giudici

Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194

La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceit
à dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrit
à e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.

aborto3
(Archivio Alinari)

La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione pi
ù aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.

Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la pi
ù autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenit
à e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era pi
ù perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libert
à di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava cos
ì il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)

(Tratto da:
“Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “
L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)

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Politica e società civile. I cattolici, la sinistra e il berlusconismo

Dopo le esortazioni degli intellettuali durante un recente convegno fiorentino sul berlusconismo (“Società e Stato nell’èra del berlusconismo”), sembra essersi finalmente svegliata quell’opinione pubblica virtuosa finora costretta quasi ad agire nell’ombra, senza alcuna visibilità mediatica. Viene alla luce quella sorta di “piazza pubblica” formata da cittadini critici e vigili sulle regole della democrazia, disposti a impegnarsi attivamente, nei rispettivi ambiti, per assumere comportamenti consapevoli e buone pratiche in una società sempre più globale. Firenze ritorna ad essere, per qualche momento, quel punto di incontro cruciale, culturale e politico, che fu ai tempi del sindaco La Pira. Pochi giorni dopo il convegno si è svolto, infatti, sempre a Firenze, il congresso fondativo di Sel, dove il discorso evocativo di Vendola è emerso come un tentativo di rispondere e reagire alla cultura imperante del berlusconismo.
Dalle riflessioni degli studiosi appare chiaro il significato del berlusconismo. Berlusconi rappresenta l’effetto e non la causa dell’attuale situazione politica. La conseguenza di tre elementi: dal punto di vista istituzionale, la crisi del sistema liberal-democratico; in ambito politico-sociale, il prosieguo del craxismo e dell’affarismo democristiano; culturalmente, la diffusione del consumismo esasperato e la crescita smisurata del ruolo della televisione. Il fenomeno invece
è il frutto di un sistema in cui la volontà popolare non è più stata in grado di esprimersi criticamente perché influenzata dal potere televisivo. A far da collante, il rapporto privilegiato con una parte del mondo cattolico. L’interesse della Chiesa è sempre stato la tutela dei suoi privilegi materiali (le finanze, il regime fiscale, l’esercizio di attività nel settore dell’assistenza), con tutte le sue ramificazioni (dalla sanità all’istruzione). Su questi punti l’appoggio del berlusconismo è stato netto: dall’esenzione Ici per gli edifici ecclesiastici, ai finanziamenti alle scuole private, fino al ruolo degli insegnanti di religione. Anche sul fronte del diritto alla vita e della bioetica, le garanzie sono state evidenti. Ad un certo punto però l’idillio sembra essersi interrotto. Come è accaduto altre volte nella storia d’Italia, l’abbandono da parte della Chiesa dell’appoggio a un regime o a un partito è anch’esso più un preannuncio che una causa del suo crollo. Dopo le posizioni prese da Avvenire e da Famiglia Cristiana, è partita dal mondo cattolico, nella sua base ecclesiale, ma anche in quella sociale, una parvenza di sfida al berlusconismo. Si tratta di capire che ruolo e che impegno questa sorta di “galassia cattolica inquieta” sarà in grado di fornire.
Una parte degli italiani
è consapevole di questa situazione, dell’indebolimento delle istituzioni dello Stato e delle sue leggi, così come della eccessiva frammentazione dei partiti di opposizione. Al di là dei sondaggi, basta guardarsi intorno per capire come la crisi della politica abbia ormai superato il limite di guardia, giungendo ad un punto tale da rischiare il tracollo, andando oltre il fenomeno dell’anti-politica e dell’astensionismo.
Rispetto al passato il berlusconismo appare, per certi versi, ripetitivo, ma per altri sembra essersi incattivito. Ha portato alle estreme conseguenze i suoi caratteri: il decisionismo diventato autoritarismo, il culto della personalit
