L'11 settembre e la globalizzazione
Fonte:Internet
Premessa
Per tentare di abbozzare, a dieci anni di distanza, un' analisi di lungo periodo sulle conseguenze culturali, politiche, sociali dell'11 settembre, si deve assumere come polo interpretativo il ruolo della globalizzazione intesa non come categoria puramente economico-finanziaria ma secondo la sua più complessa accezione storiografica, percorrendo le tappe della sua evoluzione e analizzandola con l'ausilio delle scienze sociali. L'evento, infatti, al di là della spettacolarizzazione mediatica, è risultato eccezionale anche per ragioni storiche: mai, dal lontano 1812, gli Stati Uniti avevano dovuto subire un attacco diretto sul proprio territorio nazionale (in quel caso da parte dell'impero britannico).
La sfida lanciata dal terrorismo internazionale con gli attacchi dell'11 settembre, che ha segnato la fine del periodo di transizione aperto dalla caduta del Muro di Berlino e l’ingresso definitivo nell'età della globalizzazione, in realtà viene da lontano ed è collegata a processi precedenti, come la fine della guerra fredda e dei regimi comunisti, la rinascita di ideologie nazionaliste e populiste, talvolta a sfondo religioso. Nel caos internazionale che ne è derivato, dettano le regole del gioco organismi ed entità – tra cui multinazionali, Fondo monetario, G8 - che danno vita a rapporti trasversali di potere. Gli stati vengono sempre più condizionati da fattori internazionali, in cui l'azione politica è sottoposta ai dettami del mercato mondiale.
Secondo una recente ricerca condotta dal gruppo di studio “Eisenhower” della Brown University, i costi dell'11 settembre sono stimati in termini umani in 225 mila persone rimaste uccise nel mondo, delle quali solo poco più di 31 mila appartenenti ad eserciti o a gruppi militari, e, in termini economici, in più di 4 mila miliardi di dollari. In realtà, come vedremo, i costi dell'11 settembre sono stati ben più alti ed abbracciano ben altri aspetti della vita di cittadini di tutto il mondo.
Contesto economico-finanziario
Dal punto di vista strettamente finanziario, il cosiddetto economic impact, dovuto agli attentati alle Twin Towers del World Trade Center di Manhattan a New York, è stato calcolato in 200 miliardi di dollari. Già a partire dal 24 settembre 2001, dopo le prime ingenti perdite dovute alla paura della gente e, in particolare, degli investitori, le borse americane ed europee, a seguito della decisione della Banca centrale americana e di altre banche centrali europee di praticare una politica di denaro a basso costo e di inondare di liquidità il sistema economico-finanziario mondiale, ripresero a salire, per ritornare lentamente alla normalità alla metà del 2002. Se facciamo una comparazione, molto più traumatici sono risultati i danni di lungo periodo di quella scelta che finì col “drogare” virtualmente il sistema economico mondiale, portando alla cosiddetta “crisi dei mutui” e al grande “crash” di Wall Street del settembre 2008, con perdite fino a 3 mila miliardi di dollari, ben oltre dieci volte l’impatto immediato dell'attentato.
Con l'11 settembre sono cambiate anche le impostazioni del commercio estero. Prima di quella data si credeva che attraverso il liberismo economico la globalizzazione avrebbe diminuito le differenze tra i vari paesi, abbassando il tasso generale di povertà. Dopo, la globalizzazione si è diversificata: sono tornate le scelte protezioniste, per cui l'Europa preferisce commerciare con sé stessa o con la Russia, la Cina attira commercio in Asia e negli Usa, mentre questi ultimi esportano soprattutto negli altri stati americani, in particolare Canada e Messico. L’11 settembre ha inoltre introdotto una forte variabile sul prezzo del petrolio.
Instabilità è il termine che appare più indicato ad esprimere la situazione vissuta dagli stati sotto il profilo economico-finanziario.
Contesto militare-strategico
Dal punto di vista militare, l'11 settembre ha rappresentato un punto di non ritorno, in direzione opposta rispetto agli anni del disarmo nucleare e della cosiddetta distensione. Già a partire dal 2002 il bilancio della difesa statunitense è stato incrementato, toccando la vetta di 343 miliardi di dollari.
Può apparire interessante comparare, in chiave storica, le spese militari dei vari paesi in età diverse: secondo i dati dell'International Institute for Strategic Studies di Londra, un anno prima dell'11 settembre, le spese militari statunitensi assommavano a 283 miliardi, contro i quasi 57 della Russia (un quinto circa della potenza bellica statunitense, proporzioni a dir poco impensabili soltanto qualche decennio prima), i 40 del Giappone e i quasi 39 della Cina. Si tenga presente che, nel 1900, le spese militari dell'impero britannico, compreso tutto il suo apparato coloniale, erano pari a poco più di 100 milioni di sterline, contro i 24 milioni dei francesi e i 20 dei tedeschi. Le proporzioni, come si vede, rispecchiano sempre la simmetria tra la posizione e il ruolo del paese leader militare e gli altri, e confermano la tesi della continuità di un'economia-mondo capitalistica gravitante attorno a un centro sia economico-finanziario sia militare.
Nel 2009, secondo lo Stockholm Intenational Peace Research Institute, le spese militari erano così ripartite: Usa 663 miliardi, Cina 98 miliardi, Inghilterra 69 miliardi, Russia 61 miliardi, India 36 miliardi. Una sempre più accentuata instabilità sembra dunque accompagnare la leadership degli Usa che si esprime ancora con forza sulle spese militari, ma che li ridimensiona molto nelle relazioni commerciali internazionali.
Si è giunti, rispetto al secolo precedente, ad una maggiore frammentazione degli stati, passati dai 40 del 1900 ai 180 circa attuali, e ad un aumento esponenziale dei conflitti armati. Dal 1480 al 1800 scoppiava un importante conflitto internazionale all'incirca ogni mesi, mentre, dopo l'11 settembre,aumentano i conflitti locali tra gli stati e tra i gruppi armati non convenzionali.
