe che un'opposizione unita e compatta, compresi i casiniani, i rutellini e ora anche i finiani, si mettesse d’accordo sulla proposta di un semplice disegno di legge, chiedendone la discussione parlamentare. In tal modo i berlusconiani e i bossiani sarebbero costretti ad opporsi in parlamento, si aprirebbe una crisi vera, la gente saprebbe finalmente come stanno le cose e chi si oppone davvero al cambiamento politico, e così si arriverebbe a una fase che potrebbe portare o alla formazione di un governo tecnico, però con un chiaro mandato, ovvero quello di modificare la legge elettorale (cosa molto più probabile tenuto conto della volontà della presidenza della repubblica) oppure al voto senza se e senza ma. In entrambi i casi però il ruolo che assumerebbe la posizione del Pd diventa di cruciale importanza. A prescindere, infatti, dalle due possibili soluzioni alternative, il Pd dovrebbe, a partire da oggi, cioè a dire da ferragosto, anziché bivaccare in spiaggia, pensando a possibili inciuci autunnali o, come amano tanto D'Alema e Casini, cioè a tessere nell'ombra dialogando con poteri più o meno forti, stabilire finalmente una linea coerente e chiara. La parola chiave è mobilitazione: andare a cercare le persone porta a porta, martellare su tutti i giornali, in rete, in tv (per quanto possibile), coinvolgere, chiamando a raccolta tutta quella gente (che è davvero tanta ormai) che ne ha le scatole piene di queste beghe del centro-destra e di questo modo di mal-governare sulla testa dei cittadini.
Un grande partito come il Pd dovrebbe, per il patrimonio culturale e politico che ha ereditato, formulare un programma sintetico, chiaro e coerente di sinistra, e non pensare esclusivamente a garantirsi la rielezione dei propri dirigenti, eletti peraltro senza l'approvazione dei propri elettori ma dall'alto, in perfetto stile berlusconiano. Dovrebbe, in primis, mettere al centro della propria azione politica di contrasto e di alternativa inequivocabile a questo governo alcuni punti-chiave. In parte lo sta iniziando a fare, come sul tema della legalità (qui sollecitato dal gruppo di Repubblica e da alcuni magistrati avvertiti, pungolato poi da quello che è il cavallo di battaglia di Di Pietro). O come sul tema del lavoro, sollecitato soprattutto da Vendola. O ancora come sul tema del federalismo e della politica economica, spinto da Chiamparino. Tutte queste personalità insieme, cioè a dire Di Pietro, Vendola, Chiamparino, Bersani, rappresentano, ognuno nel suo modo specifico, più o meno condivisibile singolarmente, ma comunque delle risorse formidabili, da valorizzare imprescindibilmente attraverso le primarie. Come ha sostenuto intelligentemente Pasquino (studioso ed ex parlamentare della Sinistra indipendente tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, argomento che sto studiando in questi ultimi mesi) sarebbe auspicabile che il Pd utilizzasse le primarie non solo per scegliere il leader, ma anche per la selezione dei suoi candidati in parlamento (da indire in maniera selettiva e in casi particolari, per esempio quando secondo gli elettori un parlamentare ha fatto male il suo lavoro nel precedente mandato), abbandonando il metodo della scelta pilotata dai più importanti dirigenti e basata esclusivamente se non sulla parentela, quantomeno sulla simpatia, sul tempo della militanza (cioè a dire più francobolli hai attaccato da giovane per il partito più hai possibilità di farti candidare) , elementi che non sono certo garanzia di un gruppo parlamentare competente e adeguato (neppure organizzare centri studi, istituti culturali, campi estivi e fondazioni varie si è dimostrato, dalla storia del pds in poi, un metodo efficace di formazione della classe dirigente). Insomma un partito degno di questo nome dovrebbe comunicare con i propri elettori (reali, potenziali, quindi quelli che si sono astenuti, e anche con gli elettori delusi dell'avversario) attraverso la formulazione di un programma, la diversificazione delle idee e la loro promozione da parte dei diversi candidati,
e poi attraverso il metodo conclusivo della scelta attraverso le primarie. Semplicemente questo e null'altro esso dovrebbe fare.
