I figli non sono nostri
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Quando si pensa ai diritti dell'infanzia di solito, vengono in mente i casi estremi, quelli che si esprimono bene nelle immagini dei bambini che muoiono di fame nei paesi sub-sahariani, dei piccoli rifugiati a causa di atroci guerre, dei piccoli profughi palestinesi o dei giovanissimi migranti giunti sulle carrette del mare. Situazioni come queste siamo abituati a vederle spesso in tv o in rete, provenienti da posti più o meno lontani, dove i minori sono vittime, spesso totalmente inconsapevoli, della ignorante ferocia degli adulti.
Di recente, in Honduras, centinaia di bambini, seguiti a pochi passi da agenti armati fino ai denti, hanno marciato per le strade, al grido “Non vogliamo più vedere armi, vogliamo la pace”, chiedendo al regime che si ponesse fine alle ingiustizie sociali e alla militarizzazione delle loro vite. Scene come questa sono già molto più rare. Non gli adulti ma i bambini stessi prendono consapevolezza del ruolo che hanno rispetto allo scenario del mondo futuro e chiedono il rispetto dei propri diritti.
In realtà, oggi, a parte le lamentele per il governo che non governa e per l'acutissima crisi economica, a pochissimi verrebbe in mente di pensare che nel nostro civilissimo paese i diritti dell'infanzia vengono troppo spesso ignorati e, comunque, continuano ad essere fortemente limitati. Pensare che, in tema di diritti civili e umani, l'Italia non stia peggio degli altri paesi europei più importanti, è un banale luogo comune. Una ulteriore prova di ciò è l'arretratezza in cui versiamo nel campo dei diritti dei bambini.
In un libro scritto nel lontano 1974, dal titolo emblematico, “I figli non sono nostri”, il magistrato e presidente del Tribunale per i minori di Firenze, Gian Paolo Meucci, forniva una documentata requisitoria contro lo stato di abbandono, rifiuto e mis-conoscenza in cui l'allora vigente legislazione e il costume sociale confinavano i bambini, spingendoli, in molti casi, al disadattamento e alla devianza, salvo poi intervenire con sanzioni repressive. Secondo il codice civile italiano, ancora negli anni Settanta, i figli avevano solo il dovere di onorare i genitori; per il resto, essi erano paragonabili più a ombre e fantasmi che a persone in carne ed ossa.
Da allora sono passati ormai quasi quarant'anni, ma se incrociamo i dati estrapolati da alcuni rapporti forniti da Unicef, Save the children, Amnesty International, Caritas-Migrantes, Istat, Cies (Commissione indagine esclusione sociale) e Crc (Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza), scopriamo in modo inequivocabile che l'Italia è un paese incredibilmente in ritardo anche su questo delicato tema.
Secondo quanto è stato sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia (1989) e dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (1996), provvedimenti che hanno portato felicemente a compimento il cammino iniziato con la Carta delle Nazioni Unite (1945) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948), i primi fondamentali diritti umani riguardano proprio quelli dei bambini. Il parlamento italiano era andato nella giusta direzione quando, nel 1997, aveva approvato una legge dal titolo Disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e l'adolescenza che si poneva il problema non solo in riferimento a situazioni di degrado sociale, ma anche a condizioni di normale esistenza. Si trattava di garantire ai bambini e agli adolescenti, la libertà di scelta e di espressione, il diritto alla vita, alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo, alla sicurezza sociale, al ricongiungimento familiare per minori stranieri, all'affidamento e all'adozione familiare, la lotta all'abuso e allo sfruttamento sessuale e lavorativo, l'accesso ai servizi in ospedale, in particolare per i disabili, la sicurezza contro gli abusi in carcere. Ma da allora in poi, complice il non rifinanziamento del progetto, l'incidenza di quella buona legge nella realtà si è praticamente dissolta.