Va detto, però, che è cambiato molto, negli ultimi tempi, il modo di fare la guerra. In un volume del 1999 dal titolo Le nuove guerre, ben prima dell'11 settembre, Mary Kaldor aveva già individuato nelle più recenti guerre caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, legata soprattutto all'idea della conquista o della difesa territoriale. Le nuove guerre si fondano su elementi di identità (nazionale, etnica, religiosa) e su diversi metodi di combattimento, come le tecniche di guerriglia o la spettacolarizzazione mediatica dei conflitti. L'analisi di Kaldor si concentrava, in particolare, sulle guerre civili “internazionalizzate”, nei Balcani, nel Caucaso, in Asia centrale, nel Corno d'Africa, in Africa centrale e occidentale. Nell'era della globalizzazione e della delocalizzazione, si delocalizzano anche le guerre, soprattutto in paesi con un'economia debole, e gli stessi terrorismi. Quando i terroristi globali hanno dei problemi in un paese, fanno come la General Motors, la Nestlé, la Nike o la Pepsi: si spostano altrove.
Anche gli attentati di New York e Washington sono stati definiti “atti di guerra. Le guerre classiche contrapponevano stati nazionali o quantomeno entità politiche chiaramente identificabili, mentre gli attentati dell’11 settembre non sono stati ufficialmente rivendicati, sono stati attuati da nemici senza un preciso volto.
La fine della guerra fredda non ha segnato la fine dei conflitti, bensì la modificazione dei loro caratteri. È questa una sorta di guerra globale, una “guerra delle reti” (“netwar”), per riprendere l’espressione coniata nel 1996 da David Ronfeldt e John Arquilla in The advent of netwar, in cui il concetto-chiave è quello di asimmetria, intesa da un punto di vista degli obiettivi strategici, dei mezzi utilizzati, della natura psicologica, e in cui i limiti territoriali e gli spazi esterni vengono annullati e la zona di guerra si confonde con l'intero pianeta. Alla “guerra fredda” succede una sorta di “pace calda”.
Il terrorismo internazionale ha trovato terreno fertile nella prospettiva della globalizzazione. Se è vero che il mondo intero è entrato nell'era delle reti (finanziarie, industriali, dell'informazione, ma anche criminali) e si evolve secondo continui spostamenti di flussi e di interconnessioni (di informazioni e immagini), è altrettanto vero che questo nuovo terrorismo risulta composto da varie centinaia di organizzazioni esistenti proprio sotto forma di reti. Si tratta di strutture fluide, decentrate, non obbligatoriamente gerarchiche, ma spesso formate da gruppi eterogenei, che svolgono operazioni di guerra di varia natura, senza una precisa guida a monte, che sono in contatto senza alcuna base territoriale precisa, la cui velocità di elaborazione e distanza fisica le rende quasi inattaccabili.
E' interessante, a questo proposito, riportare l'esempio dell'apparato strategico cinese, secondo quanto descritto nel volume del 2001 di Liang e Xiangsui dal titolo Guerra senza limiti. In Cina, ben prima dell'11 settembre, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999, hanno sviluppato, in modo completamente rivoluzionario, i concetti di guerra asimmetrica e armi “senza limiti”, soluzioni per opporsi allo strapotere economico e militare degli Stati Uniti. Questa nuova “arte della guerra” si propaga con la modalità tipica delle reti, cioè con i virus informatici, le speculazioni borsistiche, la propaganda mediatica, i blocchi commerciali, il traffico di stupefacenti, il terrorismo biochimico o ecologico (come quello dell'antrace usato come arma batteriologica).Gli speculatori in borsa, come si intuisce bene in questi giorni, possono mettere a rischio la finanza globale. Un hacker senza alcuna professionalità militare è in grado, di compromettere i sistemi di sicurezza di un esercito o di un paese in poche azioni mirate.
La possibilità di usare come vere e proprie armi anche strumenti normalmente a disposizione della popolazione civile è un elemento di un certo interesse, se si tiene conto che l'iniziativa di guerra asimmetrica alternativa proviene da una nazione come la Cina che agli inizi del Duemila impegnava, in proporzione, quasi il doppio delle proprie risorse in spese militari (5,3% del Pil) rispetto ad altre nazioni come gli Usa (3%), l'Inghilterra (2,4%), la Russia (5%), ma soprattutto perché mette in luce quella che appare la contraddizione di fondo della politica estera statunitense: l'inefficacia dell'utilizzo delle più sofisticate tecnologie militari contro avversari non convenzionali, spesso mimetici e differenziati tra loro, contrari al rispetto delle convenzioni internazionali e non disponibili a trattare rese più o meno condizionate.
Contesto socio-culturale
Dal punto di vista culturale e sociale, i costi dell'11 settembre risultano davvero rilevanti. Basti prendere in considerazione, sinteticamente, l'impatto immediato avuto sul diritto internazionale e sulla questione dell'immigrazione.
Dopo il drammatico evento, molti paesi, compresi parecchi di quelli che normalmente consideriamo “democratici”, Stati Uniti in testa, hanno introdotto delle legislazioni speciali di emergenza internazionale, allo scopo dichiarato di combattere o prevenire il terrorismo, contenenti misure che hanno intaccato, quando non violato apertamente, la sfera dei diritti umani. In realtà, l’indifferenza degli Stati Uniti nei riguardi del diritto internazionale e del regolamento interno dell’Onu si era già manifestata in precedenza, ad esempio in occasione della guerra del Golfo. Lo stesso, dopo l'11 settembre, è accaduto in Afghanistan e in Iraq. Questo atteggiamento di diffidenza verso forme di collaborazione sovranazionale ha avuto modo di manifestarsi anche in altre importanti tematiche globali, come quella del rifiuto americano di sottoscrivere il protocollo di Kyoto per la riduzione delle emissioni inquinanti nell'ambiente. A esemplificazione di un certo modo di intendere i diritti umani è stato identificato simbolicamente, se pure condannato ufficialmente dall'amministrazione americana, il carcere di Guantánamo, eretto in una base militare cubana per torturare deliberatamente i terroristi catturati.
