Neve, inefficienza e corruzione: è il 1956 o e oggi?
Fonte: Internet
Non c’è troppo da meravigliarsi del malcostume e inefficienza che monopolizzano in questi giorni le cronache italiane. Quando si sente ripetere il solito luogo comune, quella specie di chiacchiera da bar, per cui l’Italia «è sempre stata così», e per cui noi siamo sempre stati «un paese allo sbando», forse chi lo dice non ha poi tutti i torti. Ripensando alla neve di questi giorni, basta andare indietro nel tempo. E così si arriva alla famosa nevicata del ’56. Quella ricordata in una canzone scritta da Califano e cantata al festival di Sanremo da Mia Martini.
Un po’ per curiosità, un po’ per malizia siamo andati avanti a sfogliare i giornali dell’epoca. Era il febbraio del ’56. Fu, per il nostro paese, la più grande nevicata del secolo. Un’ondata di freddo siberiano portò gelo e neve ovunque. Le temperature delle nostre città, dal nord al sud (addirittura fino a Lampedusa e Pantelleria), raggiunsero dai -20 gradi di Bergamo al -1 di Palermo. Piazza San Pietro si trasformò in una pista da sci. Il freddo glaciale durò più di 20 giorni. Per dare meglio l’idea di cosa accadde, basta riportare qualche passo tratto direttamente da un quotidiano:
Masse d’aria glaciale hanno portato la neve nella penisola. Il primato del freddo in Val Venosta con meno 28. Treni bloccati, gravi ritardi e disagi per i passeggeri. Tutti i corsi d’ acqua che scendono dalle vallate sono gelati. A rendere maggiormente fredda la temperatura contribuisce il vento che da oltre 36 ore soffia foltissimo. Lo strato di ghiaccio formatosi sulle strade ha causato incidenti a raffica. A Livorno il freddo intenso ha presso che interrotto l’attività nel porto. Il Vesuvio sino a quota 350 è ammantato di neve. Sono interrotte le comunicazioni stradali sulla Sila. Numerosi canali di bonifica sono gelati. In alcune zone della città si raggiungono i 12 cm di accumulo. Il traffico impazzisce e alla fine della giornata sono tantissimi gli incidenti causati dalla neve. Chiuse le scuole. Si lamentano sei morti per assideramento.
Sulla neve, il paragone oggi è presto fatto, sul resto, invece, che viene il bello. Altro che foto di Vasto, con Di Pietro e Vendola che tirano per la giacca Bersani. Altro che scandalo Lusi che fa tremare l’ex Rutelli e tutto il Pd. Nel ‘56 la sinistra viveva una delle più grandi spaccature della sua storia, a seguito delle denunce di Chruščёv contro lo stalinismo al XX congresso del Partito comunista sovietico e, soprattutto, dopo l’insurrezione degli ungheresi di Nagy contro i sovietici. Mentre i socialisti di Nenni approvavano un documento che definiva l’intervento dell’Urss in Ungheria un atto incompatibile col diritto dei popoli all’indipendenza e 101 intellettuali comunisti firmavano un manifesto che condannava l’intervento e lasciavano il Pci, Togliatti su Nuovi Argomenti rinnovava la fiducia al modello del Pcus, mentre l’Unità e la direzione comunista definivano gli insorti ungheresi come dei controrivoluzionari traditori. Insomma, cambiano i fatti, cambiano i nomi, ma nella sinistra, lo scontro tra riformisti e radicali è sempre stato di moda, ed ha sempre suscitato profonde emozioni nella base del suo elettorato.
Anche la Cina, così come accade oggi sulle questioni economico-finanziarie del mondo globale, pure allora era al centro dei riflettori del mondo: Mao Tse-Tung, proprio in un solenne discorso del 2 maggio del ’56, si lanciava, con la cosiddetta liberalizzazione culturale dei “cento fiori”, alla conquista, si fa per dire, dell’Occidente. Israele, che di recente ha minacciato di voler attaccare l’Iran con le sue testate nucleari, il 29 ottobre del ’56, inviava le sue truppe ad occupare il monte Sinai in Egitto. Ma non a parole, le inviava sul serio, provocando l’intervento dell’Onu (che anche allora, peraltro, servì a poco).
Intanto, sempre nel gelido febbraio del ’56, con l’intento di una campagna moralizzatrice e a difesa della laicità e dei diritti civili di tutti i cittadini italiani, da una costola del partito liberale, nasceva, nel corso di un improvvisato convegno romano, il partito radicale di Ernesto Rossi, Leo Valiani, Leopoldo Piccardi, Eugenio Scalfari e altri. Da allora seguirono grandi battaglie e ideali. Pinzillacchere, direbbe Totò, a confronto di quelle dei radicali di oggi, che vanno dietro niente meno che al “fumus persecutionis” della magistratura contro il parlamentare del Pdl Alfonso Papa.
Non c’erano i forconi nel lontano ’56, ma la crisi dell’agricoltura si faceva sentire pesantemente anche allora (il miracolo economico non aveva ancora dato i suoi frutti). Infatti, durante una serie di manifestazioni di braccianti agricoli e disoccupati, a Potenza, Comiso, Foggia, Barletta e a Partinico, a cui partecipò anche lo scrittore Danilo Dolci, arrestato durante gli scontri, la polizia sparava sulla folla, facendo centinaia di feriti e addirittura 3 morti. Anche allora, come è accaduto per tassisti, autotrasportatori e agricoltori, tutto finiva “con tanto rumore per nulla”, al massimo con una interrogazione parlamentare, poi riposta nei cassetto di qualche gruppo parlamentare che la esibiva come patentino al momento di chiedere il voto.
La grande industria di stato, però, se la passava decisamente meglio. E non parliamo solamente della Fiat, costretta oggi ad andare a cercare altrove nuovi mercati, con conseguenze preoccupanti per i suoi dipendenti. L’Eni non lamentava alla stampa, nelle parole del suo presidente, possibili interruzioni di forniture del gas da riscaldamento. Nel ‘56 l’Eni accresceva addirittura la sua quota di mercato internazionale e acquistava il 20% di azioni di una compagnia petrolifera egiziana. Quanto all’Iri, lo stesso anno in cui veniva istituito il Ministero delle Partecipazioni sta tali, otteneva dal governo la concessione per la costruzione dell’Autostrada del Sole Milano-Napoli.
Prima gli autotrasportatori, per andare da Napoli a Milano, impiegavano due giorni di viaggio. La prima pietra della tratta Milano-Parma fu posta il 19 maggio del ‘56. Non che oggi un automobilista se la passi poi tanto meglio: qualcuno dirà che è colpa dei cantieri, qualcun altro della mafia, qualcun altro ancora della neve, ma, alla fine dei conti, dopo circa 56 anni, quell’autostrada, caso unico al mondo, in molti punti sembra una strada sterrata e in tanti altri deve ancora essere perfino ultimata. E sempre nel ‘56, l’Iri incorporava anche la compagna aerea Alitalia: a quei tempi si trattava di una delle compagnia più all’avanguardia nel panorama europeo, oggi è messa seriamente in crisi dalle compagnie aree dei voli low cost ed è finita tra le ultime posizioni nella classifica internazionale per impatto ambientale.
Se prendiamo in rassegna il mondo del lavoro, nel ’56 proseguiva la morsa delle organizzazioni industriali che tenevano i sindacati fuori dalle fabbriche, ricorrendo alla polizia privata, e che si organizzavano, attraverso i servizi segreti deviati, con le prime schedature politiche dei lavoratori (come risulta dall’inchiesta parlamentare del 1955 intitolata “Condizioni di lavoro nelle fabbriche”). La corruzione e gli scandali nel mondo dell’edilizia non mancano i parallelismi: il ’56 non ha nulla da invidiare alla recente affittopoli, alla P3 o P4, e agli intrecci tra politica, economia nelle inchiesta sulla protezione civile, se è vero che il settimanale “L’Espresso” denunciò con più di un articolo dal titolo Capitale corrotta = Nazione infetta (e chiaramente anche allora senza successo), l’Immobiliare Roma accusata di speculazione edilizia e violazione delle norme urbanistiche comunali.