à e del successo, il populismo, il disprezzo per la carta costituzionale, l’annichilimento del parlamento, l’attacco alla giustizia, il maschilismo, l’incitamento all’odio per il fisco, per la cultura, per la diversità, fino a vere e proprie forme xenofobe, ai limiti del razzismo, nei confronti della popolazione immigrata (fomentato dalla Lega). La crisi della politica tradizionale si è intrecciata con l’affermarsi dei suoi tratti più deleteri: la spettacolarizzazione e la banalizzazione dei contenuti, che hanno avuto come strumento cruciale di propaganda la televisione. A questo si è unita la disgregazione sociale dei ceti medi, dovuta non solo alla globalizzazione ma anche all’incertezza nata dal cambiamento dei rapporti tra lavoratori e imprese. L’appoggio che il berlusconismo ha dato ad una parte dei ceti medi del lavoro autonomo (con agevolazioni fiscali, condoni) a spese del lavoro dipendente e del mondo della cultura ha portato ad un’alta conflittualità sociale. Questa appare anche la logica conseguenza dell’affermarsi dell’individualismo proprietario dei ceti emergenti rampanti, che non ha paragoni in Europa, frutto della squilibrata redistribuzione della ricchezza, con il doppio regime fiscale e la mortificazione economica del lavoro dipendente, e risultato dell’ideale consumistico sviluppatosi a partire dagli anni ‘80 ed oggi entrato in piena crisi di identità.
Di fronte a tutto ci
ò, il grave errore commesso dall’opposizione è quello di marciare in ordine sparso: riformisti, radicali e cattolici hanno rivendicato le proprie ragioni di esistere, marcando le proprie differenze, finendo per risultare rissosi e velleitari agli occhi dell’elettorato, lasciando soli i soggetti più deboli, mentre sarebbe più opportuno pensare a un vasto, e non obbligatoriamente omogeneo, movimento di forze reali, partiti e gruppi, una rete di istanze e associazioni collegate dal basso, che facciano però riferimento ad una guida unitaria da eleggersi attraverso il meccanismo delle primarie, che rispetti le specifiche caratteristiche dei diversi partecipanti, ma che non inglobi le diversità e le rivitalizzi in un progetto politico e culturale nuovo, con un programma di governo alternativo ed efficace.
Proprio in contrapposizione a certi metodi di corruzione eletti ormai smaccatamente a sistema, senza pi
ù alcuna ipocrisia, sta emergendo nel Paese, seppure ancora in forma minoritaria, una forte percezione della questione morale, un’ansia di pubblica moralità, soprattutto nei giovani, tali da mettere in moto, se guidate e incanalate correttamente, un processo di contrasto alla spregiudicatezza e alla disinvoltura morale di cui fornisce prova il cosiddetto Palazzo. È questo uno dei segni più interessanti dell’azione di lungo periodo iniziata con la storia dei movimenti negli anni ‘70, proseguita durante il processo di secolarizzazione della società italiana (col contributo di una parte considerevole dei cattolici all’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto), nella battaglia di democrazia vinta contro il terrorismo di destra e di sinistra, nella parentesi di Tangentopoli contro la partitocrazia, nella lotta alla mafia e a tutte le forme, vecchie e nuove, di criminalità organizzata. E che è proseguita fino ad oggi, contro le leggi ad personam, il conflitto di interessi, la censura nei servizi di informazione pubblica. Esistono tanti giovani pronti a battersi perché la concezione utilitaristica e opportunistica della politica siano respinte, a partire dalle concrete responsabilità di ognuno nella vita quotidiana; giovani che rifiutano tutti i metodi non trasparenti, clientelari, familistici, tutte le zone grigie che si insinuano tra potere pubblico e poteri privati e che si sforzano, nella loro difficile esistenza, di rispettare le regole. Le virtù critiche e laiche di una parte della società italiana, un tempo maggioritarie, adesso non più perché sopite da anni di grigio conformismo, possono suscitare una reazione capace di incidere sugli orientamenti collettivi e destinata col tempo a crescere e a diventare maggioritaria. È necessario che in questo processo siano protagonisti laici, riformisti, radicali e cattolici, in un luogo in cui contino le competenze, la conoscenza e la professionalità e non la militanza burocratica e l’adesione acritica ai rispettivi leader o partiti di riferimento. Senza la politica, una politica completamente rinnovata ma forte, organizzata, creativa, senza un progetto culturale di ampio respiro, che coinvolga mondo laico e mondo cattolico, partiti e società civile, sarà impossibile costruire una reale alternativa sociale e culturale, in tempi brevi, al berlusconismo. È questa invece la vera nuova rivoluzione a cui ognuno è chiamato per fermare
la
deriva a cui sta andando inesorabilmente incontro il nostro Paese.
(Tratto da:
“Adista - Segni nuovi”, n. 87)
berlusconicraxi
(Archivio Alinari)