La necessità immediata, proclamata al mondo dagli Usa, di combattere con ogni mezzo il terrorismo internazionale, ha comportato l'applicazione di misure di sorveglianza e di controllo con severe restrizioni delle libertà pubbliche, di espressione e di comunicazione, che sono state accettate passivamente dall’opinione pubblica quanto più sono state presentate come misure necessarie alla loro stessa “sicurezza”. Quindi, se da un lato, la lotta al terrorismo ha accelerato il declino dello stato-nazione, dall’altro ha finito con il rafforzare i poteri di controllo degli apparati statali e la crescita di una società di “sorveglianza globale”.
Lo stesso processo di chiusura si è verificato riguardo ai flussi migratori e al fenomeno dell'asilo umanitario.Dopo l'11 settembre, l’emigrazione è diventata un questione di sicurezza nazionale: l'immigrato viene generalmente associato ad uno status di illegalità, per cui il trattamento giuridico che gli viene riservato, anche in molti stati europei, lo esclude dall'area dei diritti civili basilari, includendolo, a sua volta, nel vortice delle economie illegali.
Scontro di civiltà o dialogo?
Dopo l'11 settembre, portando alle estreme conseguenze una tesi espressa nel libro di Samuel Huntington The Clash of civilization, uscito nel 1996, si è diffuso il concetto di “scontro di civiltà”. La risposta degli Stati Uniti di George W. Bush all'11 settembre ha insistito sullo stereotipo di uno scontro frontale tra Islam e Occidente, esasperandone i contenuti, e creando pregiudizi e paure spesso ingiustificate tra la popolazione.
Una tale visione semplicistica, molto forte a livello mediatico, implica una rappresentazione erroneamente unitaria e impermeabile delle culture dei diversi popoli e dei singoli, tendendo a cancellare, da un lato, le differenze, ad esempio, tra Europa e Stati Uniti, e, dall'altro, a fare dell’Islam un insieme compatto e monolitico. Come ha sostenuto, invece, Edward Said in Covering Islam, un volume del 1997, “quando si parla dell’Islam, si eliminano più o meno automaticamente lo spazio e il tempo”, nel senso che geograficamente e politicamente il termine “Islam” non esiste, così come non esiste quello di “Occidente”.
D'altra parte, già da tempo gli Stati Uniti avevano assunto nello scacchiere internazionale una posizione sempre più unilaterale, pronta a difendere i propri interessi e a sfidare il pericolo di un nuovo isolamento dall'alto della propria indiscussa superiorità economica e militare, come hanno dimostrato le vicende in Somalia, Nicaragua, Haiti, El Salvador, Repubblica Dominicana, Panama, Sudan, Afghanistan e Iraq. La retorica dei “diritti dell’uomo” e della “democrazia occidentale da esportare” ha accompagnato la maggior parte di questi interventi unilaterali che, se non appaiono in grado di garantire la sicurezza dei cittadini americani ed europei, hanno esposto a rischi migliaia di civili in altre parti del mondo.
A conti fatti, dunque, la strumentalizzazione del legittimo risentimento suscitato nell'opinione pubblica dopo l'11 settembre e indirizzato, in modo generalizzato, contro l'immigrazione e il mondo musulmano, l’idea di una superiorità naturale dell'Occidente, la tesi dello scontro di civiltà, l'idea secondo cui il liberismo economico costituirebbe per tutte le culture l'unico orizzonte di progresso, rappresentano, a ben guardare, i migliori alleati per il terrorismo internazionale.
Hannah Arendt, nel suo The origins of Totalitarism, del 1973, ha scritto che ogni regime totalitario ha bisogno di un “nemico metafisico”. Di certo non è possibile considerare gli Stati Uniti e l'Occidente alla stessa stregua di un regime totalitario, ma è evidente che, dall'11 settembre in poi, anche essi hanno scelto il loro nemico metafisico, ovvero il terrorismo internazionale, utilizzato spesso per coprire interessi economici.
Nuovi scenari
A dieci anni dall'11 settembre, l’intero sistema delle relazioni internazionali è stato sconvolto proprio dalla lotta contro il terrorismo globale. Dopo l'11 settembre, per guidare la lotta al terrorismo internazionale e nel tentativo del mantenimento di un ordine globale, gli Stati Uniti si sono alleati provvisoriamente con paesi storicamente ad essi ostili, come India, Cina e Russia (contro cui aveva combattuto la precedente guerra in Afghanistan del 1979).
Ma a partire dal 2008 e, in particolare, nel 2010, lo scenario globale ha cambiato ancora aspetto. La crisi finanziaria ha rivelato la debolezza degli Usa, quando ancora erano in corso le guerre in Afghanistan e in Iraq. Con la presidenza di Barack Obama doveva prendere il via un’ asse strategica cinese-americana che avrebbe reso tutti gli altri stati meno influenti. Ma la Cina, in politica internazionale, preferiva orientarsi per un ordine mondiale multipolare, in cui la propria forza avrebbe potuto contare ancor di più.
La crisi economica globale, e in particolare quella dei paesi dell'Unione europea, hanno reso gli Stati Uniti ancora più deboli, di fronte al colosso economico cinese e alle “tigri” asiatiche, che viaggiano a ritmi di crescita e produttività insostenibili per gli occidentali.
Dal 2011 le due grandi potenze sono in aperta rotta di collisione. Il nemico principale per gli Stati Uniti, dunque, non è più il terrorismo fondamentalista islamico (da qui la recente cattura e l'uccisione di Bin Ladin) ma un nuovo ben più temibile e potente nemico, contro il quale occorre orientare europei, giapponesi dalla propria parte e mantenere neutrali indiani e russi. Inoltre, di recente, la rivolta dei popoli del Maghreb (ma anche della Siria) che chiedono l'abbattimento dei regimi e l'instaurazione di nuove repubbliche democratiche, ha stravolto ancor più il quadro. Se la rivolta dovesse prender piede in Arabia Saudita, gli Usa, tenuto conto delle sue crescenti difficoltà economiche, sarebbero costretti a concentrarsi solo lì, dove esistono i maggiori pozzi petroliferi del mondo, perché il barile di petrolio potrebbe salire oltre i 200 dollari, con conseguenze ancora più imprevedibili e disastrose sull’economia mondiale.