Chiudiamo, giusto per non farci mancare nulla su questo paradossale ma, purtroppo, illuminante confronto tra l’Italia di oggi e quella del ’56, con l’immancabile razzismo. Più di cinquant’anni fa, come ricordano i nostri nonni, a Torino, in alcune fabbriche, gli operai meridionali, siciliani, calabresi, pugliesi e campani, venivano soprannominati “Napoli” dai settentrionali. A quei tempi, nel capoluogo piemontese si si diffondevano vergognosi cartelli con la scritta "affittasi, esclusi meridionali". Torino era la destinazione ideale dei tanti immigrati del profondo Sud che riempivano i cosiddetti “treni del sole”, quelli notturni, quelli stessi convogli che proprio oggi sono stati dismessi (causando il licenziamento di centinaia di addetti). Oggi, come risulta da una freschissima cronaca, in Veneto (per l’esattezza a Mirano in provincia di Venezia) un meridionale forse potrà affittare (rigorosamente “a nero”) una casa, ma non può assicurare la sua automobile. «Per colpa di disposizioni dell’assicurazione», ha gentilmente fatto presente la titolare dell’agenzia dicendo che non poteva mandare avanti la pratica ad un giovane di 26 anni di origini meridionali, ma residente nel veneziano ormai da tempo. Questo succede nell’Italia di oggi.
Fonte: Linkiesta
La democrazia alla prova
Non si tratta di una biografia. È piuttosto la ricostruzione di una vicenda che intreccia mondo cattolico e mondo laico nel secondo dopoguerra. In mezzo a questi due mondi si colloca Gozzini, ma non solo. Personalità politiche, intellettuali, religiose di rilevanza nazionale sono gli indiscussi protagonisti del volume, che intende ripercorrere le tappe cruciali del dialogo tra i settori più avanzati del mondo cattolico, socialista e comunista, nella storia dell’Italia repubblicana degli anni Cinquanta e Sessanta.
Ci si avvale di una documentazione completamente inedita, di lettere di importanti personaggi del Novecento italiano: da Turoldo, Milani e Mazzolari a Balbo, La Pira, Ossicini, Pistelli e Balducci; da Ingrao e Lombardo Radice a Longo e Berlinguer, fino a Parri, Enriques Agnoletti, Anderlini, Antonicelli e tanti altri. Il periodo cruciale della questione del dialogo si colloca nel quinquennio 1963-1967, in cui avvennero alcuni incontri decisivi tra dirigenti politici comunisti e socialisti, intellettuali cattolici e alte cariche religiose, che alimentarono un vasto movimento di idee che ha ben poco a che vedere con il successivo compromesso storico tra DC e PCI, negli anni della “solidarietà nazionale”. Fu piuttosto un vivo confronto tra personalità indipendenti e laiche, ex azionisti, comunisti, cattolici, socialisti e gruppi spontanei, uniti nella critica all’esperienza politica del centro-sinistra. Un dialogo che fu inizialmente segreto ma che divenne pubblico, maturato, culturalmente, nella
vicenda del “dialogo alla prova” e, concretizzatosi politicamente, anche se solo in parte, nella nascita del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente. Una convergenza nata sulle solide e sperimentate basi dell’antifascismo, accantonata dopo il varo della Costituzione della Repubblica e rilanciata circa venti anni dopo, nel 1967.
Tutto sarebbe rimasto nel chiuso dei circoli culturali, delle parole forbite di alcuni intellettuali, apparse su riviste più o meno note, se non fossero intervenuti due fattori determinanti: l’irrompere delle esperienze della contestazione, del dissenso religioso, dell’“autunno caldo”; e l’intervento del maggiore partito della sinistra italiana, il PCI, o almeno di una parte dei suoi vertici dirigenti. Ciò permise di dare concretezza a una non piccola rivoluzione: portare in Parlamento, per la prima volta, grazie alla spinta propulsiva della Sinistra indipendente, problemi
di grande portata culturale e politica che coinvolsero in prima persona tutta la società civile, e non solo, grazie all’istituto referendario sostenuto dalle sinistre radicali.
Questa democratica rivoluzione nella legalità contribuì a rinsaldare, in un difficile momento storico per la società, negli anni dell’eversione nera e del terrorismo brigatista, il vincolo dell’antifascismo culturale tra cattolici, comunisti, socialisti e indipendenti, che, così come aveva permesso di sconfiggere il regime fascista, sancì la fine della strategia della tensione,
mettendo letteralmente alla prova la democrazia italiana.
Pasolini disse che la Resistenza e il movimento studentesco furono «le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto» (Il Caos, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 41). È una valutazione polemica che si può condividere, a patto di non sottovalutare il significato anticipatore delle idee conciliari nel mondo cattolico, il proseguimento della tensione utopica nel mondo
laico, svolto dal “dialogo alla prova”, e la saldatura del legame antifascista, messa in atto dalla nascita della Sinistra indipendente.
(Archivio di “Red” Giorgetti)
Il volume, oltre a chiarire gli episodi che videro protagoniste le maggiori forze politiche e le componenti della società italiana, intende analizzare anche alcune vicende che fanno solo apparentemente da sfondo a decisioni più direttamente politiche: il mondo delle avanguardie cattoliche e laiche, le riviste e i movimenti d’opinione, alcune singole personalità, meno note, che ebbero invece un ruolo
rilevante in occasione di cruciali momenti della storia d’Italia; dalle elezioni del 18 aprile e l’affermarsi, anche in Italia, della guerra fredda, al XX Congresso del PCUS, che riaccese gli entusiasmi per una “via italiana al socialismo”; dalla crisi del centro-
sinistra e dalla rinascita spirituale del Concilio Vaticano II al Sessantotto e al dissenso religioso.
Attraverso l’ausilio delle lettere, dei manoscritti, degli appunti dei protagonisti, uniti all’esame delle più importanti riviste d’avanguardia cattolica, della pubblicistica comunista e socialista, e dei quotidiani più diffusi, ricostruire una vicenda intellettuale
come quella di Gozzini significa ripercorrere più di una stagione del movimento cattolico fiorentino e nazionale, di un cattolicesimo nascosto, non ancora del dissenso (anzi, che da questo tendeva a differenziarsi proprio nel momento in cui si manifestava), ma già cosciente della profonda crisi in atto nella Chiesa e del rischio che implicava per tutta la società, non solo per i credenti, la perdita di credibilità di un
discorso cristiano strumentalizzato dal potere politico. Un cattolicesimo consapevole anche del rischio di integralismo dovuto a quella visione totalizzante che comportava l’obbligatorietà dell’unità politica di tutti i cattolici. Viene fuori con chiarezza il ruolo
decisivo che ebbero alcuni intellettuali cattolici nella proposta di un rapporto tra società e Chiesa che in parte anticipò e che sicuramente contribuì agli sviluppi conciliari, senza nulla togliere al significato innovatore del papato giovanneo.
Ma significa anche entrare dentro il mondo comunista e socialista, nelle sue diverse sfaccettature, per verificarne le basi di pluralismo, di apertura a un discorso volto al superamento di una visione ideologica, spesso integralista e totalizzante; e, specialmente dopo il 1956, chiarire quali furono le sue correnti più movimentiste, i suoi protagonisti più avvertiti, che, in qualche modo, anticiparono certe dinamiche
avanzate e moderne della odierna sinistra progressista. Appare qui evidente l’inconsistenza della tesi che vorrebbe relegare a un ruolo marginale, al rango di «utili idioti», quel gruppo di intellettuali che diede vita alla Sinistra indipendente, il quale ebbe invece una grande rilevanza non solo in molte vicende interne allo stesso PCI ma, soprattutto,
nel dare inizio a un rapporto più aperto e pluralista tra politica e società civile.
