Aborto: quando la realtà supera la fantasia
Fonte: Linkiesta
Il recente caso di una ragazza sedicenne della provincia trentina (incinta a seguito di una relazione con un ragazzo albanese appena diciottenne) che aveva deciso di portare a termine la gravidanza contro la volontà dei suoi genitori, i quali però si sono rivolti al Tribunale dei minori per costringerla ad abortire, spiazza i benpensanti e rimette in discussione qualsiasi ragionamento troppo legato a ideologie, religiose o laiche che siano. Stando alle ultime notizie, la ragazza, alla fine, dopo il colloquio con il giudice, pare abbia deciso di abortire. “In totale autonomia” - sottolinea il padre. Ma se così fosse stato sarebbe uscita la notizia sui giornali? Si sarebbero rivolti i genitori al giudice?
Questa vicenda non deve riaprire la contrapposizione ideologica tra “buoni” e “cattivi” sulla revisione della legge 194, ma deve farci riflettere come i tempi cambino e come le leggi vadano, per tempo, aggiornate. Così come non era giusto, un tempo, ordinare per sentenza a una donna di non abortire, solo sulla base di motivazioni religiose, allo stesso modo, oggi, non si può, al contrario, stabilire un aborto per sentenza, contro la volontà della diretta interessata, sulla base di fattori rigidamente socio-economici. Se, a suo tempo, gli estensori della legge 194 fossero stati più lungimiranti e non si fossero fatti condizionare dalle logiche ideologiche contrapposte, oggi un caso come questo non sarebbe finito nelle aule giudiziarie, spaccando ancor di più una già provata famiglia italiana.
A dire il vero, quando la legge 194 fu approvata, nel lontano 1978, questo problema era stato posto, eccome. Non tanto dai legislatori, né dai due fronti ideologici contrapposti nel paese, e neppure dalla stampa. Il contenuto dell'articolo 12 della legge dava vita ad un interessante dibattito, relegato però ai margini, tra gli addetti ai lavori. Sulle pagine dei giornali i protagonisti si dividevano solo su contrari e favorevoli all'aborto (con un'evidente forzatura: chi può essere favorevole all'aborto per principio?), tutt'al più alla legge. Erano, dunque, gli esperti di diritto a porsi la questione che oggi si ripropone, tale e quale, nel caso della ragazza trentina.
Secondo Massimo Cesare Bianca ("Nuove leggi civili", n. 6, 1978) esisteva un grande problema di giustizia sociale rimasto fuori dalle finalità della legge: alla donna, maggiorenne o minorenne che fosse, non veniva affatto garantita la libertà effettiva di non abortire, ma solo quella di abortire, in quanto non veniva sviluppato, in alcun modo, un adeguato welfare familiare, cioè, accanto alla legge, un concreto strumento di partecipazione solidaristica. A differenza di quanto avveniva, da tempo, in altri paesi europei. Va detto infatti che in Francia, per esempio, esisteva già dagli anni Trenta una solida politica di sostegno alla famiglia e alla maternità, basata sul meccanismo degli assegni familiari, del quoziente familiare e dei servizi per la gravidanza. Oppure in Svezia, dove, già nel 1978, quando veniva approvata in Italia con un incredibile ritardo la 194, una donna poteva scegliere o l'aborto o l'assistenza medica e sociale, con un contributo mensile fisso per i primi tempi e con la possibilità data al padre o anche al partner di essere tassato sullo stipendio solo dal 6 al 12% fino a quando il figlio non avesse compiuto i 18 anni. In Italia, invece, la polemica dei cattolici intransigenti del Movimento per la vita (che avrebbe portato avanti addirittura i referendum per abrogare la 194) si soffermava sul fatto che l'art. 12 prevedesse addirittura la possibilità di abortire per una donna minorenne, consigliata dai genitori o da un giudice tutelare. Dall'altro lato, i movimenti femministi e radicali si battevano per una ancora maggiore liberalizzazione dell'aborto: se una ragazza avesse voluto, invece, portare a termine una gravidanza, rivendicando quella stessa libera volontà di scelta, in quanto essere umano e in quanto donna, non sarebbe stato anche quello un diritto acquisito dell'individuo e, come tale, da tutelare?