Fonte: “Per la Storia”, B. Mondadori, n. 47, dicembre 2011
Italia a basso sviluppo "umano"
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
In questi ultimi tempi, soprattutto dopo la vicenda del fallimento della Grecia e le difficoltà di Portogallo e Irlanda, non si fa altro che parlare del possibile declassamento dell’Italia, da un punto economico, a paese di secondo rango. Il problema è indubbiamente reale e non va sottovalutato. Anche analizzando la questione esclusivamente in termini di Pil, un parametro di comparazione ormai limitato e tutt’altro che efficace, la parabola discendente del nostro paese appare inconfutabile: da quinta potenza mondiale, nel 1986, quando scavalcammo addirittura l’Inghilterra, a ventinovesima oggi, in termini pro capite. Per dare un’idea del degrado socio-economico del paese basta ricordare due dati: il potere di acquisto dei salari italiani è progressivamente diminuito da 13,6 punti del 1971 a circa 1 punto nel 2010; il compenso per ora lavorativa è ben al di sotto di paesi europei come Svezia, Danimarca (dieci volte maggiore), Norvegia, Germania, Francia, e tra i più bassi di tutti.
Se poi osserviamo il livello di competitività dei paesi mondiali non attraverso il dato del semplice benessere economico o del salario medio ma secondo un’altra più interessante e utile lente, cioè a dire lo sviluppo culturale e i diritti umani, ci rendiamo conto di essere diventati, e da un bel pezzo, uno dei fanalini di coda.
Si lamenta il profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica insensibile agli effettivi problemi e bisogni della gente e il mondo vitale della società che si impegna nella quotidianità ed è veramente costruttore di storia. Questo aspetto è emerso, con grande portata ma non ancora con l’impatto rivoluzionario di cambiamento che certe premesse meriterebbero, in occasione del recente voto referendario.
Si depreca, spesso, che il parlamento sia indotto a legiferare solo sulla base degli interessi opportunistici di singole personalità o di spinte corporative di ben individuati gruppi di pressione (dalla P2 alla P4), o, eventualmente, a seguito dell’esplodere di problemi enormi (tipo il caso dei rifiuti di Napoli), rincorsi, più che previsti. Sono ormai dati di fatto, che condannano, nel giudizio ormai quasi unanime della storia, le classi dirigenti degli ultimi decenni.
Non si deve affatto pensare, però, che prima l’Italia fosse un paese all’avanguardia nel campo della legislazione sui diritti e nello sviluppo umano. Siamo sempre arrivati in enorme ritardo rispetto ad altri paesi europei all’appuntamento con leggi e provvedimenti volti a migliorare il grado di civiltà del paese.
Per dare l’idea basti prendere in esame, sinteticamente, alcune vicende. La legge sull’adozione dei minori prevista in Svezia o in Olanda molti decenni prima, in Italia veniva abbozzata solo a partire dal 1965, e con moltissimi limiti, ovvero con l’adozione speciale (poi rivista nel 1983), e tuttora non proprio all’avanguardia.
La legge che ha reso legale il divorzio fu votata in Italia nel 1970 (solo Spagna, Irlanda, Liechtenstein e Andorra, tra i paesi europei, a quella data, non l’avevano ancora fatto), mentre in Inghilterra una simile legge era presente fin dal 1857 con il Divorce Act e in Francia addirittura dal lontano Code civil del 1792.
La legge sull’assistenza psichiatrica in Francia è stata promulgata già alla fine dell’Ottocento, e mentre in Inghilterra e in Svizzera la psichiatria era comunque considerata una materia di primo ordine e di alto valore sociale, in Italia, come al solito in netto ritardo, doveva arrivare Basaglia, nel 1978, ad aprire alcune prime utili prospettive legislative in un settore totalmente snobbato ed emarginato.
La legge sulla regolamentazione della gravidanza, approvata da noi solo nel 1978, quando nella quasi totalità degli altri paesi del mondo già esisteva (eccetto che nei casi di Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, e di pochi altri paesi africani, asiatici e sudamericani).
Infine la legge contro la violenza sessuale sulle donne, approvata in Italia, pur con molti limiti, nel 1996, con un ritardo a dir poco abissale rispetto ad altre legislazioni di paesi europei e occidentali.
In un contesto di cronica arretratezza, però, il parlamento italiano, pur dominato da posizioni contrapposte tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, e pur segnato da quello che alcuni politologi hanno definito un limite di “decisionismo”, dovuto alla poca forza del potere esecutivo rispetto al legislativo, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta, era riuscito, in qualche maniera, ad allinearsi, in un certo senso, con gli altri paesi “civili”.
Quello che è accaduto successivamente, dagli anni Novanta, dopo la spinta al bipolarismo e la nascita dei “moderni” partiti mediatici, è, in buona sostanza, sotto gli occhi di tutti. Ma forse è bene rinfrescare la memoria a chi tende a dire “tanto è così un po’ dappertutto”, oppure, “è colpa della crisi globale”. Anche in questo caso, riportare qualche esempio, rifacendoci proprio a quei parametri di “sviluppo umano” accennati all’inizio, può essere utile.
A tal proposito ci viene in aiuto una fonte estremamente interessante, ovvero lo Human Development Report 2010 delle Nazioni Unite. Un rapporto fondato sull’analisi di una serie di indicatori raggruppati in alcune aree considerate essenziali allo sviluppo. E’ evidente che solo comprendendo quali siano i veri fattori chiave che alimentano lo sviluppo e la produttività e quali gli ostacoli da rimuovere, si possono mettere in atto riforme capaci non solo di migliorare il reddito pro capite ma soprattutto di dare maggiori opportunità ai propri cittadini.