Significa infine affrontare il rapporto tra cultura e politica, tra intellettuali e partiti, in particolare attraverso le vicende di quegli indipendenti, provenienti da varie matrici culturali, giellisti, ex azionisti, liberaldemocratici, social-democratici, accomunati dall’esperienza della Resistenza e dell’antifascismo, che aderirono all’appello di Ferruccio Parri. Questi accettarono, nel 1968, la proposta del Partito comunista
italiano di mettere a disposizione le proprie liste per la creazione di una formazione politica completamente indipendente, che rappresentò il primo e unico esperimento politico in Europa di questo tipo (che ha ben poco a che vedere con l’esperienza dei fronti popolari o della federazione unitaria), e che prese il nome, appunto, di Sinistra indipendente. Anche sotto il profilo della storia dei movimenti politici e delle forze intellettuali, oltre che dal punto di vista della storia sociale, il Sessantotto
si conferma ancora una volta un momento essenziale e decisivo di cesura.
È una storia, complessivamente, non unitaria, di difficile ricostruzione, di cui si devono delineare ancora le tappe, fatta di percorsi individuali. Piccoli gruppi e riviste, interessanti non solo come capitolo dell’organizzazione della cultura italiana e per la
riflessione sui rapporti tra fede, Chiesa e società civile che hanno svolto un utilissimo ruolo di “cerniera” con la politica, pur non essendo direttamente legati ad essa, anticipando e portando a maturazione importanti battaglie civili successive.
Il periodo cronologico della ricerca si chiude agli inizi degli anni Settanta, che coincidono, nella trattazione, con la preparazione della prima vera battaglia parlamentare della Sinistra indipendente, che spaccò in due il paese su un tema di grande portata civile: il divorzio. Anni che rappresentano anche l’inizio della tensione civile, del brigatismo e del compromesso storico, tutti eventi che necessitano di
precise ma diverse chiavi di lettura, per una società completamente mutata.
L’idea del volume è nata dallo sfoglio delle carte Gozzini, depositate presso l’Istituto Gramsci toscano a Firenze: un intellettuale a cui è toccato, fin da vivo, ma anche dopo la morte, il singolare destino di essere molto noto a Firenze ma pressoché sconosciuto
a livello nazionale, il cui nome è rimasto limitatamente legato solo a una legge parlamentare sulla riforma carceraria. Eppure le sue carte comprendono centinaia di lettere di vari interlocutori, quasi tutte le copie di quelle da lui spedite, una grande mole di documenti (manoscritti e dattiloscritti), che hanno rappresentato una vera novità storiografica, ricca di risvolti significativi. La storia si fa beffe, così,
della cronaca, e permette di ristabilire la giusta misura della sua opera, ma soprattutto di lanciare nuove e interessanti prospettive di ricerca su alcune vicende della storia dell’Italia repubblicana, a dimostrazione che certe idee, in apparenza sommerse, rimangono depositate sotto le macerie dell’attualità politica, sempre pronte a tornare vive.
(Introduzione tratta da: “La democrazia alla prova.
Cattolici e laici nell’Italia repubblicana degli anni cinquanta e sessanta” (Carocci, Roma)
Veltroni, la laicità e i santi in paradiso
Premesso che Veltroni appare, oggi, probabilmente la proposta meno logora dell'attuale sinistra, vorrei fare una constatazione, suffragata da una "pezza di appoggio storiografica", che credo lei possa condividere.
Qualcuno si meraviglia che Veltroni, milaniano da tempi non sospetti, sia riuscito ad aggregare un certo consenso Oltre Tevere, collaborando con Sant'Egidio e la Caritas, dialogando prima con papa Wojtyla, poi con monsignor Fisichella, adesso con papa Ratzinger, a tal punto da venir fuori come «l'uomo del dialogo», destinato a scavalcare politicamente quelle personalità cattoliche su posizioni bindiane, prodiane e perfino rutelliane nella Margherita. C'è poco da meravigliarsi, anzi. Se ci rifacciamo alla storia. C'è una sorta di filo rosso, infatti, che ha visto protagonisti, ad ogni staffetta, i vari segretari del Pci di allora, poi Pds infine Ds, nel tentativo di riscattare chissà quale colpa primigenia agli occhi dei vari pontefici. La lista è troppo lunga, basta riportare qualche esempio significativo. Negli anni sessanta Rodano portava a padre De Luca i messaggi di Togliatti indirizzati a Giovanni XXIII sulla distensione pacifica, mentre, cosa che sanno in pochi (e che ho potuto verificare direttamente sfogliando i verbali della direzione del Pci) Longo mandò addirittura un messaggio ufficiale di auguri natalizi a Paolo VI, a nome di tutto il partito, nel tentativo di ingraziarsi qualcuno più in alto nell'eventualità che la Dc di Moro si rivelasse un po' troppo laica; negli anni settanta ci pensava l'Espresso a denunciare quei «messaggi aerei» che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro. E i serissimi protagonisti di questi contatti riservati erano soprattutto tre: il "rettore dell'Università", il "prete bianco" e il "motociclista" (erano questi, infatti, nel linguaggio cifrato delle conversazioni private, i nomi con cui venivano chiamati da Natta, Bufalini, Barca e dai loro interlocutori democristiani e della curia, rispettivamente Berlinguer, Paolo VI e il cardinal Benelli).
(Archivio Alinari)
Detto questo, si capisce bene quanto ci sia poco da stupirsi della simpatia di Veltroni per la Chiesa: è in perfetta sintonia con i suoi autorevoli predecessori (compreso il più recente Fassino). La cosa che, caro direttore, dovrebbe meravigliare, anzi per la verità dovrebbe preoccupare è un'altra: ai tempi di Togliatti, di Longo e di Berlinguer, nel Pci c'era sì una maggioranza dentro il partito convinta di aprirsi al dialogo con la Chiesa oltre che con il mondo cattolico e la Dc, ma c'era anche una forte componente laica, radicale, anticoncordataria, insomma tutto quel settore vicino al socialismo, non vorrei dire rivoluzionario, ma quantomeno critico, per non parlare dell'ala movimentista. Inoltre c'era, al di fuori del Pci, tutta una serie di forze, cattoliche democratiche e del dissenso, che tenevano alti gli umori anti-compromesso, proprio perché, provenendo da quello stesso mondo cattolico e religioso, ben lo conoscevano, diffidandone. Oggi sembra mancare al Partito Democratico (o almeno non ce ne siamo ancora accorti), andando oltre le facili affermazioni e le buone intenzioni, proprio tutto quel bagaglio di pluralismo, laicità e diversità di esperienze (e che erano le premesse alle quali in molti guardarono all'inizio del processo di nascita), che rendono questa forza assolutamente sottomessa e prigioniera del timore di scontentare la Chiesa, su più fronti, in particolare sulle questioni etiche e sui diritti civili. Mancano insomma proprio quei cattolici anticoncordatari, quei socialisti critici e quei radicali di sinistra che negli ultimi decenni fiancheggiarono l'azione del Pci garantendole, se possibile, un vero surplus di democrazia.
(Tratto da: “Diario della settimana”)
Vincono i no sulla 194 e l'ergastolo. Gli italiani chiedono maggiore sicurezza
Dopo l’entrata in vigore della legge, a detta della stampa laica pareva avesse avuto inizio l’era della libera civiltà, mentre da parte cattolica sembrava fosse iniziata l’epoca dell’anarchia più sfrenata. Ma a parte i soliti eccessi verbali, si trattava, piuttosto, di fare in modo che le procedure previste dalla legge venissero applicate, subito e nel migliore dei modi, dagli enti locali e dalle Regioni. In effetti, la legge era stata approvata in un'atmosfera molto tesa, con un Paese che sembrava quasi non accorgersene, preso com’era dal sequestro, dall'uccisione di Moro e dalla crisi economica (che aveva visto, dopo l’instaurazione del doppio sistema del cambio, l’aumento dei prezzi, la svalutazione della lira, la costante crescita dell’inflazione), scosso, di lì a poco, dalle dimissioni del presidente della Repubblica Leone, e dalla morte di ben due Papi, con l’elezione di Giovanni Paolo II.
Iniziava così, a partire dal 1979, tutta una serie di attacchi alla legge “194”, da parte del mondo cattolico quanto dei radicali, che lasciava presagire che la battaglia sull'aborto si sarebbe rilevata molto più dura e lunga del previsto.