Il rischio di discriminazione pesa soprattutto riguardo all'accesso all'istruzione e ai servizi sanitari da parte di bambini in condizione di svantaggio sociale o disagio economico, appartenenti a minoranze etniche, linguistiche e religiose, stranieri, specialmente se non accompagnati, richiedenti asilo o rifugiati, diversamente abili, nati al di fuori del matrimonio, senza famiglia, reclusi in istituti penali.
Se consideriamo il grado di benessere materiale dei bambini, a fronte della fascia più alta di paesi come Svizzera, Islanda, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia (con una disuguaglianza inferiore alla media Ocse), l'Italia si colloca nella fascia più bassa, insieme a Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria, Stati Uniti e Slovacchia. Se prendiamo in considerazione la variabile dell'istruzione dei bambini, ben lontano da paesi come Finlandia, Canada, Danimarca e Svezia, il nostro paese si colloca ancora nella fascia più bassa, insieme a Lussemburgo, Repubblica Ceca, Grecia e Stati Uniti. In relazione, infine, al benessere nella salute dei bambini, a differenza di paesi avanzati della prima fascia come Paesi Bassi, Norvegia, Germania e Svizzera, l'Italia si trova sempre nella fascia più bassa insieme a Grecia, Spagna, Stati Uniti e Ungheria.
Sembra incredibile ma ci posizioniamo al ventesimo posto sui 24 paesi Ocse quanto a livello di benessere materiale dei bambini, al ventunesimo sul benessere educativo, e al penultimo posto nel campo della salute. Aggregando gli indici delle tre fasce si ottiene una classifica che vede Danimarca e Finlandia in testa, Italia e Grecia in coda.
I minori in condizione di povertà relativa in Italia sono circa 1 milione e 728 mila, ossia il 23% della popolazione povera; ben il 61% di loro ha meno di 11 anni; il 72% risiede al Sud, dove si concentra il 65% delle famiglie povere; nonostante nel Sud risieda soltanto il 32% del totale.
Come testimoniato da un dossier della Caritas, i minorenni stranieri che vivono in Italia (1 su 5 del totale) raggiungono livelli di istruzione molto bassi: meno del 25% continua gli studi dopo il diploma, contro il 40% degli italiani; hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari di base (1 migrante su 3 non ha il tesserino sanitario); il 90% non è in grado di convertire il permesso di soggiorno, al raggiungimento della maggiore età. La conseguenza è l'allontanamento, oppure il passaggio alla invisibilità sociale. Le recenti politiche sull'immigrazione hanno alimentato sempre più condizioni di precarietà esistenziale e culturale nelle famiglie straniere e si sono rivelate dannose per la maturazione psicologica e lo sviluppo sociale dei figli dei migranti, cioè dei giovani italiani di domani. Emerge, più in generale, una grave carenza sul principio di partecipazione dei bambini, richiamato nell'art.12 della Convenzione del 1989: la scuola non riesce a svolgere alcun ruolo significativo nello sviluppo dei processi partecipativi dei minori, e non tiene affatto in considerazione le opinioni, le indicazioni, le aspettative degli alunni.
In questo contesto così sconfortante, le uniche forme di “interesse” da parte della società (non solo italiana) nei confronti del comportamento dei bambini, sembrano indirizzasi su strade completamente sbagliate. Nel 2010 un gruppo di ricercatori dell'università della California ha pubblicato sul “Journal of Nutrition Education and Behavior” una indagine dal titolo Characteristics of Food Industry Web Sites and “Advergames” Targeting Children. La ricerca è stata condotta su circa trecento pagine web di aziende e catene di ristorazione, allo scopo di esaminare le strategie da esse adottate per prolungare il tempo di permanenza dei bambini sui loro siti. La tendenza riscontrata è stata l'uso di videogiochi on-line assolutamente diseducativi, che catturano l'interesse dei bambini, irretendoli dentro forme di pubblicità invasiva. La tecnica pubblicitaria si chiama advergames e fa uso di software on line, spesso costruiti con tecnologia flash, con grafiche coloratissime e famosi personaggi di fumetti e film di animazione. In mezzo al gioco, all'improvviso e in maniera prolungata, compaiono spot pubblicitari che riguardano cibi altamente calorici, come caramelle e cioccolato. Questi meccanismi sono usati, con tutta evidenza, per tenere i bambini incollati allo schermo del pc, affinché interiorizzino messaggi pubblicitari ingannevoli.