E’ utile analizzare, a questo proposito, alcune variabili come la possibilità di accesso alle istituzioni e al mondo del lavoro da parte di uomini e donne, la funzionalità delle infrastrutture, l’impatto delle politiche su salute e istruzione (primaria, superiore e universitaria), la disponibilità tecnologica, l’innovazione della ricerca.
Secondo questi parametri l’Italia, con 23 punti, si colloca addirittura intorno alla cinquantesima posizione in termini di livello di competitività (si tenga presente che la Norvegia, ovvero il paese più progredito, ha totalizzato 1 punto, mentre l’ultimo, il Congo, 169 punti) e su almeno 9 dei 12 parametri, è messa molto peggio degli altri paesi sviluppati, e, sembra incredibile, anche di alcuni paesi in via di sviluppo. Solamente tra il 2009 e il 2010 siamo scesi di cinque posizioni in classifica, producendo un impoverimento della popolazione italiana ed allontanandoci sempre più dal benessere, non solo economico ma anche culturale e sociale, degli altri cittadini del mondo. Non solo di quello occidentale ma anche medio-orientale, africano e asiatico.
Scendendo nel merito, si scoprono informazioni interessanti circa i livelli più bassi toccati dal nostro paese. Non molti sanno, infatti, che la quota di popolazione italiana con almeno il livello di istruzione secondaria raggiunge appena il 46,7% contro una media dei paesi sviluppati Oecd del 73,8% (con livelli ben più alti per Norvegia 99, Australia 96, Stati Uniti 94, Germania 91).
Un altro elemento su cui riflettere, a dispetto delle continue richieste di abbassamento dei livelli di spesa pubblica formulate dall’attuale classe politica, sono le spese per la sanità, con un punteggio di 2686, contro una media dei paesi sviluppati Oecd di quasi il doppio (4222), in particolare le spese in letti di ospedale (39 contro la media europea di 63).
Oltre alle note differenze di salario tra uomo e donna, in linea peraltro con i 33 paesi principalmente sviluppati (il 74% circa rispetto a quello degli uomini nel periodo 2003-2006), colpisce il bassissimo dato dei seggi in parlamento occupati dalle donne, per l’Italia appena il 20,2% contro 47% di Svezia, 39 di Olanda, 31 di Germania, 41 di Finlandia, 33 di Spagna, ma soprattutto sorprendono le medie, ben superiori alla nostra, di stati come Singapore, Portogallo, Emirati Arabi, Argentina, Costarica, Sud Africa, Cina, Cuba e perfino Iraq.
Altri dati significativamente bassi sono quelli relativi: al grado di impegno politico della cittadinanza, con i 14 punti dell’Italia (meno di noi solo paesi come Polonia, Romania, Kazakistan, Armenia, Sri Lanka, Bangladesh, Yemen, Myanmar, Nepal e Zimbawe); e al livello di soddisfazione per la libertà di scelta e la rappresentanza politica, in cui il nostro paese si colloca a quota 60 punti (tra tutti gli stati del mondo raggiungono un punteggio inferiore solo Corea, Grecia, Slovacchia, Estonia Ungheria, Bulgaria, Albania, Ucraina, Romania, Algeria, Mongolia, Pakistan, Congo, Madagascar, Togo, Senegal, Etiopia, Zimbawe, Burundi, Cuba e Iraq).
A proposito di libertà intesa in senso più ampio, può essere utile riportare ciò che riferisce Amnesty International sul nostro paese nel Human Rights Report 2011, per confrontarlo col recente passato. Potrebbe apparire paradossale il confronto ma, a ben guardare, non lo è affatto.
Nel Rapporto sulla Tortura negli anni Ottanta (pubblicato da Amnesty), cioè in pieno terrorismo, si può leggere che la tortura ed il maltrattamento di persone nelle carceri non erano una prassi di normale amministrazione in Italia.
Nel recente rapporto relativo agli ultimi anni, invece, si parla di violazione costante dei diritti di Rom e Sinti, sprezzanti commenti discriminatori su lesbiche e gay, formulati da parte di alcuni politici, e violenti attacchi della popolazione contro migranti, che suscitano un clima di intolleranza, impossibilità da parte dei richiedenti asilo politico di accedere alle procedure di protezione internazionale (le domande d’asilo in Italia hanno continuato a diminuire drasticamente), maltrattamenti da parte di agenti delle forze dell’ordine su giovani e su detenuti.
In questo fosco quadro, va ricordato che il governo italiano ha, ancora di recente, respinto 12 delle 92 raccomandazioni complessive ricevute da Comunità europea e Nazioni Unite, e rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale e nel codice penale, nonché di abolire il reato di immigrazione irregolare, soprattutto tenuto conto del cronico sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane.
Alla luce di tutto ciò non pensate si possa tranquillamente concludere, senza timore di smentite, che l’Italia è stato ed è ancora un paese dallo sviluppo troppo poco “umano”.
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Ineguaglianza e povertà nella globalizzazione
La globalizzazione contemporanea aumenta o riduce l’ineguaglianza nel mondo?