Infine, qualcosa di più sul programma. A parte i già citati punti imprescindibili, cioè legalità, questione morale, lavoro e politica economica, occorrerebbe aggiungere almeno due ordini di problemi: beni comuni e diritti civili. Su questo terreno dovrebbe giocarsi la demarcazione forte rispetto al futuro centro-destra. Come ha sottolineato argutamente Rodotà (altro insigne studioso e anch'egli ex parlamentare della Sinistra indipendente), i beni comuni appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive, perchè patrimonio dell'umanità: acqua, energia, conoscenza (internet ma non solo). I diritti civili, quindi l'uguaglianza tra coppie sposate e di fatto, tra eterosessuali e omosessuali, il ricorso eventuale alla pillola abortiva, la fecondazione assistita, la possibilità di morire in certi casi limite secondo la propria volontà, etc. rappresentano elementi decisivi e cruciali in una società del futuro auspicabilmente più democratica. Il dibattito è aperto, si tratta semplicemente di iniziare a coinvolgere su queste problematiche, con il porta a porta, stanando la gente dal suo torpore a dal suo pessimismo, organizzando incontri e tavole rotonde, richiamando più persone possibile, in modo da sensibilizzarle, da renderle partecipi di scelte che determineranno le loro stesse sorti e soprattutto quelle dei propri figli. Diamoci dentro, dunque, e ritroviamoci al più presto, insieme, alle prossime battaglie di democrazia.
Buon ferragosto e buon proseguimento di estate a tutti.
(Archivio personale)
Politica e società civile. I cattolici, la sinistra e il berlusconismo
Dopo le esortazioni degli intellettuali durante un recente convegno fiorentino sul berlusconismo (“Società e Stato nell’èra del berlusconismo”), sembra essersi finalmente svegliata quell’opinione pubblica virtuosa finora costretta quasi ad agire nell’ombra, senza alcuna visibilità mediatica. Viene alla luce quella sorta di “piazza pubblica” formata da cittadini critici e vigili sulle regole della democrazia, disposti a impegnarsi attivamente, nei rispettivi ambiti, per assumere comportamenti consapevoli e buone pratiche in una società sempre più globale. Firenze ritorna ad essere, per qualche momento, quel punto di incontro cruciale, culturale e politico, che fu ai tempi del sindaco La Pira. Pochi giorni dopo il convegno si è svolto, infatti, sempre a Firenze, il congresso fondativo di Sel, dove il discorso evocativo di Vendola è emerso come un tentativo di rispondere e reagire alla cultura imperante del berlusconismo.
Dalle riflessioni degli studiosi appare chiaro il significato del berlusconismo. Berlusconi rappresenta l’effetto e non la causa dell’attuale situazione politica. La conseguenza di tre elementi: dal punto di vista istituzionale, la crisi del sistema liberal-democratico; in ambito politico-sociale, il prosieguo del craxismo e dell’affarismo democristiano; culturalmente, la diffusione del consumismo esasperato e la crescita smisurata del ruolo della televisione. Il fenomeno invece è il frutto di un sistema in cui la volontà popolare non è più stata in grado di esprimersi criticamente perché influenzata dal potere televisivo. A far da collante, il rapporto privilegiato con una parte del mondo cattolico. L’interesse della Chiesa è sempre stato la tutela dei suoi privilegi materiali (le finanze, il regime fiscale, l’esercizio di attività nel settore dell’assistenza), con tutte le sue ramificazioni (dalla sanità all’istruzione). Su questi punti l’appoggio del berlusconismo è stato netto: dall’esenzione Ici per gli edifici ecclesiastici, ai finanziamenti alle scuole private, fino al ruolo degli insegnanti di religione. Anche sul fronte del diritto alla vita e della bioetica, le garanzie sono state evidenti. Ad un certo punto però l’idillio sembra essersi interrotto. Come è accaduto altre volte nella storia d’Italia, l’abbandono da parte della Chiesa dell’appoggio a un regime o a un partito è anch’esso più un preannuncio che una causa del suo crollo. Dopo le posizioni prese da Avvenire e da Famiglia Cristiana, è partita dal mondo cattolico, nella sua base ecclesiale, ma anche in quella sociale, una parvenza di sfida al berlusconismo. Si tratta di capire che ruolo e che impegno questa sorta di “galassia cattolica inquieta” sarà in grado di fornire.