Agli inizi del 1980, alcuni dati, a livello europeo e mondiale, apparivano però incontrovertibili. La Francia, che aveva messo in prova per cinque anni la sua legge del 1974, l'aveva resa definitiva perché l'esperienza passata dimostrava che, con le garanzie sanitarie, il tasso di complicazioni relative agli aborti era diminuito di più del 50%, ed era sparito quasi del tutto quello di mortalità. Nell’ultimo decennio, inoltre, ben trenta paesi avevano introdotto la legalizzazione dell’aborto: dal Regno Unito (1967) alla Danimarca (giugno 1973), dalla Repubblica Federale tedesca (giugno 1976) all’Italia (giugno 1978). Nella Comunità europea rimanevano ancora legati a leggi restrittive sull’aborto solamente il Belgio e l’Irlanda, mentre perfino le “cattolicissime” nazioni, Spagna e Portogallo, avevano posto la questione all’ordine del giorno. Secondo le valutazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano comunque quasi 50 milioni, ogni anno, gli aborti nel mondo, almeno 20 milioni dei quali clandestini. Malgrado questa cifra impressionante, alla fine del 1979, l’aborto non occupava più il primo posto, ma il terzo, come strumento di controllo delle nascite, dopo la sterilizzazione volontaria e la contraccezione (il problema assumeva però dimensioni catastrofiche in tutti quei paesi dove, per motivi religiosi o legislativi, l’aborto non era sotto controllo medico,
in particolare in America Latina, nel Medio e nell'Estremo Oriente).
Alla fine del 1980, si profilava il successo della raccolta di firme per un referendum contro la legge, messa in atto da parte dell'Mpv, con ben due milioni di consensi, espressione della protesta popolare del mondo cattolico. Il primo referendum dei cattolici intransigenti, quello “massimale”, richiedeva il divieto di aborto in generale, ad eccezione del pericolo di vita per la madre. In questo caso le obiezioni del fronte opposto si incentravano sul rischio del cosiddetto vuoto legislativo. Per questa ragione l'Mpv aveva presentato una seconda proposta di referendum, “minimale”, che proponeva non la soppressione ma la riduzione del diritto d’aborto (art. 4,5 e parzialmente del 6 della legge). Anche in questo modo veniva comunque azzerata la legge “194” nell’autodeterminazione della donna e si ammetteva soltanto l’aborto terapeutico, stabilito dal medico, prevedendo un ritorno alla legislazione precedente. Esisteva però, sul fronte opposto, una richiesta di referendum da parte dei radicali, che mirava a raggiungere la piena liberalizzazione dell’aborto, mentre da parte socialista, il deputato Fortuna segnalava quelle che gli parevano due delle carenze più gravi della legge: il problema delle minorenni che potevano abortire esclusivamente col consenso del padre o del giudice tutelare, e l’esclusione della possibilità di abortire nelle case di cura private.
La questione dell’aborto, che aveva sviluppato un vasto dibattito tra i partiti e nella Chiesa, in prossimità della data del referendum, diventava un tema sempre più appassionato di discussione nella società civile, sentito, per ovvie ragioni, in particolare dal movimento delle donne. Il movimento femminista era andato incontro ad una sostanziale modificazione: dalla prima fase più estremista, era passato, gradualmente, ad una seconda fase, più meditata, di radicamento culturale nella società, deciso a difendere la legge e a migliorarla, senza però farsi intrappolare nello schema riduttivo del “si o no”. Dall'unità di intenti di questi gruppi della società, dei partiti politici della sinistra tradizionale e dei cattolici democratici indipendenti, sarebbe nata la mobilitazione
a favore del mantenimento della legge durante la campagna referendaria.
(Archivio Alinari)
Intanto, dopo la discesa in campo di Papa Wojtyla contro la legge, si incrementavano gli appelli dei vescovi, delle parrocchie (molti parroci tenevano discorsi non solo dai pulpiti, ma addirittura dai palchi predisposti nelle piazze) e delle organizzazioni cattoliche per il “sì”. Nel Sud d'Italia si moltiplicavano le processioni che si concludevano con veri e propri comizi a favore del referendum proposto dall'Mpv; in qualche caso estremo, anche la statua del santo patrono sfilava incoronata da un cartello con su scritto “Vota sì”.
I risultati del referendum del 17-18 maggio 1981, preceduto dall'attentato al Papa (che contribuì a svelenire le polemiche), furono netti: il “no” contro la proposta radicale di revisione della legge ottenne l’88,5%,
mentre quello contro la proposta dell'Mpv raggiunse il 67,9%.
I voti referendari mettevano in evidenza gli effetti della secolarizzazione della società italiana. Gli italiani avevano votato contro le tentate imposizioni della Chiesa su un argomento di così rilevante carica morale e civile. Non solo era stata messa in gioco, dopo la precedente sconfitta sul divorzio, l’incidenza politica della Chiesa in Italia, ma la sua stessa influenza culturale. Colpiva, infatti, la quasi coincidenza tra le percentuali provvisorie dei “sì”, intorno al 30%, e i dati relativi alla partecipazione alla messa domenicale che, dal 69% del 1950, erano calati al 28% circa del 1980. L’opinione pubblica aveva rivelato, inoltre, una notevole misura di autonomia dai partiti, a fronte di un loro eccessivo coinvolgimento, con forme visibili di politicizzazione, durante la campagna referendaria.
Il voto non era solo la conseguenza di un'affermazione di libertà, pluralismo e autodeterminazione, ma poteva essere letto anche come motivo di preoccupazione per l'indifferenza che toccava non solo la sensibilità religiosa, ma anche quella civile. Una chiara contraddizione era infatti la contemporanea vittoria del “no” all’abrogazione dell’istituto dell’ergastolo. Se davvero il referendum sull’aborto avesse avuto quelle motivazioni culturali e civili che i vincitori gli avevano attribuito, la vittoria avrebbe dovuto essere accompagnata dall’abrogazione dell’ergastolo e non dalla sua conservazione a schiacciante maggioranza. Per la verità, l’appoggio popolare alla possibilità di abortire in strutture sanitarie statali e la funzione deterrente dell’ergastolo contro i delitti più gravi rappresentavano una crescente richiesta di sicurezza da parte degli italiani, che dimostravano il disinteresse verso problemi morali e di principio, e mettevano in evidenza sempre più quel “vuoto etico” verso il quale il recente processo di secolarizzazione, pur benefico e positivo per certi punti di vista, aveva spinto il Paese.
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
Dal processo Pierobon a don Bettazzi. Il tortuoso iter che portò alla legge 194
La vicenda della regolamentazione dell'aborto in Italia si è contraddistinta per un vasto dibattito culturale, sostenuto ad alti livelli, ed ha avuto un iter parlamentare molto travagliato. Gli sviluppi delle riflessioni filosofico-religiose e politico-sociali sul quesito della vita hanno avuto importantissime implicazioni nel corso degli Settanta; questa stagione è sostanzialmente dietro l'angolo ma, secondo le analisi che leggiamo in questi giorni sui quotidiani, sembra del tutto dimenticata. Per questo appare necessario ripercorrerla sinteticamente.
La questione dell’aborto è una tematica indubbiamente complessa e delicata, che implica il diretto coinvolgimento delle funzioni della famiglia, della società e dello Stato. Il fenomeno dell’aborto clandestino aveva assunto, infatti, nel corso dei secoli, una diffusione così alta da richiedere di essere affrontato dal punto di vista legislativo. L’ordinamento civile dei vari Stati, limitatosi per lungo tempo a ricalcare la visione religiosa, iniziò solo in età moderna a disciplinare il problema, sulla scia delle prime acquisizione scientifiche nel campo della fecondazione e dello sviluppo embrionale. Fu soprattutto nell'Occidente di derivazione illuminista e ispirazione liberale, che, a partire dagli anni Cinquanta, si iniziò a riflettere sulla problematica da un punto di vista laico.