Ormai da anni politici, economisti, sociologi cercano risposte a questa domanda. Ci sono gli scettici, i radicali, gli indecisi e, come spesso accade quando si tratta di questioni economico-finanziarie e politiche, è difficile che si pervenga a conclusioni pacificamente condivise. Chi sostiene radicalmente che la piena integrazione del commercio mondiale, intesa come leva di sviluppo, sia destinata a far diminuire e, in prospettiva, a cancellare povertà ed emarginazione sociale, si appoggia a dati empirici rilevanti. A partire dalla rinascita dell’economia giapponese nel secondo dopoguerra, infatti, in Asia si è verificato un vero e proprio nuovo «miracolo economico» (diffusosi prima in Corea del sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, per poi contagiare Malaysia, Thailandia, Vietnam, fino alla crescita recente e accelerata del gigante cinese). In ciascuno di questi paesi un’espansione economica trainata dalle esportazioni (che incide sostanzialmente su reddito nazionale e variazione dei prezzi dei beni) ha prodotto risultati significativi sul fronte della lotta alla povertà. Anche se va subito messo in evidenza, a questo proposito, che l'aumento del reddito nazionale, a seguito dell'apertura di questi paesi al libero scambio, contribuisce alla diminuzione generale delle sacche di povertà, ma lascia sostanzialmente immutata la distribuzione del reddito. In ogni caso, tra il 1981 e il 2001, le persone che in questa zona del mondo vivono con meno di un dollaro al giorno calano, secondo cifre fornite dalla Banca Mondiale, da un miliardo e 200 milioni (54% sul totale degli abitanti) a 700 milioni (23%). Se si provano a consultare su www.socialanalysis.org i dati forniti dalla Food and Alimentation organization delle Nazioni Unite, la tendenza al ribasso della povertà è confermata, pur se in termini più contenuti: il numero delle persone denutrite sarebbe calato in Asia da 569 a 519 milioni,
e in particolare in Cina, passando da 193 a 142 milioni.
Tuttavia i dati empirici a supporto della tesi opposta non mancano affatto. Il Rapporto sullo sviluppo umano compilato dalle Nazioni Unite nel 1999 sostiene che le differenze tra i popoli e gli stati più ricchi e più poveri hanno continuato ad allargarsi. Nel 1960 il 20% della popolazione mondiale che abitava nei paesi più ricchi aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero.
La proporzione è aumentata a 60 volte nel 1990 e a 74 nel 1997,
mettendo in luce una tendenza di fondo che dura da quasi due secoli.
Andando oltre le statistiche, se è pur vero che è povero non solo chi ha una ridotta disponibilità di risorse, ma anche chi non è in grado di utilizzarle, va sottolineato che povertà e ineguaglianza (oltre a mancanza di libertà) rappresentano due aspetti della realtà che non possono essere confusi né assimilati. Esistono paesi – come per l’appunto l’Italia – con poca ineguaglianza e molta povertà relativa (nel 1998 il rapporto tra reddito della popolazione più ricca e quella più povera era di 4,2, mentre la percentuale di popolazione che viveva con meno della metà del reddito medio era addirittura il 12,8). Non necessariamente però tra i due aspetti sussistono rapporti di proporzione diretta: la povertà può benissimo ridursi mentre contemporaneamente cresce l’ineguaglianza. Proprio la Cina incarna in modo emblematico questa contraddizione. La diminuzione della povertà (da 600 a 200 milioni di persone) si accompagna infatti a una crescita di aree di benessere da cui ha inizio una tendenza, ormai consolidata da decenni, all’aumento dell’ineguaglianza del tutto paradossale per un paese comunista: tra 1980 e 1998 la differenza tra redditi familiari urbani e rurali (da 4,6 a 7,9) si allarga progressivamente fino
a raggiungere livelli non distanti da quelli degli Stati Uniti (8,9).
Al tempo stesso, però, se si esclude la Cina, i poveri della Terra aumentano negli ultimi vent’anni da 845 a 888 milioni, con una crescita significativa nei paesi ex comunisti (da 1 a 18 milioni), in America latina (da 36 a 50) e soprattutto nell’Africa subsahariana (da 164 a 314). Almeno per il momento, dunque, la «miracolosa» ricetta asiatica non sembra convincere del tutto
e non è direttamente esportabile in altre parti del mondo.
(Archivio Giunti)
Si tratta, in primo luogo, di allargare la visione sulla questione più generale della povertà nel mondo almeno alla storia degli ultimi secoli, confrontando, per esempio, l'economia del Settecento con i mercati di oggi. Costretti ad analisi approfondite nel breve periodo, invece, economisti e sociologi finiscono per avere una visione dello sviluppo dei paesi poveri troppo schiacciata sul periodo coloniale e sullo sforzo di modernizzazione successivo. Il problema è che spesso questo approccio si trova di fronte a pregiudizi che risalgono alla storia precedente e finisce per assimilare casi specifici e limitati spazialmente e temporalmente ad una sorta di luogo comune della povertà e dell'arretratezza: si fa così riferimento a presunte identità etniche in conflitto, magari abilmente sfruttate dai regimi coloniali, come nel caso di Hutu e Tutsi nel Congo Belga; a logiche tribali di fazione e clientelismo che aumentano a dismisura i livelli della corruzione della burocrazia pubblica; a inerzie e resistenze delle comunità locali nei confronti dei processi pianificati di industrializzazione e commercializzazione dell’agricoltura; ad appartenenze religiose capaci di condizionare e stravolgere i meccanismi della rappresentanza elettiva; ad una instabilità cronica dei governi e delle istituzioni del luogo. In Asia, Africa, America latina la storia passata e recente è piena di episodi e vicende interpretate secondo questi luoghi comuni. Si rischia, così facendo, di riproporre per i paesi del Terzo mondo, la stessa visione che Hegel aveva dell’Africa come spirito non sviluppato, senza storia, ancora avvolto nelle condizioni naturali.
Eppure la storia recente delle ricette che i paesi ricchi hanno via via elaborato nel corso del XX secolo per risolvere i problemi dei paesi poveri, è anche la storia delle sconfitte di quegli stessi luoghi comuni di cui erano plasmati quasi tutti i progetti di modernizzazione elaborati dall’Occidente. La razionalità dell’homo oeconomicus o politicus occidentale si trova costretta a scendere a patti con logiche, identità e credenze diverse, legate a contesti culturali «altri» e «diversi», dove quei modelli
di comportamento elaborati in Europa o sono assenti o sono presenti in forme minori.