Una parte degli italiani è consapevole di questa situazione, dell’indebolimento delle istituzioni dello Stato e delle sue leggi, così come della eccessiva frammentazione dei partiti di opposizione. Al di là dei sondaggi, basta guardarsi intorno per capire come la crisi della politica abbia ormai superato il limite di guardia, giungendo ad un punto tale da rischiare il tracollo, andando oltre il fenomeno dell’anti-politica e dell’astensionismo.
Rispetto al passato il berlusconismo appare, per certi versi, ripetitivo, ma per altri sembra essersi incattivito. Ha portato alle estreme conseguenze i suoi caratteri: il decisionismo diventato autoritarismo, il culto della personalità e del successo, il populismo, il disprezzo per la carta costituzionale, l’annichilimento del parlamento, l’attacco alla giustizia, il maschilismo, l’incitamento all’odio per il fisco, per la cultura, per la diversità, fino a vere e proprie forme xenofobe, ai limiti del razzismo, nei confronti della popolazione immigrata (fomentato dalla Lega). La crisi della politica tradizionale si è intrecciata con l’affermarsi dei suoi tratti più deleteri: la spettacolarizzazione e la banalizzazione dei contenuti, che hanno avuto come strumento cruciale di propaganda la televisione. A questo si è unita la disgregazione sociale dei ceti medi, dovuta non solo alla globalizzazione ma anche all’incertezza nata dal cambiamento dei rapporti tra lavoratori e imprese. L’appoggio che il berlusconismo ha dato ad una parte dei ceti medi del lavoro autonomo (con agevolazioni fiscali, condoni) a spese del lavoro dipendente e del mondo della cultura ha portato ad un’alta conflittualità sociale. Questa appare anche la logica conseguenza dell’affermarsi dell’individualismo proprietario dei ceti emergenti rampanti, che non ha paragoni in Europa, frutto della squilibrata redistribuzione della ricchezza, con il doppio regime fiscale e la mortificazione economica del lavoro dipendente, e risultato dell’ideale consumistico sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 ed oggi entrato in piena crisi di identità.
Di fronte a tutto ciò, il grave errore commesso dall’opposizione è quello di marciare in ordine sparso: riformisti, radicali e cattolici hanno rivendicato le proprie ragioni di esistere, marcando le proprie differenze, finendo per risultare rissosi e velleitari agli occhi dell’elettorato, lasciando soli i soggetti più deboli, mentre sarebbe più opportuno pensare a un vasto, e non obbligatoriamente omogeneo, movimento di forze reali, partiti e gruppi, una rete di istanze e associazioni collegate dal basso, che facciano però riferimento ad una guida unitaria da eleggersi attraverso il meccanismo delle primarie, che rispetti le specifiche caratteristiche dei diversi partecipanti, ma che non inglobi le diversità e le rivitalizzi in un progetto politico e culturale nuovo, con un programma di governo alternativo ed efficace.