Il primo atto, sul piano internazionale, fu l'approvazione all’unanimità, il 20 novembre 1959, da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti del fanciullo, che tutelava giuridicamente, prima e dopo la nascita, il diritto alla vita, ribadendo la dignità di persona spettante ad ogni essere umano. A questo principio si rifecero ugualmente,
ma con motivazioni diverse, i sostenitori delle opposte tesi sulla liceità dell’aborto.
Da un lato, netta era la posizione di condanna da parte della Chiesa verso chi praticasse l'aborto, qualunque fosse il grado di sviluppo del feto (il diritto canonico comminava la scomunica latae sententiae). Così si era espressa, prima con Pio XI, nell’enciclica Casti connubii del 1930, poi, con Paolo VI, nella Humanae vitae del 1968. In particolare, quest'ultimo aveva inflitto un duro colpo al principio della collegialità nell'esercizio dell'autorità ecclesiastica, sancito durante il Concilio Vaticano II, riaffermando il suo divieto alla contraccezione, dopo che, qualche anno prima, a seguito della scoperta della pillola anticoncezionale “Pincus”, una pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità (istituita da Giovanni XXIII e composta oltre che da religiosi anche da membri laici), aveva dato sorprendentemente parere favorevole all’uso della pillola, nel contesto di una iniziale revisione della dottrina cattolica sul controllo delle nascite. Alla chiusura della Chiesa in materia di educazione sessuale corrispondeva l’inadeguatezza della legislazione in Italia, che vietava perfino l’uso degli anticoncezionali (previsto solo nel 1971, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale): sull’aborto, infatti, non era prevista alcuna regolamentazione, salvo poi punirlo, come ai tempi del fascismo, in quanto «delitto contro
l’integrità e la sanità della stirpe», con la reclusione da due a cinque anni.
Dall'altro lato, sulla scia degli esempi di altri paesi (negli Usa, il Women’s Liberation Movement; in Germania, il manifesto delle donne pubblicato sulla rivista “Stern”; in Francia, la mobilitazione del Mouvement de Libération des Femmes), anche in Italia, i movimenti di emancipazione femminile, in particolare il Movimento di Liberazione della Donna e l'Unione donne italiane, iniziavano a parlare, agli inizi degli anni Settanta, di depenalizzazione, legalizzazione e addirittura di liberalizzazione dell'aborto. Nel nostro paese però le prime forme di adeguamento alla mentalità europea, con l’affermazione della libertà di scelta individuale e l’emancipazione delle donne, convivevano con il modello tradizionale della società, fondata sul matrimonio, sulla forza della famiglia, sulla morale cattolica
e sul disinteresse dello Stato verso le politiche sociali e familiari.
(Archivio Alinari)
La spinta iniziale all’avvio di un dibattito parlamentare sull'aborto fu data dal Partito Radicale e da alcuni deputati socialisti che avevano proposto, inizialmente, un disegno di legge che si ispirava all'Abortion Act inglese del 1967.
Il problema che si intendeva affrontare, da parte laica, era quello degli aborti clandestini e illegali, che negli ultimi anni era diventato una vera e propria piaga sociale. A dispetto delle pesanti pene previste dal codice penale, i tribunali erano abituati a intervenire solo nei casi di aborti seguiti da morte della donna incinta, cioè un'infima minoranza. All’ombra del “magistero penale”, fiorivano disonesti e lucrosi commerci, e, in certi paesi europei, vere e proprie industrie dell’aborto: medici corrotti, “praticoni”, vendita di oggetti e medicinali, tutto illecitamente, almeno per la povera gente. Per le donne ricche invece intervenivano ginecologi esperti, cliniche di lusso in Svizzera o Inghilterra (ma anche in Italia), attrezzatissime e molto frequentate. Esistevano, come un tempo per il divorzio, le ben più pericolose “mecche dell’aborto”.
Il primo disegno di legge sull'aborto fu proposto l'11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, che prevedeva anche le ragioni eugenetiche per l'interruzione della gravidanza, a giudizio insindacabile del medico, quando ci fosse un rischio per la salute fisica o psichica della madre o anche il rischio di malformazioni del nascituro, e ammetteva l’obiezione di coscienza. E mentre si delineavano le posizioni “attendiste” del Pci (che si limitava sostanzialmente ad evitare di aprire un dibattito interno, rischioso per il proseguimento del confronto con la Chiesa sul Concordato), e della Dc (che voleva evitare, a sua volta, malumori nelle gerarchie ecclesiastiche), prendevano posizione, nel mondo cattolico, alcuni teologi moralisti, come Chiavacci, che, sulla scia della posizione più aperta dei gesuiti francesi,
si differenziava dalla rigida chiusura della Chiesa.
Intanto lo svolgimento del processo a Gigliola Pierobon (che aveva dichiarato pubblicamente di aver abortito) e la successiva sentenza di condanna, rappresentavano un chiaro sintomo di quel disagio con cui la magistratura si trovava costretta ad applicare gli articoli del codice Rocco che punivano l’aborto, in ogni caso, come un reato. Dopo le polemiche sulla stampa, la Procura di Firenze stabiliva l’arresto di un gruppo di radicali, auto-accusatisi di gestire un centro clinico dove si praticava l’aborto, mentre vedeva la luce, a Milano, il Centro di Informazione per la Sterilizzazione e l’Aborto, diretto da Faccio e Bonino, che iniziava a regolamentare privatamente la pratica dell’aborti, con corsi di aggiornamento per ginecologi e l’informazione sulla contraccezione e sulla sterilizzazione.
A questo punto accadevano due fatti che finivano per surriscaldare l'atmosfera, rendendo inevitabile lo scontro tra le parti contrapposte, che fino a quel momento sia la stampa, sia la Chiesa e i partiti, avevano tentato di rimandare.
Il 18 novembre 1974 la Chiesa si esprimeva solennemente nella Dichiarazione sull'aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il nuovo documento vaticano, la più autorevole posizione espressa dalla Chiesa in materia, ribadiva la condanna di principio dell’aborto, anche se non aveva comunque irrigidito la sua posizione rispetto alla precedente enciclica. Nella dichiarazione si sosteneva che una legge civile non potesse abbracciare tutto l’ambito della morale e punire tutte le colpe, si invitava il credente a discernere situazioni diverse e a non intervenire direttamente in una eventuale legge. L'unica voce fuori dal coro unanime di condanna dei vescovi era quella di mons. Luigi Bettazzi (quello della lettera aperta a Berlinguer), il quale, pur riaffermando la sacralità della vita umana, invitava i cristiani a riflettere in maniera autocritica sulle posizioni prese in passato, che non avevano certo contribuito a diminuire la piaga dell'aborto clandestino. Il 19 gennaio 1975 “L’Espresso” apriva con un'emblematica copertina dal titolo: «Aborto: una tragedia italiana». L’ immagine, di forte impatto emotivo, di una donna nuda e incinta, crocifissa sotto la scritta “Ecce Mater”,
provocava l’intervento della magistratura e comportava al giornale la denuncia per oscenità e vilipendio della religione.
A dispetto della congerie grigia e conformista cui aveva abituato fino a quel momento la stampa, intervenivano anche alcuni intellettuali: Pasolini, nonostante il suo appoggio ai referendum promossi dai radicali, definiva l’aborto «una enorme comodità» della società moderna, paragonato a una «legalizzazione dell’omicidio»; Sciascia invitava a non dileggiare il mondo cattolico, ma anzi a coinvolgerlo nella scelta del futuro da prospettare all’umanità, mentre Eco e Bocca si chiedevano come si potesse fare a meno di un tipo di regolamentazione in vigore ormai in tutti i paesi civili del mondo; la Zarri e la Ginzburg sostenevano, suscitando scandalo tra i benpensanti, che il concepito era soltanto un’«ipotesi di bambino» e un «disegno remoto e pallido di una persona».