A interrogarsi su queste problematiche di alto valore etico e sociale non erano dunque i grandi partiti (Pci, Psi e Dc), troppo presi a fare accordi in una fase di emergenza nazionale, a pochi giorni dall'omicidio di Moro, né la Chiesa, troppo chiusa a riccio in una visuale ormai anacronistica, superata dalla ormai avviata secolarizzazione della società italiana, né i movimenti radicali e femministi, ma piuttosto alcuni intellettuali, pochi studiosi, gli esperti.
Massimo Dogliotti ("Giurisprudenza italiana", n. 11, 1982), dopo che un giudice di Cuneo aveva sollevato l'illegittimità costituzionale della 194 per la sua disparità di trattamento tra donna di minore e donna di maggiore età, sottolineava come la legge, in realtà, non tenesse abbastanza conto della posizione giuridica della donna minorenne che veniva mantenuta, nella scelta, in una posizione subordinata rispetto ai maggiori di età, cioè di genitori, giudici, medici.
Francesca Giardina e Barbara Crisalli facevano notare (rispettivamente su "Nuove leggi civili", n. 6, 1978 e su "Giustizia civile", n. 6, 1982), che nella legge e nelle successive sentenze costituzionali non si era tenuto conto della nuova posizione giuridica del minore nella società moderna, garantita e valorizzata da decisioni prese a livello europeo. Era necessario che la ragazza minorenne, da oggetto di diritti o mero destinatario di norme, vedesse riconosciuta sempre più la sua personalità e con essa la possibilità di esplicare una propria autonoma determinazione, da mettere alla prova proprio in particolare e delicate scelte morali e civili personalissime, come era quella sull'interruzione o meno di una gravidanza.
Queste idee venivano affermate più di trent'anni fa. Ma nessuno, nel frattempo, pare essersene accorto, se non oggi che emerge alle cronache un drammatico e delicatissimo caso singolo. Come sempre, insomma, all'italiana, con un modo di procedere che mette in evidenza sempre più il distacco tra classe politica, indotta a legiferare solo sulla base di interessi di parte (chiesa, poteri forti), che si disinteressa degli effettivi problemi e bisogni della gente, e il paese reale. Allora come oggi, le questioni serie vengono sollecitate e affrontate solo da pochi esperti, singoli studiosi, qualche operatore del settore, mentre la politica appare sempre più a rimorchio della realtà, portata a intervenire solo a seguito dell'esplodere di problemi enormi. Questo vale in economia, così come nella cultura e nella società.
Per fortuna, pare che la vicenda non abbia suscitato le reazioni a cui eravamo abituati: il fronte cattolico intransigente, il Movimento per la vita, i giornali cattolici, la Chiesa in via ufficiale, pare, finora, non abbiano strumentalizzato la cosa per riaprire la battaglia infinita contro la legge. Questo è l'unico aspetto positivo di questa triste vicenda. Che comunque, alla fine, ha segnato una sconfitta, perché ha evidenziato che la funzione dissuasiva nei confronti dell'aborto da parte della legge, non ha funzionato.
Una legge, in generale, conta soprattutto per il suo significato sociale, cioè per l'impatto che assume nella vita concreta dei cittadini. La 194 ha dimostrato di essere una buona legge, ha ridotto la piaga degli aborti clandestini, ha contribuito alla diminuzione degli aborti in generale, ha dimostrato di saper tener conto anche delle ragioni degli obiettori di coscienza. Ma non è, con tutta evidenza, una legge perfetta. Sarebbe bastato aggiungere, nella legge 194, che la decisione di abortire o meno deve essere presa, in assoluta libertà di giudizio, dalla donna, senza alcun limite di età (peraltro, oggi, a sedici anni una ragazza può benissimo decidere da sola). Cioè a dire sarebbe bastato portare alle estreme conseguenze l'idea che solo la donna, maggiorenne o minorenne che sia, e non certo un giudice, un medico, un marito, un tutore o i genitori, può decidere se portare avanti o meno una gravidanza. E' infatti la donna che, a prescindere dall'età, rimaneva, rimane e rimarrà sempre sola in questa delicatissima decisione. Né la famiglia (genitori, parenti), né la società (il servizio di assistenza, in consultorio), né lo stato (il giudice, il medico). Con buona pace delle ideologie di ieri e di oggi, solo lei. Nessun altro.