E' evidente, dunque, che non siamo poi così lontani dal quadro di arretratezza e di ingiustizia che lamentava Meucci quarant'anni fa: ancora oggi i bambini (poveri e stranieri) in Italia sono considerati alla stregua di meri strumenti senza diritti, tutt'al più, oggetti di consumo.
Fonte: Linkiesta
Italia a basso sviluppo "umano"
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
In questi ultimi tempi, soprattutto dopo la vicenda del fallimento della Grecia e le difficoltà di Portogallo e Irlanda, non si fa altro che parlare del possibile declassamento dell’Italia, da un punto economico, a paese di secondo rango. Il problema è indubbiamente reale e non va sottovalutato. Anche analizzando la questione esclusivamente in termini di Pil, un parametro di comparazione ormai limitato e tutt’altro che efficace, la parabola discendente del nostro paese appare inconfutabile: da quinta potenza mondiale, nel 1986, quando scavalcammo addirittura l’Inghilterra, a ventinovesima oggi, in termini pro capite. Per dare un’idea del degrado socio-economico del paese basta ricordare due dati: il potere di acquisto dei salari italiani è progressivamente diminuito da 13,6 punti del 1971 a circa 1 punto nel 2010; il compenso per ora lavorativa è ben al di sotto di paesi europei come Svezia, Danimarca (dieci volte maggiore), Norvegia, Germania, Francia, e tra i più bassi di tutti.
Se poi osserviamo il livello di competitività dei paesi mondiali non attraverso il dato del semplice benessere economico o del salario medio ma secondo un’altra più interessante e utile lente, cioè a dire lo sviluppo culturale e i diritti umani, ci rendiamo conto di essere diventati, e da un bel pezzo, uno dei fanalini di coda.
Si lamenta il profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica insensibile agli effettivi problemi e bisogni della gente e il mondo vitale della società che si impegna nella quotidianità ed è veramente costruttore di storia. Questo aspetto è emerso, con grande portata ma non ancora con l’impatto rivoluzionario di cambiamento che certe premesse meriterebbero, in occasione del recente voto referendario.
Si depreca, spesso, che il parlamento sia indotto a legiferare solo sulla base degli interessi opportunistici di singole personalità o di spinte corporative di ben individuati gruppi di pressione (dalla P2 alla P4), o, eventualmente, a seguito dell’esplodere di problemi enormi (tipo il caso dei rifiuti di Napoli), rincorsi, più che previsti. Sono ormai dati di fatto, che condannano, nel giudizio ormai quasi unanime della storia, le classi dirigenti degli ultimi decenni.
Non si deve affatto pensare, però, che prima l’Italia fosse un paese all’avanguardia nel campo della legislazione sui diritti e nello sviluppo umano. Siamo sempre arrivati in enorme ritardo rispetto ad altri paesi europei all’appuntamento con leggi e provvedimenti volti a migliorare il grado di civiltà del paese.
Per dare l’idea basti prendere in esame, sinteticamente, alcune vicende. La legge sull’adozione dei minori prevista in Svezia o in Olanda molti decenni prima, in Italia veniva abbozzata solo a partire dal 1965, e con moltissimi limiti, ovvero con l’adozione speciale (poi rivista nel 1983), e tuttora non proprio all’avanguardia.
La legge che ha reso legale il divorzio fu votata in Italia nel 1970 (solo Spagna, Irlanda, Liechtenstein e Andorra, tra i paesi europei, a quella data, non l’avevano ancora fatto), mentre in Inghilterra una simile legge era presente fin dal 1857 con il Divorce Act e in Francia addirittura dal lontano Code civil del 1792.