Proprio in contrapposizione a certi metodi di corruzione eletti ormai smaccatamente a sistema, senza più alcuna ipocrisia, sta emergendo nel Paese, seppure ancora in forma minoritaria, una forte percezione della questione morale, un’ansia di pubblica moralità, soprattutto nei giovani, tali da mettere in moto, se guidate e incanalate correttamente, un processo di contrasto alla spregiudicatezza e alla disinvoltura morale di cui fornisce prova il cosiddetto Palazzo. È questo uno dei segni più interessanti dell’azione di lungo periodo iniziata con la storia dei movimenti negli anni ‘70, proseguita durante il processo di secolarizzazione della società italiana (col contributo di una parte considerevole dei cattolici all’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto), nella battaglia di democrazia vinta contro il terrorismo di destra e di sinistra, nella parentesi di Tangentopoli contro la partitocrazia, nella lotta alla mafia e a tutte le forme, vecchie e nuove, di criminalità organizzata. E che è proseguita fino ad oggi, contro le leggi ad personam, il conflitto di interessi, la censura nei servizi di informazione pubblica. Esistono tanti giovani pronti a battersi perché la concezione utilitaristica e opportunistica della politica siano respinte, a partire dalle concrete responsabilità di ognuno nella vita quotidiana; giovani che rifiutano tutti i metodi non trasparenti, clientelari, familistici, tutte le zone grigie che si insinuano tra potere pubblico e poteri privati e che si sforzano, nella loro difficile esistenza, di rispettare le regole. Le virtù critiche e laiche di una parte della società italiana, un tempo maggioritarie, adesso non più perché sopite da anni di grigio conformismo, possono suscitare una reazione capace di incidere sugli orientamenti collettivi e destinata col tempo a crescere e a diventare maggioritaria. È necessario che in questo processo siano protagonisti laici, riformisti, radicali e cattolici, in un luogo in cui contino le competenze, la conoscenza e la professionalità e non la militanza burocratica e l’adesione acritica ai rispettivi leader o partiti di riferimento. Senza la politica, una politica completamente rinnovata ma forte, organizzata, creativa, senza un progetto culturale di ampio respiro, che coinvolga mondo laico e mondo cattolico, partiti e società civile, sarà impossibile costruire una reale alternativa sociale e culturale, in tempi brevi, al berlusconismo. È questa invece la vera nuova rivoluzione a cui ognuno è chiamato per fermare
la deriva a cui sta andando inesorabilmente incontro il nostro Paese.
(Tratto da: “Adista - Segni nuovi”, n. 87)
(Archivio Alinari)
Motivi per cui l'attacco alla costituzione avrà vita durissima
Le riflessioni che seguono sono il frutto di una rielaborazione (e anche di una inevitabile semplificazione) di alcuni scritti di tre grandissimi giuristi, Piero Calamandrei, Paolo Barile e Stefano Rodotà, ai quali rimando per una lettura proficua e intelligente sulla Costituzione, ma non solo. Alla luce dei vari eventi e incontri organizzati in questi ultimi giorni in tutta Italia, e in particolare anche a Firenze, in difesa della Costituzione, può essere utile condividere qualsiasi contributo critico che vada in questa direzione.
* * *
Visto che proseguono gli attacchi alla Costituzione su più fronti è bene fare un po' di chiarezza sulla sua attualità e importanza, con qualche pezza di appoggio storica e giuridica. Il tentativo di modificare la Costituzione (nella fattispecie la seconda parte) è stato fatto già nel 2006 dal centro-destra e si è scontrato con l'opposizione della maggioranza, per l'esattezza il 61%, del popolo italiano,
andato alle urne per il referendum.
Va subito detto, a scanso di equivoci e proprio per non sembrare nostalgici del passato o anche conservatori, che la Costituzione italiana, in se stessa, non è immodificabile. Attraverso l'art. 138 essa può essere cambiata e aggiornata. Però va specificato che con l'art. 138 si può soltanto emendare in parte la Costituzione, quindi non la si può modificare per intero e soprattutto non in relazione ad alcuni principi fondamentali, i principi supremi come vengono chiamati dalla Corte costituzionale, che li ha dichiarati intoccabili. Per esempio si può modificare la forma di governo, ma non certo la forma di stato. E' importante capire che questi principi fondamentali, a differenza di quello che sostengono in tanti, non si trovano solo nella prima parte della Costituzione, laddove si parla di libertà individuale e diritti sociali, ma anche nella seconda parte (per esempio sul ruolo del presidente della repubblica o dei giudici della corte costituzionale).