La questione dell’ineguaglianza e del sottosviluppo non è, dunque, solamente una questione che si può interpretare con il solo strumento della storia economica, magari mettendo a confronto lunghi elenchi di dati e statistiche, ma si intreccia con la storia delle scienze sociali. Nello stesso tempo, ineguaglianza e sottosviluppo sono, per definizione, concetti relativi e soggettivi, fondati sul confronto dei giudizi e pregiudizi individuali e collettivi, che insieme formano il modo di guardare alla propria esperienza e a quella degli altri. Di fronte alla scoperta dell’ineguaglianza, la «piccola» storia delle scienze statistiche si intreccia con la «grande» storia
della coscienza europea ed occidentale posta a confronto con gli «altri».
Quando, come e perché il problema dell’ineguaglianza tra paesi poveri e paesi ricchi si pone all’attenzione dei primi e dei secondi? Quale ruolo gioca il colonialismo nell'odierna realtà dei paesi in via di sviluppo? In che misura comportamenti e strategie di sopravvivenza dei poveri di tutto il mondo affondano le proprie radici in tradizioni e consuetudini ancora più antiche dell’arrivo degli occidentali? Quali sono state, nel corso del tempo, le diagnosi e le terapie contro arretratezza socioeconomica?
E come è cambiato l’atteggiamento dei paesi poveri nei confronti dell’Occidente?
Si tratta, con tutta evidenza, di domande complesse, alle quali non è facile dare risposte del tutto coerenti.
(Tratto da: “Globalizzazione” (Giunti, Firenze)
Divorzio. A quarant'anni dalla legge, il dibattito è ancora aperto
Oggigiorno, di fronte all'arretratezza (più corretto sarebbe dire diversità) di certi costumi in uso nei paesi dell'Islam o davanti al palese non rispetto dei più elementari diritti civili in Estremo Oriente (si pensi a quello che sta accadendo in Birmania), sembriamo quasi esserci dimenticati che non più quarant'anni fa, qui in Italia, erano permesse, per legge, azioni che a ricordarle oggi sembrano impossibili. Per esempio, un marito poteva tranquillamente proibire alla moglie di uscire senza la sua compagnia e non era reato percuoterla qualora avesse disobbedito al suo ordine, oppure non commetteva abuso di esercizio della “potestà maritale” l'uomo che esigeva il sacrificio dell’attività professionale della moglie, o, ancora, una donna poteva essere legittimamente licenziata per causa di matrimonio o di maternità, o, finanche, l’adulterio era un reato punibile con la reclusione, solo che non veniva applicato lo stesso metro di giudizio tra uomo e donna. Lo stabilivano in maniera inconfutabile alcune sentenze della Corte di Cassazione negli anni sessanta. Per non parlare poi del delitto d'onore, reso celebre dal film Divorzio all'italiana.
In sostanza codice civile e penale risentivano, ancora negli anni settanta, l'influenza dei vecchi famigerati codici fascisti, e il diritto di famiglia era il tipico esempio di una normativa superata dalla realtà, che si rifaceva ad usanze e tradizioni che risultavano del tutto anacronistiche, ed era paragonabile all'immagine di un gigantesco fossile o di un pachiderma la cui presenza veniva continuamente aggirata dallo Stato ma mai modificata secondo meccanismi più moderni e civili. Anche allora la classe dirigente del Paese stava a guardare. Sarebbe bene ricordarselo, proprio in questi mesi che si fa un gran parlare, sulla stampa, in televisione, su internet, di nuove tipologie di famiglia e di coppia, di diritti civili, di rapporti tra religione e politica, tra Stato e Chiesa.
Da un’analisi attenta emerge chiaramente che la vicenda che portò all'introduzione del divorzio nel nostro Paese, non è stata l'ideazione o il patrimonio esclusivo dei gruppi radicali e femministi, come troppo spesso si è portati a credere sulla base di analisi poco attente. Si è trattato, piuttosto, di una grande battaglia civile, che ha visto protagonisti sia i sopracitati gruppi "avanguardisti", ma anche le grandi masse dei partiti tradizionali, socialisti e comunisti da un lato, e cattolici dall'altro. Non vanno poi dimenticati l'influenza e il peso esercitati dalla Chiesa, contraria all'introduzione dell'istituto del divorzio per ovvi motivi. Emerge, da questa ricostruzione a tutto campo, un quadro complessivo molto diversificato, con posizioni non appiattite sul “si” o sul “no” al divorzio, che va oltre l'immagine contrapposta della folla proveniente da tutta Italia che si riuniva a Roma in piazza Cavour, davanti al “Palazzaccio” (proprio la sede della Corte di Cassazione) per gridare il proprio «sì» al divorzio, mentre, poco distante, il Papa si affacciava alla celebre finestra dei Palazzi vaticani per impartire l’apostolica benedizione ai tantissimi fedeli, ma più esplicitamente, per difendere la famiglia dagli assalti dei divorzisti. Sul fronte divorzista, per esempio, balzano all'occhio notevoli differenze.
(Archivio Alinari)
Una cosa è, per esempio, la posizione dei gruppi femministi, della Lid, dei radicali, delle avanguardie intellettuali laiche come il gruppo de "L’Espresso" (che, ironicamente, nel delicato contesto, a rischio di democrazia, mentre infuriava la crisi economica nazionale e quella energetica internazionale, tra le bombe della strategia della tensione ed il piombo dei primi attentati dei brigatisti rossi, sulle sue pagine, parlava di trattative segrete e «messaggi aerei» tra Pci e Dc che, per compiere il tragitto da via delle Botteghe Oscure a Piazza Sturzo, percorrevano il tortuoso itinerario che passava da Piazza San Pietro, i cui protagonisti, come emerge dalle carte consultate, erano, nel linguaggio cifrato, il "rettore dell’Università", il "prete bianco" e il "motociclista", ovverosia nell'ordine Enrico Berlinguer, Paolo VI e il cardinale Giovanni Benelli).