Fonte: Linkiesta
Adozione dei minori. Per una legge che rifletta i cambiamenti della società
(Fonte: Globalizzazione, Giunti)
Di recente il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta ha riconosciuto, in Italia, un provvedimento di adozione per un bambino africano di 7 anni (dello Zambia) da parte di una donna siciliana (nubile, di professione medico), che lo aveva avuto in affidamento quando aveva solo pochi mesi. Si tratta di un' adozione "particolare", concessa a un singolo genitore, non coniugato: in questo caso con la motivazione che il piccolo è orfano di entrambi i genitori ed ha avuto un rapporto preesistente stabile e duraturo con la donna. Se un marziano avesse messo piede sul nostro paese proprio subito dopo quel riconoscimento, avrebbe subito pensato di trovarsi in un luogo all'avanguardia in tema di diritti civili e in particolare dei minori. "Visto" , avrebbe detto, "voi italiani state sempre a lamentarvi del profondo distacco tra paese legale e paese reale, tra il chiuso mondo della politica, insensibile agli effettivi problemi e ai bisogni della gente, e il mondo vitale della società impegnato nella quotidianità! State sempre lì a dire che il parlamento è indotto a legiferare sulla base solo di spinte corporative e gruppi di pressione, e comunque sempre e solo a seguito dell'esplosione dei problemi, quando si sono incancreniti, e mai prima! E invece avete delle ottime leggi, che noi marziani non possiamo far altro che invidiare." Purtroppo, al di là di questo simpatico siparietto tra il marziano e gli italiani, la questione si pone in termini ben diversi. L'adozione del bimbo africano da parte del medico siciliano è un caso rarissimo. In realtà, anche sotto questo punto di vista, purtroppo, l'Italia appare una nazione del tutto arretrata, bloccata, poco competitiva, rispetto agli altri paesi europei. Scopriamo il motivo, ripercorrendone sinteticamente le tappe storiche.
A dire il vero, all'inizio della storia, le cose erano andate piuttosto bene. Si è quasi corso il rischio, nella seconda metà degli anni sessanta, di essere considerati un paese civile e all'avanguardia. Fu proprio quello della riforma sull'adozione dei minori e l'introduzione dell'adozione "speciale" il primo vero banco di prova che funzionò come apripista per la legislazione sui diritti civili e familiari nel nostro paese, come dimostrarono poi divorzio, obiezione di coscienza e aborto. Prima della nuova legge, approvata nel 1967, non era raro che migliaia di coppie senza figli rinunciassero ad adottare un bambino abbandonato per i ritardi burocratici o per non correre il rischio di vederselo togliere più avanti. Secondo i dati dell'Istat di allora, nel 1964 esistevano circa 150 mila bambini ricoverati in istituti di assistenza. Accadeva spesso che un bambino abbandonato venisse affidato a una coppia senza figli e che, dopo anni, si facesse vivo il genitore naturale a chiedere una cifra mensile "per non creare difficoltà". Poteva accadere perfino che una ragazza incinta invece di lasciare il bambino al brefotrofio in vista dell'adozione, decidesse di contattare, attraverso un intermediario, una coppia senza figli e glielo facesse avere come "legittimo", presentandosi semplicemente in clinica con un padre non tale. Per ovviare a situazioni incresciose come quelle, il parlamento seguì in quel caso un iter legislativo diverso da quello di quasi tutte le altre norme. Quel percorso rappresentava, infatti, un caso raro nella storia parlamentare italiana, perché si verificava una spontanea convergenza tra i partiti, pur partendo da posizioni fortemente distanti di cattolici e laici, nonché il favore della Chiesa, decisa a promuovere un'adeguata legislazione. Dopo vari studi sui casi esteri di Usa, Inghilterra e Olanda, quella legge prendeva il meglio, differenziando