La legge sull’assistenza psichiatrica in Francia è stata promulgata già alla fine dell’Ottocento, e mentre in Inghilterra e in Svizzera la psichiatria era comunque considerata una materia di primo ordine e di alto valore sociale, in Italia, come al solito in netto ritardo, doveva arrivare Basaglia, nel 1978, ad aprire alcune prime utili prospettive legislative in un settore totalmente snobbato ed emarginato.
La legge sulla regolamentazione della gravidanza, approvata da noi solo nel 1978, quando nella quasi totalità degli altri paesi del mondo già esisteva (eccetto che nei casi di Spagna, Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo, e di pochi altri paesi africani, asiatici e sudamericani).
Infine la legge contro la violenza sessuale sulle donne, approvata in Italia, pur con molti limiti, nel 1996, con un ritardo a dir poco abissale rispetto ad altre legislazioni di paesi europei e occidentali.
In un contesto di cronica arretratezza, però, il parlamento italiano, pur dominato da posizioni contrapposte tra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione, e pur segnato da quello che alcuni politologi hanno definito un limite di “decisionismo”, dovuto alla poca forza del potere esecutivo rispetto al legislativo, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni sessanta ai primi anni ottanta, era riuscito, in qualche maniera, ad allinearsi, in un certo senso, con gli altri paesi “civili”.
Quello che è accaduto successivamente, dagli anni Novanta, dopo la spinta al bipolarismo e la nascita dei “moderni” partiti mediatici, è, in buona sostanza, sotto gli occhi di tutti. Ma forse è bene rinfrescare la memoria a chi tende a dire “tanto è così un po’ dappertutto”, oppure, “è colpa della crisi globale”. Anche in questo caso, riportare qualche esempio, rifacendoci proprio a quei parametri di “sviluppo umano” accennati all’inizio, può essere utile.
A tal proposito ci viene in aiuto una fonte estremamente interessante, ovvero lo Human Development Report 2010 delle Nazioni Unite. Un rapporto fondato sull’analisi di una serie di indicatori raggruppati in alcune aree considerate essenziali allo sviluppo. E’ evidente che solo comprendendo quali siano i veri fattori chiave che alimentano lo sviluppo e la produttività e quali gli ostacoli da rimuovere, si possono mettere in atto riforme capaci non solo di migliorare il reddito pro capite ma soprattutto di dare maggiori opportunità ai propri cittadini.
E’ utile analizzare, a questo proposito, alcune variabili come la possibilità di accesso alle istituzioni e al mondo del lavoro da parte di uomini e donne, la funzionalità delle infrastrutture, l’impatto delle politiche su salute e istruzione (primaria, superiore e universitaria), la disponibilità tecnologica, l’innovazione della ricerca.
Secondo questi parametri l’Italia, con 23 punti, si colloca addirittura intorno alla cinquantesima posizione in termini di livello di competitività (si tenga presente che la Norvegia, ovvero il paese più progredito, ha totalizzato 1 punto, mentre l’ultimo, il Congo, 169 punti) e su almeno 9 dei 12 parametri, è messa molto peggio degli altri paesi sviluppati, e, sembra incredibile, anche di alcuni paesi in via di sviluppo. Solamente tra il 2009 e il 2010 siamo scesi di cinque posizioni in classifica, producendo un impoverimento della popolazione italiana ed allontanandoci sempre più dal benessere, non solo economico ma anche culturale e sociale, degli altri cittadini del mondo. Non solo di quello occidentale ma anche medio-orientale, africano e asiatico.
Scendendo nel merito, si scoprono informazioni interessanti circa i livelli più bassi toccati dal nostro paese. Non molti sanno, infatti, che la quota di popolazione italiana con almeno il livello di istruzione secondaria raggiunge appena il 46,7% contro una media dei paesi sviluppati Oecd del 73,8% (con livelli ben più alti per Norvegia 99, Australia 96, Stati Uniti 94, Germania 91).