Intanto, nel 1975, prendevano corpo le altre proposte di legge: i socialdemocratici prevedevano che l’aborto potesse essere praticato anche dopo dieci settimane, ma solo a seguito di attestazione di un medico (tenuto ad attuarlo anche quando ciò contrastasse con la sua coscienza), in una clinica pubblica o privata (le spese erano a carico della persona interessata); i comunisti prevedevano l'intervento di una commissione composta da un medico “internista”, un ginecologo e un’assistente sociale, in modo da informare l’interessata sui rischi connessi, ma non ammettevano l'aborto dopo il 90° giorno dall’inizio della gravidanza (le spese erano a carico del fondo ospedaliero e degli enti mutualistici); i repubblicani prevedevano assistenza e consulenza gratuite a carico delle Regioni, l’istituzione di consultori comunali, e ammettevano l’intervento abortivo non oltre la decima settimana (riconoscevano per il medico l’obiezione di coscienza); i liberali proponevano un periodo di riflessione di 7 giorni, dopo il quale la donna poteva rinnovare la richiesta di aborto; infine, i democristiani intervenivano sui precedenti articoli del Codice penale, prevedendo la pena di reclusione da 7 a 12 anni per chiunque cagionasse l’aborto di una donna senza il suo consenso e confermavano l'applicazione di una pena da 2 a 5 anni alla donna che se lo fosse procurato (ammettendo delle attenuanti, nel caso di anomalia del nascituro, violenza carnale, condizioni economiche e sociali di eccezionale rilevanza).
In particolare erano i parlamentari della Sinistra indipendente, convinti che un problema del genere andasse affrontato senza scomuniche religiose né “impuntature ideologiche”, a rivolgere un appello al mondo politico per trovare comunque una soluzione. Dopo i tentativi di Gatto e Carettoni, nel 1976 La Valle lanciava una proposta per tentare un’uscita dalla situazione di stallo. L’aborto non doveva essere considerato una conquista civile, ma ci si doveva indirizzare più realisticamente verso una regolamentazione condivisa. Fuori dai casi di aborto strettamente terapeutico, la decisione non doveva spettare al medico, ma alla madre stessa, aiutata da un consultorio pubblico o convenzionato, dopo un periodo di riflessione di 10-12 giorni dal primo incontro. La socializzazione del problema avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Qualche tempo dopo, Gozzini precisava i termini della proposta, onde evitare di presentare l’intervento abortivo in chiave “consumistica”. Per il bene della società e della stessa Chiesa, occorrevano tre obblighi: per la donna, il ricorso ad una istanza pubblica; per il consultorio, un’adeguata offerta di sostegni reali dallo Stato; per la società, l’assunzione dei costi della gestazione condotta a termine, che in quel momento ricadevano purtroppo solo sulla donna. Si trattava, dunque, di una proposta che cercava di arginare l'ideologia abortista che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali, dai femministi e in parte dai socialisti.
A contrastare questa nuova posizione erano subito “Comunione e liberazione” (che puntava alla riaffermazione di un soggetto politico cristiano intransigente) e il nascente “Movimento per la vita”, il quale scavalcava a destra la posizione del partito democristiano. L'Mpv di Casini presentava infatti un nuovo progetto di legge, la cui novità più rilevante era la costituzione di centri di accoglienza, non presso l'ente locale ma presso il giudice tutelare (composti da sei volontari, due medici, un assistente sociale e tre cittadini di sesso femminile e possibilmente con figli), che vigilassero affinché i consultori familiari svolgessero realmente la loro attività di prevenzione.
Il 18 maggio 1978, dopo un iter tormentato, veniva promulgata la “legge 194”, in base alla quale l’aborto, attuato in determinate condizioni, non era più perseguibile penalmente. La soluzione finale trovata rispettava l’autodeterminazione della donna, ma per andare incontro alle esigenze dei cattolici, il legislatore riconosceva espressamente il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza. La legge era votata con 160 voti contro 148, da comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali e Sinistra indipendente, mentre avevano votato contro democristiani, missini, radicali e demo-proletari (questi ultimi due gruppi non erano contrari alla depenalizzazione
dell’aborto ma ai limiti che la legge poneva alla totale libertà di abortire).
Subito dopo l'approvazione, l’argomento più scottante su cui si incentrò la polemica fu la presunta contraddizione in cui cadeva la legge nella concessione dell’obiezione di coscienza. La grande questione che rimaneva irrisolta era la seguente: fin dove doveva estendersi il rigoroso dovere morale di obiezione? All’intervento operatorio, all’attività dei consultori pubblici o anche alla certificazione medica prevista per ottenere l’aborto? La legge pareva prevederlo per tutte le attività indicate, ma già al Senato il problema
di una distinzione era stato richiamato dai democristiani.
Si paventava così il rischio di una vera e propria paralisi di interi reparti sanitari (continua)
(Tratto da: “Il Riformista”,
poi ampliato nel volume: “L’aborto in Italia. Storia di una legge” (Bruno Mondadori, Milano)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)
Storia di un grande progetto
“Libri, uomini e idee erano, ieri, una miscela importante per costruire il futuro; forse lo sono ancora oggi, per chi voglia costruirlo”. Con queste parole si chiude il libro di Gabriele Turi, Casa Einaudi. Era il 1990. A circa dieci anni di distanza, Pensare i libri di Luisa Mangoni ripercorre le vicende della casa editrice Einaudi dalla fine del fascismo ai primi anni Sessanta, e ci presenta uno sguardo a tutto tondo sulla cultura, e di conseguenza, sulla società di quegli anni.
Le pagine dense di emozioni di questo testo danno un’immagine della casa editrice torinese, alla fine della guerra, come una casa da abitare, con muri spessi, stanze accoglienti di materiale vivo. Sembra quasi di vedere impegnati Ginzburg, Pavese, Balbo, Vittorini, poi Calvino e gli altri, impegnati a produrre materiale (pensieri sui libri). Materiale però che questi speciali “muratori” della cultura spesso producono in proprio, senza mediazioni, senza la minima attenzione l’uno per l’altro, ognuno col suo gusto proprio di colore, peso, spessore. Ed il risultato appare subito straordinariamente creativo, stimolante. Salvo poi crollare alla distanza, ad un certo punto della costruzione, dopo averne con fatica gettato le basi. Non è solo per motivi esterni (ideologici, economici) che dopo la metà degli anni cinquanta la casa crolla, annacquando visibilmente i suoi contenuti, ma anche per questioni personali. Viene a mancare il collante necessario a tenerla in piedi.
Questo libro è la storia di una grande illusione. Ci fa scoprire oggi come certi scrittori abbiano creduto di poter iniziare un dialogo, di poter affrontare argomenti sulla società civile, confrontandosi non con i soliti interlocutori di sempre, i partiti politici, ma con un elemento portatore di cultura “pura”, quale era la casa editrice, e di farlo, anche se non in modo isolato, proprio dal suo interno. Probabilmente si illusero di poterlo fare, dirà qualcuno, guardando pragmaticamente ai risultati conseguiti. Certo è che cercarono di tracciare un ideale percorso culturale, ma ancor più esistenziale. Un percorso in cui è racchiusa, certo solo in nuce, probabilmente in maniera parziale, una risposta più ampia, che va colta individualmente.
E’ emblematico il titolo. Dietro il modo di pensare un libro o una collana tematica c’è il modo stesso di intendere la vita. Pensare un libro significa soprattutto opporsi ad un immobilismo d’idee che riduce ogni cosa a semplice involucro di sé, che uccise un tempo la libertà, la critica, la diversità. Nella casa editrice si confrontano a “colpi di libro” diverse filosofie di vita. Si intrecciano, si compenetrano, si filtrano a vicenda, scontrandosi.
Nelle vicende della casa editrice degli anni che precedono la guerra (almeno fino alla caduta del fascismo) si confrontano, mescolandosi, due di queste filosofie. Sono rappresentate dall’opera e dalla personalità stessa di Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Grazie a loro si possono individuare le caratteristiche peculiari della mentalità che avrebbe assunto la casa editrice a partire dagli anni trenta, con elementi comuni ma anche profonde differenze. Due aspetti mettiamo qui in luce. In Ginzburg ritroviamo “quel retroterra comune dell’antifascismo ma ancora di più una sorta di familiarità percepibile nei modi di essere prima che di pensare, in un tessuto connettivo di atteggiamenti e di cultura” (p. 5). Nel percorso di Pavese è più evidente il richiamo ai libri, alla storia pensata. Scriveva nel 1926: “Non vivo solo dei libri e per i libri, ma alla fin fine, a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri” (C. Pavese, Lettere 1924-44, Einaudi, Torino, p. 25). Per Pavese, scrivere, come anche tradurre, è qualcosa che si impara, “attraverso uno scavo capace di portare alla luce il sé e il fuori di sé” ( p. 15). Siamo nel decennio 1935-45. Nascono in quegli anni idee nuove, intuizioni, per collane editoriali che si diversificano. Si delinea così una struttura ben definita della casa editrice con un carattere dinamico e innovativo. E’ una prova di eclettismo che combina e intreccia interessi e sollecitazioni diversi, espressi dentro e fuori la casa editrice.
