Cile, lo sciopero dei camionisti portò Pinochet
Fonte: Linkiesta
C’è una strana atmosfera in giro. Qui da un po’, tutto si svolge nella strada. Da qualche giorno, però, dietro l’agitazione e le (solite) parole d’ordine delle rispettive categorie sociali, s’è instaurata una attesa inquieta. Le code sono lunghe. Per il gasolio, soprattutto, che è quasi scomparso. Nei supermercati iniziano a scarseggiare i prodotti. Non manca tutto, ma quelli più deperibili: frutta, verdura, latte, pesce, formaggi. Dopo la crisi i prezzi sono saliti alle stelle, ora l’inflazione ricomincia a crescere. La produzione industriale del paese è crollata da un bel po’. La macchina economica, in generale, sembra essere sul punto di rottura. Il governo ha fatto quello che poteva, ma non è bastato.
Da giorni la lotta sociale è costante: pubblico impiego, scuola e trasporti pubblici, pensionati, tassisti, farmacisti, operai, studenti. Prima le bombe dimostrative contro alcune agenzie pubbliche. Poi gli agricoltori. Ora lo sciopero degli autotrasportatori. Alcuni di loro dimostrano un maggior attivismo di altri. Strade sbarrate, blocchi autostradali, ritorsioni nei confronti di chi non si ferma: basta un niente e gli tagliano le gomme. In alcuni casi, donne e bambini hanno raggiunto i camionisti e le loro macchine. Nelle proteste c’è scappato perfino il morto. Protestano contro il caro benzina, l’aumento delle tasse, i modelli di trasporto, con tariffe costose per lo spostamento su gomma. Mettono a rischio l’attività dei porti più importanti del paese, delle fabbriche nazionali dove non giungono i rifornimenti, provocano danni per milioni.
Ciò che colpisce di più in queste manifestazioni spontanee, spesso populiste e violente, è la passività del governo. Si prendono provvedimenti forti, impopolari, a livello generale. Poi nessuno dà spiegazioni, fornisce risposte. Non si prende, almeno nella direzione di questi ribellioni, misura alcuna. Non si fa alcuna dichiarazione sulle proprie intenzioni per risolvere la crisi. Si dice che si dovranno presto affrontare le questioni politiche ed economiche di fondo, strutturali, sul lavoro, la riforma costituzionale, ma bisogna pur arrivarci a quel punto: i giorni passano, restano in piedi in conflitti, le lotte tra le categorie, tra i partiti, tra gli stessi singoli individui, mentre i problemi economici sono sempre più vivi.
Volgendo lo sguardo al cuore del paese, balza agli occhi, sempre più, lo stridore dei contrasti. Squallore e povertà, mense per gli immigrati prese d’assalto da individui del ceto medio impoveriti, famiglie allo sbando, venti di anti-politica dirompente. La corruzione finisce per coinvolgere un numero sempre crescente di popolazione, per il pure desiderio di condurre un tenore di vita pari a quello degli altri, dei più ricchi: così tutti vogliono belle case, macchine nuove, viaggi all’estero. Ma tutta la miseria e la disperazione più cupa sta nel mondo dei sotto occupati e dei disoccupati: non hanno i soldi per sfamare le loro famiglie, i loro figli, e la rabbia non fa che crescere. E poi, invece, boutique di lusso, concessionarie di auto costose, negozi di oggetti di alta tecnologia. Tutto il denaro è là, nelle mani dell’evasione, di pochissimi privilegiati, industriali, grandi commercianti, medici, avvocati, funzionari locali e stranieri. Tutto, costi e profitti, appartiene a questo mondo, il resto, gli altri ne sono esclusi.
Chiunque, leggendo queste righe, avrà pensato all’Italia di questi ultimi giorni. Eppure non è così. Al quadro, crudo e drammatico, che ho appena descritto, faccio seguire un brano tratto da un diario, un testo scritto da un grande sociologo di nome Alain Touraine, che commenta tutto ciò che successe, convulsamente, qualche giorno dopo quelle durissime proteste popolari:
«Angel Parra, le cui canzoni amavo, è in ora in prigione. ll suo amico Victor Jara, che cantava la contestazione, è stato arrestato all’università al momento del colpo di stato. Una settimana dopo, hanno invitato sua moglie a portarsi via il cadavere dall’obitorio. La sua morte è stata annunciata senza commenti. Pablo Neruda, che ha dato un nome alle rocce e agli uccelli dell’America latina, che ha fatto correre su tutto il continente le parole tenere e disperate dell’amore, della collera, e della speranza, è abbandonato in questa casa depredata, saccheggiata. Il poeta scompare e la dittatura impone il silenzio della menzogna. Ieri, mentre moriva, il fuoco acceso dall’esercito bruciava i suoi libri tra le torri del quartiere San Borja. Non dimenticherò le mie ultime ore a Santiago. Parto domani. Io non posso fare più niente, qui. È crollato un mondo, è crollata una speranza. Da oggi bisogna pensare alla lotta che comincia, allo sforzo di un popolo per riconquistare la libertà».
Tutto questo era, dunque, in Cile. Era il settembre 1973. Allende moriva assediato alla Moneda e i militari di Pinochet prendevano il potere. Colpisce, in questo racconto che parla della situazione cilena, la somiglianza con i problemi sociali e civili che stiamo vivendo in Italia in questi giorni. La protesta degli autotrasportatori di questi giorni ricalca perfettamente i blocchi e le violenze dei camionisti cileni in quei tragici giorni che precedettero il golpe: oggi in Italia essi protestano per il rincaro dell’autostrada, per l’eccessivo costo del gasolio, per l’aumento dell’Iva e delle addizionali Irpef, mentre ancora il 90% delle merci, circa 1,5 miliardi di tonnellate, viaggia su strada, su 4,7 milioni di Tir e a differenza di tutti i più avanzati paesi europei. Mettendo a rischio l’incolumità degli automobilisti italiani, ma nessuno da decenni fa nulla. Mettendo a rischio, in questi giorni, più di 50 milioni di euro di prodotti italiani, in un contesto di crisi già nerissima per l’agricoltura e, più in generale, la vendita al dettaglio.
Il contesto storico è, con tutta evidenza, completamente diverso, il mondo è cambiato, viviamo in un un’età globale, la politica, le dinamiche sociali sono completamente differenti, ma quello che lascia stupefatti è che le situazioni quotidiane delle varie categorie sociali e degli individui alle prese con la crisi finanziaria ed economica sono le stesse, identiche a quelle di allora. I modi della protesta, pure. Che ci sia di fronte un governo di Unità Popular o un governo di tecnici, con l’appoggio tacito di quasi tutto l’arco parlamentare, poco cambia. Certo, il finale di quella vicenda fu una dittatura feroce e sanguinaria, appoggiata da una potenza straniera. Oggi l’evoluzione di quei problemi sarà, di certo, diversa.
Fonte: Linkiesta