Un altro elemento su cui riflettere, a dispetto delle continue richieste di abbassamento dei livelli di spesa pubblica formulate dall’attuale classe politica, sono le spese per la sanità, con un punteggio di 2686, contro una media dei paesi sviluppati Oecd di quasi il doppio (4222), in particolare le spese in letti di ospedale (39 contro la media europea di 63).
Oltre alle note differenze di salario tra uomo e donna, in linea peraltro con i 33 paesi principalmente sviluppati (il 74% circa rispetto a quello degli uomini nel periodo 2003-2006), colpisce il bassissimo dato dei seggi in parlamento occupati dalle donne, per l’Italia appena il 20,2% contro 47% di Svezia, 39 di Olanda, 31 di Germania, 41 di Finlandia, 33 di Spagna, ma soprattutto sorprendono le medie, ben superiori alla nostra, di stati come Singapore, Portogallo, Emirati Arabi, Argentina, Costarica, Sud Africa, Cina, Cuba e perfino Iraq.
Altri dati significativamente bassi sono quelli relativi: al grado di impegno politico della cittadinanza, con i 14 punti dell’Italia (meno di noi solo paesi come Polonia, Romania, Kazakistan, Armenia, Sri Lanka, Bangladesh, Yemen, Myanmar, Nepal e Zimbawe); e al livello di soddisfazione per la libertà di scelta e la rappresentanza politica, in cui il nostro paese si colloca a quota 60 punti (tra tutti gli stati del mondo raggiungono un punteggio inferiore solo Corea, Grecia, Slovacchia, Estonia Ungheria, Bulgaria, Albania, Ucraina, Romania, Algeria, Mongolia, Pakistan, Congo, Madagascar, Togo, Senegal, Etiopia, Zimbawe, Burundi, Cuba e Iraq).
A proposito di libertà intesa in senso più ampio, può essere utile riportare ciò che riferisce Amnesty International sul nostro paese nel Human Rights Report 2011, per confrontarlo col recente passato. Potrebbe apparire paradossale il confronto ma, a ben guardare, non lo è affatto.
Nel Rapporto sulla Tortura negli anni Ottanta (pubblicato da Amnesty), cioè in pieno terrorismo, si può leggere che la tortura ed il maltrattamento di persone nelle carceri non erano una prassi di normale amministrazione in Italia.
Nel recente rapporto relativo agli ultimi anni, invece, si parla di violazione costante dei diritti di Rom e Sinti, sprezzanti commenti discriminatori su lesbiche e gay, formulati da parte di alcuni politici, e violenti attacchi della popolazione contro migranti, che suscitano un clima di intolleranza, impossibilità da parte dei richiedenti asilo politico di accedere alle procedure di protezione internazionale (le domande d’asilo in Italia hanno continuato a diminuire drasticamente), maltrattamenti da parte di agenti delle forze dell’ordine su giovani e su detenuti.
In questo fosco quadro, va ricordato che il governo italiano ha, ancora di recente, respinto 12 delle 92 raccomandazioni complessive ricevute da Comunità europea e Nazioni Unite, e rifiutato di introdurre il reato di tortura nella legislazione nazionale e nel codice penale, nonché di abolire il reato di immigrazione irregolare, soprattutto tenuto conto del cronico sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane.
Alla luce di tutto ciò non pensate si possa tranquillamente concludere, senza timore di smentite, che l’Italia è stato ed è ancora un paese dallo sviluppo troppo poco “umano”.