Un'altra, ben più moderata, è la posizione dei più importanti quotidiani nazionali, a partire dal “Corriere della Sera”, e ancora diversa quella dei comunisti (già nella dirigenza si manifestarono divergenze, durante le riunioni di Direzione, tra la posizione di Berlinguer e quella di Giorgio Amendola) propensi alla trattativa per evitare rotture col mondo cattolico e la Chiesa, sollecitati dalle pressioni rivolte a Berlinguer dall'ex sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, a stretto contatto con la Dc e con il Vaticano che sortirono il risultato concreto di alcune astensioni sul fronte divorzista, per esempio, durante il voto al Senato del 1969 (e come dimostrano per la prima volta
le lettere inedite pubblicate nel volume).
Diverse sono le posizioni espresse dai socialisti (divisi tra l’ala più battagliera di Loris Fortuna e quella più cauta di Francesco De Martino) e quelle del movimento dei cattolici democratici per il “no”, di Mario Gozzini, Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Romano Prodi, o dai vari gruppi del dissenso religioso, come i Cristiani per il socialismo o le riviste di "controinformazione", che appoggiarono la battaglia sul divorzio, mentre l’associazionismo cattolico parve dividersi al suo interno (Azione cattolica, Acli, Fuci), e solo il nascente movimento di “Comunione e liberazione” decise di rimanere totalmente fedele alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica e della Cei. Sul fronte antidivorzista, dentro la Chiesa, la posizione dell’episcopato stesso non si presentò univocamente contraria, come appariva pubblicamente e come spesso si tende a credere (per esempio, la posizione più "possibilista" del cardinale Michele Pellegrino, vescovo di Torino fu ben diversa da quella intransigente del resto delle alte gerarchie ecclesiastiche), così come si differenziò da quella portata avanti dai gesuiti, in parte propensi alla mediazione col fronte laico, o da Paolo VI, nonostante la sua presa di posizione in extremis (ma la vicenda si intrecciava sempre più alla generale questione della revisione del Concordato).
Anche dentro la Dc si evidenziarono posizioni difformi, in ogni caso, tendenti all’immobilismo: la sinistra democristiana di Giovanni Galloni e Luigi Granelli, da un lato, la destra di Guido Gonella e Oscar Luigi Scalfaro, dall’altro, Giulio Andreotti a metà del guado, Amintore Fanfani nelle parti del “decisionista” (il quale sostenne che, dopo l'istituzione del divorzio, sarebbe stato possibile perfino il matrimonio tra omosessuali e, rivolgendosi agli elettori, dichiarò che le mogli avrebbero presto lasciato i mariti per scappare con qualche ragazzina), mentre Aldo Moro non riuscì ad ottenere, in quell’occasione, l’appoggio del suo partito, come si capisce bene dagli sviluppi dell’intricata vicenda dell’elezione alla presidenza della Repubblica di Leone nel 1971, quando, come emerge da verbali finora mai consultati, la Dc propose al Pci una sorta di tregua “armata” sul divorzio in cambio di un'astensione, mentre Berlinguer, in un incontro riservato, aveva proposto a Moro addirittura i voti comunisti e socialisti per la sua elezione al Quirinale.
Schierati apertamente contro il divorzio e a difesa della famiglia tradizionale erano, invece, il Msi e i comitati civici per il referendum sul divorzio, messi in piedi da alcuni intellettuali cattolici, intransigenti moralisti, in particolare il Cnrd di Gabrio Lombardi, che, alla vigilia del voto al referendum, profetizzava che se avessero vinto i divorzisti le industrie sarebbero state nazionalizzate, gli scrittori perseguitati, gli intellettuali dispersi nelle galere e nei manicomi e che i confini nazionali sarebbero stati aperti ai carri armati sovietici». Il quadro tratteggiato nel volume mette in luce, in realtà, una società italiana molto diversificata, tutt'altro che riconducibile a schematiche categorie sociali schierate per il divorzio, o contrarie ad esso. Con l'ausilio degli articoli sui giornali dell'epoca, scandagliando i più importanti fondi archivistici dei partiti politici italiani, i volantini e gli opuscoli dei movimenti e dei variegati gruppi della società civile, con l'analisi dei documenti ufficiali della Chiesa e delle lettere inedite di molti dei diretti protagonisti, si ripercorrono le tappe di quella che rappresenta indubbiamente una delle pagine più importanti della storia della libertà di scelta nel nostro paese, in cui, per la prima volta, la società civile irrompe con forza e consapevolezza da protagonista sulla scena politica italiana, dimostrando, tra l'altro, anche allora, di essere ben più avanti della propria classe dirigente e della politica, sulla valutazione della tematica dei diritti civili come fondamentale termometro del livello di democrazia di un paese.
Una cosa la si può dire (non anticipiamo altro perché rimandiamo i lettori alla lettura del libro): la lunga e travagliata vicenda del divorzio, che aveva finalmente reso protagonista, per la prima volta, tutta la società italiana, non si chiuse, come molti pensano, con la vittoria dell'anticlericalismo. E' vero che si segnò il lento e inesorabile destino della cultura cattolica ufficiale come maggioritaria nel paese, è pur vero che il mondo cattolico si spaccò pubblicamente, per la prima volta, su un tema di così importanti risvolti civili, ma è anche vero che di lì a poco ci fu il ricompattamento dell'ala intransigente e del polo moderato del cattolicesimo italiano, contro l'affermazione della cosiddetta "società radicale" e contro la regolamentazione per legge dell'aborto. E quella vicenda non si chiuse neppure con la vittoria del libertinismo: gli italiani non abusarono affatto nell'utilizzo del divorzio, come dimostrano le statistiche, in particolare del periodo 1973-1978: se la curva dei divorzi s'impennò, dagli anni ottanta in poi, si tratta di un fenomeno legato direttamente alla crisi strutturale della famiglia, della società e della politica italiana e non certo all'attivazione dell'istituto del divorzio in sé. Quella vicenda rappresentò, ben più semplicemente, la vittoria del pluralismo e il normale approfondimento dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione della società italiana, in linea con il percorso più generale, sviluppatosi, salvo qualche rara eccezione, in tutto l'Occidente.
(Tratto da: “Affari italiani”, poi ampliato nel volume, “Il divorzio in Italia.
Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum” (Milano, Bruno Mondadori)