il caso dei minori dai maggiorenni, diminuendo il limite di età per poter adottare (da 50 a 35 anni), fissando in 20 anni la differenza di età con l'adottato, stabilendo l'organo competente nel Tribunale per i minori (e non più la Corte d'appello), prevedendo, infine, un periodo pre-adottivo di 2 anni. Dopo i 5 anni di prova, la legge aveva dimostrato di funzionare, ma privilegiava ancora troppo l'interesse degli adulti su quello dei minori. Inoltre, non aveva evitato del tutto la compravendita di bambini che aggirava l'intervento dei tribunali, non rompeva abbastanza il legame tra minore e famiglia di origine, prevedeva ancora formalità burocratiche e lungaggini. Mentre il numero famiglie adottive era indubbiamente cresciuto, facendo diminuire sensibilmente i minori abbandonati o istituzionalizzati, quello delle adozioni era rimasto esiguo rispetto ai minori adottabili di fatto.
Sedici anni dopo, nel 1983, una speciale sottocommissione senatoriale, dopo aver ascoltato il parere degli operatori del settore, di magistrati, associazioni ed enti che si occupavano da anni dei problemi dell'infanzia e della famiglia, proponeva alcune importanti modifiche alla legge, sulla base dei disegni di legge presentati dai democristiani e dai comunisti, in particolare aumentando la differenza di età tra adottante e adottato e diminuendo i cavilli che davano vita alle lungaggini burocratiche. Nonostante le imperfezioni e le difficoltà sorte nella sua applicazione, la riforma aveva introdotto finalmente il principio del prevalente interesse del minore e invertiva le finalità dell'adozione: dal dare un erede ad adulti che non potevano averne, al dare invece una famiglia ad un bambino che purtroppo ne era privo. Più di un decennio dopo, veniva regolata, anche in Italia, l'adozione internazionale, secondo la Convenzione dell'Aia, e poi con una legge del 1998 che prevedeva l'adottabilità anche per i conviventi, ma solo dopo un certo numero di anni. Nel 2001, però, venivano apportate alcune modifiche alla disciplina dell'adozione nazionale, in particolare l'innalzamento da 40 a 45 anni dell'età che doveva intercorrere tra genitore e minore da adottare e, oltre al matrimonio, una convivenza di almeno 3 anni come criterio di adottabilità, nonché la graduale chiusura degli istituti di ricovero per minori.
La legge italiana perseverava, dunque, nel vietare l'adozione ai semplici conviventi. A differenza di ciò che accade all'estero, in cui si prediligevano le coppie più giovani per l'adozione, e in certi casi anche quelle non sposate. Che la famiglia costituisse ancora negli anni novanta in Italia il luogo privilegiato nel quale emergevano clamorosamente tutte le contraddizioni, gli antagonismi e in conflitti di una società secolarizzata ma ancora alle prese con la forte influenza e il potere della chiesa cattolica, è un elemento di tutta evidenza. Proprio nel campo delle problematiche familiari la chiesa trovava infatti l'elemento cardine su cui costruire la difesa di certi valori tradizionali. Ma questo arretramento legislativo, a fronte delle iniziali aperture dei decenni precedenti, portava, in alcuni casi, anche a conseguenze drammatiche: per esempio, nel giugno del 2000, quando un'ordinanza di un giudice costringeva i carabinieri a effettuare un "blitz" presso un casolare grossetano, allo scopo di sottrarre una bimba alla coppia a cui era stata provvisoriamente affidata per destinarla a una famiglia "in regola". La legge sulle adozioni, infatti, privilegiava ancora come principio il “legame di sangue” con la famiglia di origine, per quanto disagiata essa fosse. Bastavano, inoltre, le sporadiche visite di un parente perché un minore restasse fisso in una casa famiglia, senza che potesse essere dichiarato lo stato di abbandono che portava all’adottabilità.