Tratto da: “il Mondo di Annibale”
(Fonte Internet)
Fuga dall'Italia
Chiede oggi Crainz al paese, dalle pagine di Repubblica, a proposito dello sciopero della stampa di domani: è possibile continuare in questo modo? La sua risposta è ovviamente "no", e vi argomenta tutta una serie di motivi per cui siamo arrivati oltre il limite di guardia della democrazia, riportando, da fine storico qual è, qualche glorioso esempio di giornalismo del passato che non si piegò al conformismo e che contribuì alla riscossa democratica del paese, svoltasi anche ma non solo nelle piazze (si pensi all'opposizione ferrea in parlamento dei partiti della sinistra laica ma anche delle forze cattoliche democratiche in piena secolarizzazione), per esempio, dopo i danni provocati dal governo di Tambroni del 1960: giornalisti e stampa, partiti antifascisti, forze intellettuali, sindacati, associazioni e gruppi della società civile, tutti uniti. Quello è stato indubbiamente un momento storico difficilissimo, che poteva preludere al peggio, per esempio al "tintinnar di sciabole" del golpe o ad altre soluzioni reazionarie, ma è altrettanto indubbio che quella era tutta un'altra Italia. Era un popolo che seppe reagire, perché, in fondo, si voleva bene, voleva bene al suo paese.
Voler bene all'Italia, oggi, è molto e sempre più difficile per gli italiani. Quando dico oggi non intendo dire negli ultimi decenni o anni, come a volte si dice, individuando nell'annus domini 1994 ovvero nella discesa in campo di Berlusconi con il suo discorso andato in onda a reti unificate, l'esempio di tutti i recenti mali della nazione. Mi riferisco, piuttosto, alle azioni e alla strategia politica di questo ultimo governo in carica (il conto si fa in mesi, dunque). Non si tratta di strategia della tensione ovviamente (di tensione se ne crea eccome nel paese, anche se il precedente storico non è proprio calzante), né tanto meno di strategia dell'attenzione (forse attenzione sì, ma alle classi agiate), ma si potrebbe parlare piuttosto di strategia della distruzione: nel senso di distruggere quasi tutto ciò che di buono il paese aveva fino ad oggi. Non entro nel merito dei provvedimenti che vanno in questa sventurata direzione, lo hanno fatto altri ben più preparati di me nello specifico delle varie leggi (che sarebbero da chiamare non tanto leggi ad personam quanto ad factiones, perché vanno a salvaguardare gli interessi di lobbies e gruppi di potere ben precisi, mentre le masse che hanno votato centro-destra rimangono tuttora a bocca asciutta o quanto meno ad aspettare, illusoriamente, che si vedano i frutti delle tante promesse).
Dico solo che è difficile, per i tanti giovani che vivono qui e che non sono già andati via, voler bene a questo paese. Un paese che non dà più da vivere e da lavorare ai suoi cittadini (il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli drammatici dei primi anni cinquanta, con la differenza però che a quel tempo c'erano state prima il regime fascista e poi la seconda guerra mondiale), che non dà case da acquistare né da affittare a prezzi decenti ai suoi giovani o alle nuove coppie. E' difficile vivere in un paese dove tutto quanto si è sofferto sembra rimanere inutile ed esser tradito (si pensi alle fatiche dei costituenti e dei partiti antifascisti per dar vita ad una costituzione completamente condivisa), la libertà e i diritti per cui si è sempre sperato e ci si è battuti disperdere il loro senso in una politica da troppe parti condotta con ambiguità, intrighi, compromessi di ogni sorta. E vedere che il veleno intossicante che proviene da un certo modo di far politica da anni ormai di moda ha ammorbato anche chi viene da una storia diversa, alta e onesta moralmente, è proprio difficile. E' difficile sentire fiducia in se stessi e per gli altri in un paese dove ben poco va esente dall'egoismo di parte, dall'opportunismo, dal malaffare portato a modello di comportamento per tutti, anzi quasi premiato (si pensi alla nomina dell'ultimo ministro di questo governo, poi costretto alle dimissioni), dove la cronaca è satura di imbrogli, sotterfugi, vizi (non solo sessuali), e dove una smisurata incertezza ostruisce il nostro futuro. Difficile credere nella bontà dell'esistenza