“Essere nel proprio tempo, guardare al proprio tempo” : è questa la parola d’ordine in cui si colloca la costruzione delle collane. Si nota però che, pur all’interno di una tendenza d’apertura ad un mercato più vasto, la programmazione manca sostanzialmente della cultura espressione del Novecento. Non che non percepisca le inquietudini manifestate dai giovani della “generazione perduta” (G. Pintor, Il sangue d’Europa, Torino, Einaudi, 1965, p.186) che in quel momento trovano l’esplicitazione in memorie e autobiografie. A far proprie certe motivazioni esistenziali è la personalità di Giaime Pintor. Il “gioco dei progetti” – così lo chiama in una lettera del 1941 (G. Pintor, Doppio diario, Torino, Einaudi, 1968, p. 155). Sarebbe diventata poi una prassi delle discussioni collegiali in quel laboratorio intellettuale che fu la Einaudi di allora. Si inizia a delineare quel gruppo di intellettuali che darà inizio, negli anni quaranta, alla “scuola delle invenzioni” (Doppio diario, cit., p. 156). Gli intellettuali, nascosti durante le ultime fasi della Liberazione, dopo la guerra provano a conoscersi per poi definire la linea della casa editrice. Quello della conoscenza è un aspetto non marginale, insieme alle difficoltà nel riconnettere frammenti di storie individuali, il crearsi di solidarietà esclusive. “Come cani di razza questi intellettuali davano la sensazione di annusarsi a vicenda” per provare dal confronto a superare o comunque almeno a chiarire contrasti su idee, diffidenze non sempre reali ma semplicemente pregiudiziali. All’interno di questa nuova mentalità di elaborazione, intervenendo direttamente nel vuoto della società civile che il fascismo e la guerra avevano lasciato, si possono distinguere altri due modi diversi di concepire la vita: uno quello che fa capo a Elio Vittorini e al suo attivismo da rivista ( “Una rivista se ha il diritto di vivere è perché esprime un modo di pensare”: cfr. p. 222), calata direttamente nella realtà; l’altro quello di Pavese (“Se invece di far giornali, faceste libri, sarebbe un po’ meglio”: cfr. p. 246), il quale dimostra un risentimento verso il “nuovo” indiscriminato caldeggiato da Vittorini, accusando la troppa fretta di dimenticare il passato. In realtà Vittorini metteva in rilievo le cesure tra passato e presente mentre Pavese tendeva a valorizzare gli elementi di continuità. Sono due elementi che si intrecciano costantemente nella storia della casa editrice. Giulio Einaudi, in questi momenti caldi del dopoguerra, sposa la linea di innovazione e dinamismo rampante rappresentata da Vittorini, concedendo maggiori poteri alla redazione milanese. Cerca però di mediare le due tendenze, provando a tirare fuori il meglio da entrambe. Ad assumersi il ruolo di mediatore è Felice Balbo, l’unico personaggio della “vecchia guardia” aperto ai nuovi spunti vittoriniani.
Un altro elemento che caratterizza la linea editoriale di Einaudi, negli anni della ricostruzione nazionale, è dato dalle motivazioni direttamente politiche che la casa editrice si assume, in un rapporto privilegiato con il Partito Comunista Italiano che non intende tuttavia essere di identificazione alla sua politica culturale. Compito della casa editrice non è certo quello di una direzione sul piano ideologico, ma di orientamento culturale attraverso la ricerca, la discussione, la prova e la riprova. Una cosa è garantire l’unità ideologica dei lettori, un’altra quella di elaborare linee di ricerca critica. In questo contesto si colloca il difficile e delicato rapporto tra la Einaudi e il Pci. Il partito sembra guardare ad essa come a uno spazio di interesse non strettamente partitico. Anche se, nel corso della vicenda editoriale di quegli anni, non mancano esempi di attacchi diretti da parte della sua dirigenza del partito o di intellettuali ad esso organici nei confronti della casa editrice.
Alla fine, stando ai fatti, chiusa la rivista “Politecnico”, ridimensionati i ruoli della sede di Milano e di Vittorini, si potrebbe credere che sia la linea di Pavese ad avere la meglio. Ciò è vero ma solo in parte. Senza “Politecnico” la Einaudi non avrebbe il carattere assunto negli anni Cinquanta. E’ stata proprio la cosiddetta “volgarizzazione politecnica” (p. 246) a giovarle visibilmente.
A partire dal 1949 la casa editrice torinese sembra tornare su posizioni tradizionali di lunga durata, tenendo certamente in conto gli elementi nuovi che sono approdati. Non un ripiegamento, dunque, ma la presa d’atto che non è lo spazio immediatamente politico bensì l’incidenza culturale di più lunga durata, quello che la Einaudi deve far suo.
(Archivio Alinari)
Nei primi anni cinquanta entrano nella casa editrice nuove figure intellettuali. I modi di intendere la realizzazione dei libri si diversificano. Al pensiero di Leone Ginzburg, Pavese, Vittorini si aggiunge quello di Natalia Ginzburg e quello di Calvino. E’ una caratteristica peculiare che appare nei giudizi editoriali della Ginzburg, diretti, acerbi, quella di non considerare un’opera come rappresentante di un genere letterario o di una corrente, ma di concepirla in sé. Calvino segue questa linea innervandola di contenuti suoi propri, pacati ma decisivi, definiti in uno stile che farà scuola per le nuove generazioni di scrittori. Entrambi questi modi di intendere il pensiero sui libri contrastano decisamente con l’idea vittoriniana. Ci sono scritti che “pur non facendo ancora libro” – secondo un’espressione che usavano spesso Pavese e Vittorini nel loro lavoro editoriale, di cui si trovano molte tracce nelle lettere e negli incartamenti dell’archivio Einaudi - hanno la dignità per diventare pubblicazioni. Questo tipo di scritti Vittorini invitava a sperimentare: “O libri che si impongono per la loro forza poetica o intellettuale, o libri che riescano ad essere almeno innocenti e cioè ad avere una validità documentaria” (p. 661).
Siamo giunti intorno agli anni 1950-55. In questo periodo si notano i primi segni di uno sbandamento, di una incertezza reale nel giudizio da dare sui libri; ognuno cerca per suo conto, valuta e affronta possibili prospettive diverse. Le tensioni crescenti tra le varie anime della casa editrice, ormai da tempo percepibili in una serie di incomprensioni, portano alla sempre più pressante richiesta dell’avvio di una riflessione, non tanto sulle collane della Einaudi, quanto sul suo progetto complessivo. Si aggiungono reazioni istintive come segnali di una progressiva personalizzazione delle posizioni. Pure tra dissensi, tensioni, differenze d’ottica, si può cogliere qualcosa che va in una direzione diversa: i segni, dopo una lunga crisi, del progressivo cementarsi di un gruppo, alle soglie del 1956 (in concomitanza con il XX congresso del Pcus e dei fatti ungheresi pare che la cellula aziendale della Einaudi inizi a muoversi all’unanimità, almeno per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del Pci e dei suoi intellettuali). Non si può capire il significato del comportamento collettivo della redazione Einaudi se non si tiene conto di quanto sia costato lo scontro del 1951 (quando Vittorini aveva denunciato certe divergenze e si era allontanato dal partito) e delle conseguenze che esso aveva avuto negli animi degli intellettuali einaudiani. Sempre più ragioni politiche, morali e umane si sovrappongono rimettendo tutto in discussione.