Con l'art. 138, allora, si potrebbero ampliare alcune norme contenute nella Costituzione: altro che passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, ma piuttosto, modifica dell'art. 21 relativo alla libertà di espressione del pensiero, come ha argutamente affermato Barile. Infatti, per esempio si potrebbe ricordare che, quando fu approvata la carta costituzionale cioè nel 1948, non esisteva la televisione, per cui quell'articolo fa riferimento solo alla stampa e non, invece, ai mass-media, che hanno acquisito un sempre maggiore potere nella società moderna. Per esempio, un parlamento serio e civile dovrebbe garantire nella massima legge dello stato, come ha sostenuto in più occasioni la Corte costituzionale, il pluralismo delle voci (altro che leggina sul conflitto di interessi). Questo sarebbe un esempio di modifica costruttiva della Costituzione. Sempre più spesso, oggi, sui giornali, ma anche tra la gente, in piazza o al bar, quando si parla di costituzione la si definisce o troppo vecchia, o si dice che va rivista, e che è stata il frutto di un compromesso, usando questa parola con un certo disprezzo. Si parla, per esempio, di norme di compromesso per dire che la proprietà privata è garantita ma con troppi limiti (art. 42), si dice che l'iniziativa privata (delle imprese in particolare) è libera ma con troppe limitazioni (art. 41). In realtà, e a ben guardare, si tratta di norme non limitanti o contraddittorie ma di equilibrio e sensatezza.
Non è un caso che la nostra Costituzione è stata imitata in tanti paesi europei per la sua istanza garantista ed è considerata all'avanguardia per molti articoli (per esempio quello sulla tutela della cooperazione sociale). Più che di compromesso deleterio e vecchio si dovrebbe parlare di grande patto tra le forze politiche del passato a tutela del cittadino di allora e anche di quello di oggi, con una base di valori di altissima moralità. Inoltre finché certi articoli (in questi giorni viene in mente proprio l'art.1, cioè l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro) non saranno concretamente attuati e realizzati, la Costituzione non sarà mai vecchia ma anzi sarà sempre viva, finchè ci sarà soltanto una uguaglianza di diritto tra i cittadini e non di fatto, la costituzione servirà come bussola di orientamento. Essa è infatti, per certi versi, come ha detto Calamandrei, non una realtà ma un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.
Ma veniamo adesso agli attacchi. Berlusconi e il suo governo attaccano la Costituzione in tanti modi (per esempio esautorando completamente il parlamento e governando per decreto-legge, attaccando ad ogni occasione la magistratura) ma il loro sogno rimane quello di trasformare l'Italia in una repubblica presidenziale da lui guidata. E' beninteso che in una repubblica presidenziale i membri del governo non sarebbero responsabili di fronte al parlamento come invece accade in una repubblica parlamentare (ma anche questo è un concetto che funziona in teoria ma che in Italia di recente appare quasi un'utopia), ma essi sono dei semplici funzionari del presidente eletto dal popolo. Negli Stati Uniti è così. In Francia, invece, il presidente della repubblica è, sì, eletto dal popolo, ma fa parte di un governo che è un governo parlamentare, quindi è pur sempre quest'ultimo, in sostanza, il capo dell'esecutivo. Nel caso di un passaggio ad una repubblica presidenziale all'americana andrebbe cambiata per intero la Costituzione, perchè il presidente della repubblica attualmente ha solo una funzione di garanzia e non di indirizzo politico del governo. E ciò non è possibile costituzionalmente. Anche nel caso di una trasformazione in una repubblica presidenziale alla francese la nostra costituzione dovrebbe subire mutamenti molto profondi: infatti non sarebbe sufficiente modificarla con l'art. 138 perchè si tratterebbe di un cambiamento di forma di stato e non di forma di governo. Inoltre, se il parlamento, come in molti chiedono, facesse una legge costituzionale che prevede l'elezione di una nuova assemblea costituente, compirebbe un atto palesemente in contrasto con l'art. 138, sarebbe dunque una violazione della costituzione stessa. A questo proposito, è utile ricordare prendendo in prestito le parole di Rodotà, che la Costituzione non appartiene più al parlamento, visto che di ogni legge in corso di discussione ci si chiede se il presidente della repubblica la firmerò o no, quali siano i rischi di una dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, in poche parole i custodi della Costituzione sono altrove, oltre al fatto che essa sembra essere stata degradata ad una qualsiasi altra legge ordinaria.