La legislazione italiana sui criteri necessari all’adozione se da un lato è molto rigorosa e cauta rispetto a quella internazionale, e pone al centro dell'adozione il bene del bambino (e non l'interesse di chi desidera adottarlo), dall'altro, però, rischia di essere superata dai tempi e di non riuscire a far fronte alla richieste di una società sempre più in movimento. I dati parlano chiaro: se nel 1968 ci furono circa 4 mila 400 tra affidamenti e dichiarazioni di adottabilità, nel 1999 le domande di adozione rimanevano altissime, circa 23 mila, ma solo circa 7 mila venivano accolte. Nel 2005 le domande di adozione erano 15 mila e passavano a 20 mila nel 2007, delle quali ancora solamente poco più di 4 mila erano accettate. Nel 2008 ne venivano accolte appena 5 mila, nel 2009 nuovamente in ribasso, circa 4 mila, mentre si registrava, dal 2004 al 2008, un forte aumento dei minori stranieri adottati (67%) contro i minori italiani (32%), mediante l'adozione internazionale, molto più rapida e funzionale: ben 3420 minori stranieri nel 2007. Dal 1995 ad oggi questo tipo di adozione è molto cresciuta, non solo in Italia, ma in particolare in Spagna, Svezia, Norvegia. Anche se i nuovi criteri per l'accreditamento delle agenzie di intermediazione all'adozione introdotti da Russia, Ucraina e India hanno contribuito ad un rallentamento negli ultimi anni.
In ogni caso, il rapporto attuale tra richieste e accettazioni di adozione è di cinque a uno: per la maggioranza dei bambini, allora come oggi, ciò che resta è l'attesa. Un alto numero di famiglie o coppie rinunciano, ancora oggi, a seguito di lentezze burocratiche e attese infinite proprio come negli anni sessanta. Eppure in gran parte del mondo gli orfanotrofi sono pieni, i numeri dell’infanzia abbandonata crescono, e anche in Italia esiste un numero enorme di minori in istituto dichiarati “non adottabili” in base alle norme attuali, ma che avrebbero bisogno di una famiglia: 26 mila bambini, secondo le recenti statistiche dell’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per non parlare poi delle coppie che preferiscono andare all'estero direttamente, pagando la cifra che serve. Dagli anni sessanta ad oggi, a fronte di un aumento costante delle famiglie adottive, dell'aumento dell'intermediazione con gli enti (ovvero consultori familiari ed enti autorizzati Ai.bi), non aumenta la percentuale media delle accettazioni di adozione, non diminuisce l'età media degli adottanti (39 anni per le donne, 41 per gli uomini), a differenza degli altri paesi. Rimane costante la percentuale dei motivi di adottabilità del minore, cioè a dire l'abbandono per il 41% e la perdita della potestà genitoriale per il 43%, mentre si diversificano gli stati di provenienza dei bambini (oggi soprattutto Russia, Ucraina, Polonia, Brasile, Etiopia, Colombia. Vietnam e India).
Se da un lato dunque è giusto rifarsi a criteri di adottabilità equilibrati e cauti, è necessario, tuttavia, che le leggi riflettano i cambiamenti della società in cui viviamo. Una legge "elastica", che sa distinguere i singoli casi, che crea un’eccezione e riconosce, formalmente, una famiglia atipica, come nel caso della donna medico siciliano e del bimbo africano è di buon auspicio per il futuro. Sarebbe bene che questa eccezione costituisse un precedente importante. Come ha già fatto presente una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, è auspicabile, infatti, un rapido intervento da parte del parlamento italiano in modo da ampliare i casi di adozione non solo da parte delle famiglie formalmente riconosciute, ma anche delle coppie e dei single. Anche se per la verità, l'attuale classe politica italiana sembra presa da altri più stringenti problemi, ad esempio su come riuscire a mantenere intatti i propri privilegi di casta. Staremo a vedere.
Fonte: Linkiesta