Sono anni questi in cui si assiste ad una specie di ritorno al passato. Tempi nuovi, tempi di tornare alla politica, di abbandonare il disimpegno letterario, lo sguardo asettico ma di lunga durata sulla realtà. Vengono così tagliati anche i residui fili che collegano la casa editrice al Pci. Sono anche gli anni dei nuovi arrivi. In un consiglio editoriale, Norberto Bobbio si ripromette di fare qualcosa in più, di riprendere il ritmo di un tempo, ricordando agli altri l’importanza dell’innesto di giovani intellettuali vivi all’interno della casa editrice, di cui lui stesso confessa di essere un attento osservatore durante le “riunioni del mercoledì” (p. 877). Si prospetta l’ipotesi del formarsi di una nuova cultura, orientata a sinistra ma non più direttamente legata al Pci, di cui Fortini, e successivamente Solmi e Panzieri, giovani intellettuali emergenti, si fanno, in modo diverso, portatori. Sono iniziative e idee che vengono a poco a poco emarginate, fino ad esaurirsi da sole. A questo punto non rimane che una letteratura di ambienti circoscritti, sul filo della memoria, esemplare ma rivolta al passato. E’ il campanello d’allarme della fine di un stagione di ricerca letteraria viva ed entusiasta, che aveva visto la Einaudi sempre impegnata dentro la società, al passo coi cambiamenti
culturali e sociali della realtà.
Un bel libro di storia delle idee o di storia della letteratura non è affatto completo se non sa suscitare in noi interrogativi sugli eventi sociali e politici che percorrono gli anni presi in esame. Infatti la storia della letteratura ha implicita in sé la storia politica degli eventi che vi si narrano, cosa che viceversa non vale. Studiando la storia di quegli anni, abbiamo creato dentro di noi infinite immagini di quei protagonisti. Ma “vederli” adesso insieme, riuniti in un luogo, che ci simboleggia l’empireo di un certo tipo di cultura, “vederli” discutere animatamente sulle storie raccontate da altri, sul significato di proporre una di esse anziché un’altra, non può rimanere semplicemente una sensazione allo stato di foto mentale suscitata dentro di noi. Dalle immagini regalateci da questo bel testo ci pare che si debba trarre spunto per pensare i libri noi stessi, pensarli scegliendoli, facendoli così rivivere, suscitando dubbi e riflessioni. Come auspicava la frase che chiudeva Casa Einaudi, con questo nuovo testo troviamo uno spunto decisivo e anche un punto di riferimento per un esempio reale, concreto e definito di un modo di fare cultura.
Colpisce soprattutto il fatto che nel libro, intessuto di rigorose citazioni (da lettere, verbali di riunioni, incartamenti vari consultati in casa editrice) si respiri liberamente l’atmosfera di quegli anni. Scavando più a fondo si può perfino individuare, nascosta dietro le scelte editoriali, la personalità dei protagonisti, evidente soprattutto dai dibattiti in casa editrice. Potrebbe apparire ad una prima occhiata, con le sue mille pagine fitte di citazioni, note, rimandi bibliografici, passi interi di autori, il classico studio monografico di tipo accademico. Invece non lo è affatto. E’ un’autobiografia collettiva, una sorta di diario comune, nelle parole dei più grandi scrittori del nostro tempo che collaborarono attivamente alla vicenda editoriale. Seguendone le vicende, i contrasti, i dialoghi, si finisce per parteggiare con questo o con quell’altro. “Storie individuali e storie collettive si mescolano, ma naturalmente, storie di libri: quelli pubblicati ma soprattutto quelli solamente pensati” – scrive l’autrice nella premessa (p. IX).
Pensare i libri è dunque una storia di letteratura, ma più ancora di uomini. E’ nel momento progettuale che si colgono più chiaramente la sintonia o la dissonanza con la cultura del tempo, la capacità di incidere su di essa o di farsene trascinare. L’autrice sa mettere bene in luce, ancora prima della reale consistenza del lavoro pubblicato da quelle eminenti personalità della letteratura nel dopoguerra (Pavese, Balbo, Vittorini, Calvino e altri) il pensiero che sta alla base anche di quei testi che finiscono per non essere pubblicati, di quelle collane abortite per motivi ideologici, economici, personali.
L’analisi dei rapporti tra gli intellettuali in quel sodalizio, in quella casa “comune”, quale è stata per anni la Einaudi, ci permette di riflettere sul significato del pensiero individuale sui libri che si confronta con l’altro da sé, fino a diventare collettivo. La scelta o meno di un testo significa direttamente la possibilità che sia letto da un più o meno vasto numero di persone. Il valore di un pensiero originale, nella fattispecie sulla scelta di un libro, quando si confronta con un altro pensiero sullo stesso argomento di altrettanta rilevanza critica, seppure a volte di contenuto opposto, aumenta moltissimo. E’ da questo confronto continuo che emergono le idee più nuove e originali di un testo. Solo così esso acquista il grado massimo di elevazione morale per tutti o comunque, per più persone, divenendo collettivo. Un percorso del genere è stato la prassi che ha sancito i meccanismi di scelta e di verifica dei libri, all’interno della casa editrice. Scrittori rinomati colgono l’occasione per migliorarsi, ritrovarsi, nel confronto e nello scontro serrato, spesso scherzoso, con gli altri. Gli individui pensano da soli ma si propongono sempre agli altri. L’altezza di un pensiero individuale conta come possibilità che venga raggiunto da tutti.
Certo va anche detto che nel libro, se lo confrontiamo al già citato testo Casa Einaudi, manca un’analisi coerente su un aspetto che per Turi è decisivo nel ruolo che la casa editrice ha svolto in quegli anni: lo sviluppo della collana di testi storiografici. Luisa Mangoni minimizza, parlando di difficoltà di comprendere la realtà, evidente proprio nell’incerto modo di procedere nello sviluppo del settore storiografico. Gabriele Turi, aprendo una parentesi sulla situazione attuale dell’editoria riguardo alla pubblicazione di testi storiografici (tanti libri di tante case editrici ma pochi contenuti ed una carica ideologica minore) sottolinea che il peso della disciplina della storia nella formazione dell’uomo di cultura e nell’educazione civile e politica si è intensificato proprio in quegli anni del secondo dopoguerra grazie al ruolo svolto dalla casa editrice torinese, per poi avere il suo culmine nel 1968, fino ad andare incontro ad una crisi netta durante gli anni successivi. Turi evidenzia, riportando esempi di collane e autori, il modo in cui l’Einaudi, in quegli anni, ha costituito, nel settore storiografico, proprio una supplenza al ruolo dell’Università stessa. Si tratta di un’analisi sull’orientamento ideologico di questo ruolo in perfetta sintonia con quanto sostiene l’autrice: ci sono discussioni e contrasti tra i vari orientamenti culturali (tra cui ovviamente il marxismo), si registrano inflessioni diverse.
E’ chiaro che ci troviamo di fronte ad un modello di cultura e progettualità editoriale complesso, mai univoco o artefatto, ma legato alle vicende della società intera. Intellettuali diversi diedero vita ad un prodotto culturale complesso, multanime e originale, anche se un po’ illusorio. “C’era un elemento che accomunava Ginzburg, Pavese, Pintor, Bobbio, Alicata, Vittorini e altri” – scrive Balbo subito dopo la fine del rapporto di lavoro alla Einaudi – “Non era il laicismo della cultura, non era il razionalismo, non era il comunismo come tale, neppure per i comunisti. Era la causa del rinnovamento, la causa rivoluzionaria. Ma l’incontro di tutti questi soggetti intellettuali era soggetto al fallimento per due motivi: la sollecitazione interna della crescita organizzativa e quella esterna della situazione storico-politica generale” (G. Turi, Casa Einaudi, cit., 263-264). Viene da chiedersi se sia possibile proporre un modello di cultura del genere oggigiorno. Mancano i referenti intellettuali, manca perfino la casa comune. Non manca però l’elemento più importante: i pensieri e le idee dell’uomo, tutto un mondo sommerso di libri da pensare.
(Tratto da: “Italia contemporanea”, n. 225)
(Fonte Internet)