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Motivi per cui l'attacco alla costituzione avrà vita durissima

Le riflessioni che seguono sono il frutto di una rielaborazione (e anche di una inevitabile semplificazione) di alcuni scritti di tre grandissimi giuristi, Piero Calamandrei, Paolo Barile e Stefano Rodotà, ai quali rimando per una lettura proficua e intelligente sulla Costituzione, ma non solo. Alla luce dei vari eventi e incontri organizzati in questi ultimi giorni in tutta Italia, e in particolare anche a Firenze, in difesa della Costituzione, può essere utile condividere qualsiasi contributo critico che vada in questa direzione.

* * *

Visto che proseguono gli attacchi alla Costituzione su più fronti è bene fare un po' di chiarezza sulla sua attualità e importanza, con qualche pezza di appoggio storica e giuridica. Il tentativo di modificare la Costituzione (nella fattispecie la seconda parte) è stato fatto già nel 2006 dal centro-destra e si è scontrato con l'opposizione della maggioranza, per l'esattezza il 61%, del popolo italiano,
andato alle urne per il referendum.

Va subito detto, a scanso di equivoci e proprio per non sembrare nostalgici del passato o anche conservatori, che la Costituzione italiana, in se stessa, non
è immodificabile. Attraverso l'art. 138 essa può essere cambiata e aggiornata. Però va specificato che con l'art. 138 si può soltanto emendare in parte la Costituzione, quindi non la si può modificare per intero e soprattutto non in relazione ad alcuni principi fondamentali, i principi supremi come vengono chiamati dalla Corte costituzionale, che li ha dichiarati intoccabili. Per esempio si può modificare la forma di governo, ma non certo la forma di stato. E' importante capire che questi principi fondamentali, a differenza di quello che sostengono in tanti, non si trovano solo nella prima parte della Costituzione, laddove si parla di libertà individuale e diritti sociali, ma anche nella seconda parte (per esempio sul ruolo del presidente della repubblica o dei giudici della corte costituzionale).
Con l'art. 138, allora, si potrebbero ampliare alcune norme contenute nella Costituzione: altro che passaggio da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, ma piuttosto, modifica dell'art. 21 relativo alla libert
à di espressione del pensiero, come ha argutamente affermato Barile. Infatti, per esempio si potrebbe ricordare che, quando fu approvata la carta costituzionale cioè nel 1948, non esisteva la televisione, per cui quell'articolo fa riferimento solo alla stampa e non, invece, ai mass-media, che hanno acquisito un sempre maggiore potere nella società moderna. Per esempio, un parlamento serio e civile dovrebbe garantire nella massima legge dello stato, come ha sostenuto in più occasioni la Corte costituzionale, il pluralismo delle voci (altro che leggina sul conflitto di interessi). Questo sarebbe un esempio di modifica costruttiva della Costituzione. Sempre più spesso, oggi, sui giornali, ma anche tra la gente, in piazza o al bar, quando si parla di costituzione la si definisce o troppo vecchia, o si dice che va rivista, e che è stata il frutto di un compromesso, usando questa parola con un certo disprezzo. Si parla, per esempio, di norme di compromesso per dire che la proprietà privata è garantita ma con troppi limiti (art. 42), si dice che l'iniziativa privata (delle imprese in particolare) è libera ma con troppe limitazioni (art. 41). In realtà, e a ben guardare, si tratta di norme non limitanti o contraddittorie ma di equilibrio e sensatezza.

Non
è un caso che la nostra Costituzione è stata imitata in tanti paesi europei per la sua istanza garantista ed è considerata all'avanguardia per molti articoli (per esempio quello sulla tutela della cooperazione sociale). Più che di compromesso deleterio e vecchio si dovrebbe parlare di grande patto tra le forze politiche del passato a tutela del cittadino di allora e anche di quello di oggi, con una base di valori di altissima moralità. Inoltre finché certi articoli (in questi giorni viene in mente proprio l'art.1, cioè l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro) non saranno concretamente attuati e realizzati, la Costituzione non sarà mai vecchia ma anzi sarà sempre viva, finchè ci sarà soltanto una uguaglianza di diritto tra i cittadini e non di fatto, la costituzione servirà come bussola di orientamento. Essa è infatti, per certi versi, come ha detto Calamandrei, non una realtà ma un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere.