quotidiana quando essa, come accade oggi in Italia, non offre quasi più speranze di un miglioramento, non dico solo economico ma quanto meno nei comportamenti, nei rapporti umani. Per questi motivi e per tanti altri che ognuno di voi tutti avrà ben chiari nella sua mente, in molti italiani, oggi, provano un disgusto per il loro paese, un sentimento di ripugnanza e di amara irrisione verso le cose che li circondano, verso le persone che dovrebbero guidarli politicamente, almeno sulla base delle regolari elezioni democratiche, e provano un impulso di levarsele di dosso, di uscire fuori, di andarsene lontani una volta per sempre, per non cadere nella ragnatela di questo meccanismo, di questo sistema di vita e di politica, ma anche per evitare il peggio, di ricadere in reazioni del passato che hanno creato tanto dolore. L'Italia, oggi, è brutto dirlo, per la sua storia, per la sua cultura, senza voler fare la parte dei disfattisti e dei troppo pessimisti, è diventata una specie di macchina in frantumi che non sa più funzionare. E' il caso di lasciarla a se stessa? alle sue macerie? ad un futuro inimmaginabile per le generazioni a venire? Così sentono molti giovani, che pure hanno già lottato affinché certi meccanismi e certe cose cambiassero, o quanto meno non si incancrenissero. Così sentono in tanti italiani, e non solo giovanissimi: al di là delle frontiere, negli Usa come in Inghilterra, in Germania come in Olanda, in Cina come in India, l'estero li attrae, ad esso indirizzano, forse anche sbagliando, ogni loro speranza per l'avvenire. Per tutti loro, o comunque per una gran parte, alla luce degli ultimi due anni di questo governo, e non certo per la solita pregiudiziale anti-berlusconiana che non porta da nessuna parte, ma per fatti e iniziative concrete, non vi sarà stata altra alternativa che andar via. In primis, per i ricercatori, come sottolinea oggi Vaccarino sulla Stampa. A contrastare questo destino, amaro e ingiusto, non rimane che una carta, l'unica possibile, allo stato attuale: che tutta la gente che non avalla questo sistema di governo (non solo gente che ha votato per il centro-sinistra ma anche, ovviamente, gente di centro-destra, per questo sarebbe utile andare a parlare in mezzo a loro, evitando di creare steccati e di parlare sempre e solo ai soliti noti che la pensano come noi), dia mandato a nuove schiere di giovani, uomini e donne, che non hanno mai fatto politica attiva, che non hanno mai avuto condanne penali, ma che hanno invece tante nuove esperienze da proporre, tratte dalla loro vita, dalla loro occupazione e specializzazione, dai loro studi, di formare una nuova opposizione, che si dia un linguaggio politico assolutamente inedito, fatto di azioni concrete, buone pratiche, leggi che stiano al passo con i migliori esempio europei e del mondo, per guidare un nuovo processo democratico, finalmente fondato su valori come il pluralismo, la laicità, l'importanza del ruolo della cultura e dell'istruzione, della ricerca, tenendo conto delle prospettive aperte dal nuovo contesto globale.
Non so se ci vorrebbe un partito completamente nuovo o basterebbe aggiustarne uno vecchio, questo è un problema tecnico o comunque secondario, di sicuro ci vorrebbe una classe dirigente completamente rinnovata e ringiovanita, una suddivisione interna dei compiti e delle mansioni fondata sul valore della competenza e dell'efficienza (non intesa in termini produttivi come un prodotto, ma in termini di qualità culturale in senso lato), e un leader che parli un linguaggio assolutamente diverso da quello espresso in questi ultimi decenni, diciamo dal 1984 in poi, a sinistra come a destra.
Con queste nuove condizioni, cioè a dire con una destra diversa da quella che imperversa oggi, e con una sinistra altrettanto nuova, o almeno con dei leader capaci di esprimere la volontà di due parti del paese opposte, con visioni e idee divergenti, ma civilmente e seriamente disponibili al confronto sulle questioni specifiche, con la condivisione delle regole di base per tutti, solo così molti italiani, soprattutto giovani, potrebbero ritornare indietro dalla loro amara decisione. Se così, invece, non sarà, non rimarrà, per ognuno di noi, che la
fuga dall’Italia.
(Fonte Internet)