Il secondo pericoloso attacco alla Costituzione è quello di Bossi e della Lega che provano a demolirla costantemente sul fronte dell'unità del paese e del federalismo (si è perfino tornati a parlare, di recente, cavalcando la vecchia tigre, di secessione). E' bene che i leghisti se ne facciano una ragione. La Costituzione prevede uno stato regionale e non federale. Chi parla di federalismo prefigura uno stato che da regionale dovrebbe trasformarsi in federale. Esso, in realtà, andando oltre la simbolica propaganda leghista, non sarebbe poi così diverso da quello regionale. In altre parole, si potrebbe fare in modo che il regionalismo attuato in modo insoddisfacente (dal 1970) e previsto fin dall'approvazione della Costituzione, venisse rivitalizzato e migliorato. Per fare ciò occorre però capovolgere l'art. 117, stabilendo alcune materie precise di esclusiva pertinenza dello stato e dando il resto, cioè quasi tutto, alle regioni. Per giungere a questa riforma si può scegliere il percorso della revisione dell'art. 138, attraverso la divisione tra potere di revisione e potere costituente normalmente accettata, modificando la forma di governo ma non mai quella dello stato.
Stando così le cose si evince che l'art. 138 non permette di attuare il federalismo nello stato italiano, ma solo di potenziare il ruolo delle regioni, per esempio, sullo scottante problema delle imposte e quindi del paventato federalismo fiscale (ma solo tenendo ben presente i costi complessivi di una tale riforma e pesando vantaggi e svantaggi per le diverse regioni).
In definitiva, con buona pace di Berlusconi, Bossi e rispettivi elettorati, l'attuale Costituzione italiana non permette nè il passaggio ad una repubblica presidenziale, nè il passaggio ad uno stato federale. Se è dunque vero che il popolo italiano, a maggioranza schiacciante, ha stabilito di recente, nel 2006, e non certo secoli o decenni fa, che l'attuale Costituzione non va modificata nè tanto meno rivoluzionata o smembrata, allora, per la stessa legge della maggioranza a cui tanto spesso si richiamano i suddetti personaggi per dare peso ai proprio progetti politici, toccherà che l'attuale centro-destra al governo se ne faccia al più presto una ragione e non insista su propositi quantomeno stravaganti costituzionalmente. A meno che non ci sia seriamente la volontà (e in tal caso nessuno dell'attuale maggioranza di governo potrebbe chiamarsi fuori dalla responsabilità) di trasformare l'italia in uno stato autoritario, nel senso di voler fare carta straccia dei più importanti principi regolatori della vita del paese. Siccome sembra di percepire un certo smarrimento o comunque una mancanza di verve e di coraggio da parte dei partiti di opposizione, in generale ma anche su questo argomento così importante e decisivo, per questi e per tanti altri motivi, occorre oggi più che mai vigilare, individualmente e collettivamente, di fronte a qualsiasi anche piccolo e apparentemente limitato tentativo che vada in questa pericolosa direzione. Ecco perchè non ha molto senso dividersi, marciare in ordine sparso, per esempio andando a questa iniziativa in modo auto-referenziale piuttosto che ad un'altra, ma occorre invece unirsi tutti in difesa della Costituzione.
(Fonte Internet)