Ma veniamo adesso agli attacchi. Berlusconi e il suo governo attaccano la Costituzione in tanti modi (per esempio esautorando completamente il parlamento e governando per decreto-legge, attaccando ad ogni occasione la magistratura) ma il loro sogno rimane quello di trasformare l'Italia in una repubblica presidenziale da lui guidata. E' beninteso che in una repubblica presidenziale i membri del governo non sarebbero responsabili di fronte al parlamento come invece accade in una repubblica parlamentare (ma anche questo
è un concetto che funziona in teoria ma che in Italia di recente appare quasi un'utopia), ma essi sono dei semplici funzionari del presidente eletto dal popolo. Negli Stati Uniti è così. In Francia, invece, il presidente della repubblica è, sì, eletto dal popolo, ma fa parte di un governo che è un governo parlamentare, quindi è pur sempre quest'ultimo, in sostanza, il capo dell'esecutivo. Nel caso di un passaggio ad una repubblica presidenziale all'americana andrebbe cambiata per intero la Costituzione, perchè il presidente della repubblica attualmente ha solo una funzione di garanzia e non di indirizzo politico del governo. E ciò non è possibile costituzionalmente. Anche nel caso di una trasformazione in una repubblica presidenziale alla francese la nostra costituzione dovrebbe subire mutamenti molto profondi: infatti non sarebbe sufficiente modificarla con l'art. 138 perchè si tratterebbe di un cambiamento di forma di stato e non di forma di governo. Inoltre, se il parlamento, come in molti chiedono, facesse una legge costituzionale che prevede l'elezione di una nuova assemblea costituente, compirebbe un atto palesemente in contrasto con l'art. 138, sarebbe dunque una violazione della costituzione stessa. A questo proposito, è utile ricordare prendendo in prestito le parole di Rodotà, che la Costituzione non appartiene più al parlamento, visto che di ogni legge in corso di discussione ci si chiede se il presidente della repubblica la firmerò o no, quali siano i rischi di una dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, in poche parole i custodi della Costituzione sono altrove, oltre al fatto che essa sembra essere stata degradata ad una qualsiasi altra legge ordinaria.

Il secondo pericoloso attacco alla Costituzione
è quello di Bossi e della Lega che provano a demolirla costantemente sul fronte dell'unità del paese e del federalismo (si è perfino tornati a parlare, di recente, cavalcando la vecchia tigre, di secessione). E' bene che i leghisti se ne facciano una ragione. La Costituzione prevede uno stato regionale e non federale. Chi parla di federalismo prefigura uno stato che da regionale dovrebbe trasformarsi in federale. Esso, in realtà, andando oltre la simbolica propaganda leghista, non sarebbe poi così diverso da quello regionale. In altre parole, si potrebbe fare in modo che il regionalismo attuato in modo insoddisfacente (dal 1970) e previsto fin dall'approvazione della Costituzione, venisse rivitalizzato e migliorato. Per fare ciò occorre però capovolgere l'art. 117, stabilendo alcune materie precise di esclusiva pertinenza dello stato e dando il resto, cioè quasi tutto, alle regioni. Per giungere a questa riforma si può scegliere il percorso della revisione dell'art. 138, attraverso la divisione tra potere di revisione e potere costituente normalmente accettata, modificando la forma di governo ma non mai quella dello stato.
Stando cos
ì le cose si evince che l'art. 138 non permette di attuare il federalismo nello stato italiano, ma solo di potenziare il ruolo delle regioni, per esempio, sullo scottante problema delle imposte e quindi del paventato federalismo fiscale (ma solo tenendo ben presente i costi complessivi di una tale riforma e pesando vantaggi e svantaggi per le diverse regioni).

In definitiva, con buona pace di Berlusconi, Bossi e rispettivi elettorati, l'attuale Costituzione italiana non permette n
è il passaggio ad una repubblica presidenziale, nè il passaggio ad uno stato federale. Se è dunque vero che il popolo italiano, a maggioranza schiacciante, ha stabilito di recente, nel 2006, e non certo secoli o decenni fa, che l'attuale Costituzione non va modificata nè tanto meno rivoluzionata o smembrata, allora, per la stessa legge della maggioranza a cui tanto spesso si richiamano i suddetti personaggi per dare peso ai proprio progetti politici, toccherà che l'attuale centro-destra al governo se ne faccia al più presto una ragione e non insista su propositi quantomeno stravaganti costituzionalmente. A meno che non ci sia seriamente la volontà (e in tal caso nessuno dell'attuale maggioranza di governo potrebbe chiamarsi fuori dalla responsabilità) di trasformare l'italia in uno stato autoritario, nel senso di voler fare carta straccia dei più importanti principi regolatori della vita del paese. Siccome sembra di percepire un certo smarrimento o comunque una mancanza di verve e di coraggio da parte dei partiti di opposizione, in generale ma anche su questo argomento così importante e decisivo, per questi e per tanti altri motivi, occorre oggi più che mai vigilare, individualmente e collettivamente, di fronte a qualsiasi anche piccolo e apparentemente limitato tentativo che vada in questa pericolosa direzione. Ecco perchè non ha molto senso dividersi, marciare in ordine sparso, per esempio andando a questa iniziativa in modo auto-referenziale piuttosto che ad un'altra, ma occorre invece unirsi tutti in difesa della Costituzione.

calamandrei
(Fonte Internet)

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